Economia
Un reddito per tutti
Si chiama basic income, e in tutte Europa esiste dagli anni Novanta. In Italia, invece, l’assegno di cittadinanza è ancora un esperimento in alcune Regioni La povertà è una “crepa sociale”. E per impedire la frana, l’Italia potrebbe dotarsi del…
Si chiama basic income, e in tutte Europa esiste dagli anni Novanta. In Italia, invece, l’assegno di cittadinanza è ancora un esperimento in alcune Regioni
La povertà è una “crepa sociale”. E per impedire la frana, l’Italia potrebbe dotarsi del reddito minimo, come hanno fatto da anni gli altri Paesi europei (vedi box sotto).
Il reddito minimo è un’erogazione monetaria e di servizi destinata a chi vive al di sotto della soglia di povertà, e risponde a un compito sancito dall’articolo terzo della Costituzione: il contrasto della povertà e delle diseguaglianze dovute a ragioni economiche o sociali. Nonostante la fotografia impietosa dell’ultimo rapporto annuale dell’Istat (una famiglia su cinque ha difficoltà economiche crescenti, e il 6,3% addirittura non riesce ad arrivare a fine mese), un provvedimento come il reddito minimo, destinato ai singoli, disoccupati e non, in alcuni casi con la condizione della frequenza di percorsi di reinserimento sociale e lavorativo, non entra nell’agenda del governo. Da noi, a parte sperimentazioni poco fortunate, chi cade “sotto la soglia” rischia di restarci a vita: misure di sostegno al reddito di tipo universalistico non ne abbiamo mai conosciute. A sostenerlo è Andrea Fumagalli, docente di economia politica a Pavia e vicepresidente del Bin Italia, gruppo di studio sul basic income, secondo cui “se intendiamo un’erogazione di reddito monetario o attraverso servizi, individuale, incondizionato e dato ai residenti e non solo ai cittadini, in Italia esperienze di questo tipo non ce ne sono mai state”. Il primo tentativo di introdurre un reddito minimo all’italiana è stato fatto negli anni 90. Trentanove Comuni coinvolti, ma una sperimentazione di cui è rimasto poco. Caduto il governo Prodi che l’aveva voluta è stata cancellata. “Quell’esperimento era basato su alcune buone idee -spiega Marco Revelli, sociologo e docente all’università di Torino-, ma aveva un punto debole, cioè la governance. I Comuni spesso non avevano la preparazione necessaria. Questo elemento di debolezza è stato usato per porre una pietra tombale sull’idea. Quando è cambiato governo non ci si è nemmeno preoccupati di leggere le valutazioni d’impatto di quell’esperimento”. Fu l’unico tentativo a carattere nazionale, mentre dai nostri vicini il reddito minimo già dava i primi frutti. “In Europa, i livelli di povertà sono decisamente alti prima dell’intervento pubblico -spiega Revelli-, intorno al 40% per tutti i Paesi. Dopo la spesa pensionistica in molti Paesi si abbassa, in Italia scende fino al 24%. Buona parte dei Paesi europei abbassa ulteriormente l’indice di povertà, alcuni lo dimezzano. I Paesi scandinavi lo abbattono di 15 punti, Francia e Germania arrivano fino a 9 o 10 punti. L’Italia lo abbatte appena di 4 punti”. La via italiana al reddito minimo non è stata abbandonata del tutto, ma ci sono voluti più di dieci anni per riprendere l’idea. “L’Italia in realtà non ha mai elaborato compiutamente una coscienza dei diritti sociali -spiega Revelli-. Sono affermati nella Costituzione, ma non sono entrati nella mentalità collettiva”. Sono le Regioni a riprovarci. Prima fra tutte la Campania. Nel 2005 la Regione ha attivato il “Reddito di cittadinanza”. Oltre 139mila le domande presentate, ma poco più di 18mila i beneficiari per un sostegno di circa 350 euro al mese. Per accedervi bisogna avere la residenza sul territorio e impegnarsi a seguire dei percorsi di inserimento. Nonostante ad oggi sia l’esperienza durata più a lungo in Italia, i risultati non sono stati così entusiasmanti. “Il provvedimento è diventato una forma di ‘dose’ -racconta Antonio Oddati, dirigente del Settore assistenza sociale per la Regione-, si prende questa indennità come si prende il metadone. L’insuccesso è dovuto alla mancanza di servizi e dell’effettivo reinserimento”. Dopo ci hanno provato il Friuli Venezia Giulia, la Basilicata, la Sardegna, la provincia di Bolzano e per ultimo il Lazio. Simili le condizioni degli interventi: occorre essere residenti, quindi un aiuto destinato anche agli stranieri, frequentare percorsi di inserimento sociale e lavorativo e accettare in taluni casi le proposte di lavoro. In Friuli Venezia Giulia è stato chiamato “Reddito di base per la cittadinanza”: è durato solo un anno, 2007-2008, ed è bastato un cambio di schieramento politico al comando per dare un colpo di spugna. Oltre 8mila domande presentate, la metà quelle accolte, e circa 500 euro il sostegno. La breve esperienza friulana, però, ha dei meriti. Ha messo in evidenza la nuova povertà italiana (l’80% dei beneficiari) e dei lavoratori (il 20%), i cosiddetti working poor che pur lavorando non riescono a stare al di sopra della soglia di povertà. Messe a nudo anche le paure di chi non avrebbe mai immaginato di poter diventare povero: sono diversi coloro che non hanno richiesto l’aiuto per la poca praticità con i servizi a favore delle persone povere o per paura di essere stigmatizzati.
