Opinioni
Una pratica d’indipendenza
Tornano le polemiche per i magistrati candidati in vista delle elezioni di fine febbraio. È un tentativo di delegittimazione, eppure tutto ciò che accade è regolato, e succede anche in Francia e in Germania
Il rapporto politica magistratura torna in evidenza nella campagna elettorale. Le polemiche si accendono per i magistrati candidati nelle liste degli opposti schieramenti. L’ingresso in politica per loro non è considerato un’ascesa, secondo la recente metafora per cui fare politica non è di minor dignità rispetto ai percorsi professionali, anche se gloriosi. Anche il Consiglio superiore della magistratura, dovendo valutare un magistrato per la sua progressione in carriera, ha sempre considerato l’esperienza maturata in parlamento un arricchimento e non un demerito (salvo penalizzare qualcuno, forse perché questa esperienza l’aveva maturata in uno schieramento non omogeneo alla contingente maggioranza). Il principio comunque resta e discende dal fatto che il magistrato ha tutti i diritti di un cittadino ed anche l’elettorato passivo, può candidarsi ed essere eletto nelle varie assemblee, sia locali sia nel parlamento nazionale. La legge tiene conto delle peculiarità del magistrato e in genere dei pubblici funzionari, prevedendo alcuni limiti, sia pur relativi, come il divieto di candidarsi nella circoscrizione dove si sono esercitate le funzioni. Si vuole evitare che l’esercizio di una pubblica funzione ponga alcune categorie di funzionari, come i magistrati, in grado di esercitare indebite pressioni sui votanti. Ancor prima si riconosce l’incompatibilità dello svolgimento di attività svolte in posizione di neutralità o terzietà con l’adesione a una parte politica, richiedendo che non si possano cumulare le funzioni (bisogna quantomeno porsi in aspettativa). Meno rigidi i limiti per le elezioni amministrative. Esaurito il mandato elettorale, si può tuttavia in ogni caso tornare al proprio originario lavoro, che si ha diritto di conservare. Solo in caso di mancata elezione vige altro limite temporale al ritorno nella circoscrizione ove si era candidati. Va detto che discipline analoghe vigono in Paesi con ordinamenti simili al nostro, in Francia e in Germania ad esempio. Perché mai allora la polemica? Come fenomeno generale, occorre considerare che l’attività dei giudici ha sempre più conseguenze dirette anche sul piano politico: incide e condiziona scelte. Non è solo il noto fenomeno della supplenza, ove si tratta di risolvere conflitti che l’amministrazione e la politica non riescono più a governare e che scaricano sul giudiziario, ma talora di assunzione da parte di quest’ultimo non del ruolo -non neutro- di attore al pari degli altri veri poteri, il governo e il parlamento. Viene da pensare alla Corte suprema Usa, che di recente ha avuto la possibilità di spazzare via la storica riforma sanitaria su cui il presidente democratico aveva giocato il suo intero mandato e che ha invece sostenuto, pur con una sentenza complessa e contraddittoria, proprio affermando e rivendicando il suo ruolo e il suo intervento. Il discorso deve quindi tener conto della concreta dinamica delle istituzioni e della contingenza del momento storico.
Lo scontro tra i poteri nel nostro Paese assume aspetti ancora più peculiari. Il controllo di legalità richiamato dal perdurare della corruzione come sistema, le iniziative nei confronti di rappresentanti d’istituzioni, in parlamento ed anche al governo, le reazioni alla ricerca d’immunità e l’attivazione dei privilegi sono fenomeni consueti di casa nostra in cui lo scontro della politica con i giudici è una lotta che sfocia in reciproca delegittimazione, e non più il portato del conflitto fisiologico derivante dal reciproco controllo (il sistema dei pesi e contrappesi), che è anzi il segno della vitalità delle istituzioni. Il campo dello scontro è enormemente vasto. Si pensi all’inchiesta sulla trattativa Stato e mafia o alla questione del lavoro e dei diritti fondamentali nei casi dell’Ilva o della Fiat. Se la natura del controllo della magistratura ha una caratteristica così dirompente rispetto agli equilibri della politica, è facile cadere nella tentazione di considerare la sua azione come politica anche soggettivamente e di ritenere che il giudice stesso agisca in base a regole che non sono (solo) quelle delle leggi. Ecco che la candidatura di un magistrato che ha operato in quei casi difficili, cosa che appartiene al suo diritto e come tale è disciplinato dalla legge, induce a una semplificazione che identifica l’azione pregressa come azione politica tout court. Non saranno i magistrati in parlamento o al governo ad impedire che determinati poteri si adoperino per limitare le prerogative dei giudici, considerati soggetti politici senza controllo. L’unica forza della magistratura è la sua indipendenza, che è anche la sua vulnerabilità. La difesa migliore sta nella pratica di quella indipendenza, di cui c’è immenso bisogno, nella sua testimonianza totale. Alcuni degli ottimi magistrati ora in competizione erano ben all’altezza di tale compito. —