In Basilicata è stato chiamato “Cittadinanza solidale”, con 9.943 domande presentate e 3.738 beneficiari che hanno percepito un aiuto calcolato in base al reddito e al nucleo familiare. Più di 3mila persone i beneficiari in Sardegna. Un contributo massimo di 250 euro mensili per la prima annualità, per nucleo familiare indipendentemente dalla numerosità della famiglia e per un periodo non superiore a un anno, 350 euro nel secondo anno. A Bolzano, oltre 4mila i beneficiari nel 2007, che hanno ricevuto dai 550 euro in su in base alla consistenza del nucleo familiare. Anche qui particolarmente evidente il fenomeno dei lavoratori poveri, il 23,8% dei beneficiari.
Varia il valore complessivo dei fondi stanziati da Regione a Regione. In Campania sono stati stanziati ogni anno oltre 70 milioni di euro. In Basilicata, invece, 41 milioni di euro, mentre in Friuli Venezia Giulia la circa 36 milioni di euro, e 23 milioni di euro in Sardegna nel 2008. Infine, il Lazio, dove sono stati stanziati 40 milioni di euro, 20 milioni per il 2009 e altri 20 per il biennio successivo, per un reddito minimo garantito di circa 580 euro mensili destinato unicamente ai disoccupati, inoccupati e precari.
Sono però esperimenti che restano isolati, mentre si fa largo una sorta di connotazione negativa data al reddito minimo. “In Europa, invece, viene percepito come un sostegno che giunge in un momento della vita che può capitare a tutti, come nel caso in cui il periodo di disoccupazione si prolunga e interviene una ‘rete’ che non è fatta di spiccioli e di carità minimale, ma di rispetto di livelli dignitosi di vita, in primo luogo la tutela del livello abitativo”, spiega Luca Santini, presidente del Bin Italia (www.bin-italia.org). Il ritardo accumulato dall’Italia rispetto al reddito minimo e le poco rosee prospettive per il futuro non lasciano ben sperare. Secondo Revelli a pagare il prezzo di questo ritardo non saranno soltanto i poveri. “L’esposizione al rischio povertà aumenta con tutta una serie di fattori, a cominciare dalla scelta della scuola per i figli, il tipo di consumi, l’investimento strategico su se stessi.
Il rischio è un impoverimento generale della nostra dinamica sociale. Si rischia di creare una seconda società di poveri, impoveriti e timorosi dell’impoverimento che sopravvive sotto la soglia della visibilità sociale, una macina al collo del Paese che rischia di tirarci a fondo”.
L’Europa ci insegna
Italia, Grecia e Ungheria sono i Paesi Ue sprovvista di un sistema nazionale di sostegno al reddito. Nonostante una raccomandazione Cee (la n. 441/92) impegnasse gli Stati membri, già nel 1992, ad adottare delle misure di garanzia al reddito. Basta uscire dai confini nazionali per restare a bocca aperta. Nel resto d’Europa si ha diritto al reddito minimo a partire dai 16 anni. Esemplare il modello francese: si accede al reddito minimo dai 25 anni di età, dai 18 se si è disoccupati con figli. L’integrazione è di 447 euro mensili per il singolo, cifra che aumenta se in coppia e con figli. Nel 2007 i beneficiari del reddito minimo erano oltre 1,2 milioni su una popolazione di 64,5. In Francia, il Revenu Minimum d’Insertion esiste dal 1988, e da luglio 2009 verrà sostituito con il Revenu de Solidarité Active (Rsa), uno strumento che semplificherà il sistema dei sussidi. Per l’Rsa sono stati stanziati 13 miliardi di euro, a carico dell’amministrazione centrale, ma gestiti dalle provincie. In Gran Bretagna, invece, i maggiorenni senza lavoro e con un reddito inferiore a 12mila euro hanno diritto a circa 350 euro mensili, per un periodo illimitato. In Germania basta avere 16 anni per ricevere un reddito minimo di 345 euro al mese. Un disoccupato riceve circa 600 euro in Belgio e in Irlanda, circa mille euro in Lussemburgo e in Danimarca (se si hanno più di 25 anni, altrimenti 700), circa 500 in Olanda e in Norvegia, poco meno in Austria e così via. Il reddito minimo è accompagnato spesso da un aiuto per l’affitto, per il riscaldamento, in alcuni casi anche per la lavanderia e per l’uso del telefono. Una delle differenze più grandi sul reddito minimo tra l’Italia e il resto d’Europa, però, è che mentre altrove viene percepito come un diritto, da noi ha il sapore di un intervento caritativo.