Economia
Un posto a tavola per tutti – Ae 94
L’aumento record nel costo dei cereali ha riportato nell’agenda politica la lotta alla fame nel mondo. Per affrontare il problema della redistribuzione del cibo è necessaria una rivoluzione alimentare globale, ma anche una lotta agli speculatori di Borsa, colpevoli dell’aumento…
L’aumento record nel costo dei cereali ha riportato nell’agenda politica la lotta alla fame nel mondo. Per affrontare il problema della redistribuzione del cibo è necessaria una rivoluzione alimentare globale, ma anche una lotta agli speculatori di Borsa, colpevoli dell’aumento dei prezzi
“Se adesso, in presenza di raccolti globalmente buoni, i tumulti per il pane percorrono il mondo, i prezzi degli alimenti sono alle stelle e gli stock alimentari sono ai minimi storici, cosa succederà quando i raccolti saranno meno abbondanti dal momento che i climatologi prevedono grandi riduzioni nei Paesi poveri, quando dunque alla crisi da aumento della domanda si sommerà una crisi sul lato dell’offerta?”.
La catastrofica domanda se l’è posta il quotidiano inglese The Independent davanti ai moderni moti per il pane. In Africa subsahariana come in quella del Nord, in Asia come in America latina, i tumulti sono provocati dagli alti prezzi degli alimenti di base come frumento, balzato da 160 dollari alla tonnellata nel 2003 a 480, e il riso, passato in cinque anni da 300 dollari la tonnellata a quasi 900.
La fame è la tragedia più antica del mondo, dolore psicofisico e malattia invalidante forse incomprensibile alle pance e alle teste di chi va a dormire, si sveglia, lavora e studia sazio.
Se i prezzi alti sono indice di scarsità, essi ci obbligano a riformulare la classica domanda: c’è, ci sarà cibo per tutti sul pianeta?
“È una domanda davvero molto teorica” risponde Kostas Stamoulis, economista della Fao. “Certo, a dividere aritmeticamente la quantità di cibo prodotta per il numero degli abitanti umani della Terra, ognuno godrebbe di una dieta adeguata. Ma non c’è un’enorme tavola imbandita con tutti intorno. Il problema è l’accesso, e ovviamente i prezzi elevati lo ostacolano: centinaia di milioni di persone vivono con meno di un dollaro al giorno e ne spendono il 70-80% per mangiare, per loro anche il centesimo fa la differenza.
E non credo che si tornerà ai prezzi reali bassissimi del passato -anche se si potranno ridimensionare quelli altissimi a cui siamo arrivati ora- perché ci sono fattori reali nuovi che pesano”. Quali, visto che, come sottolinea il sindacato agricolo internazionale Via Campesina “non c’è crisi di produzione, la produzione di cereali è stata elevata nel 2007”?
Spiega Stamoulis: “Intanto è cambiata la struttura della domanda. Le classi medie e urbane di Cina, India e altri Paesi emergenti chiedono più carne e più prodotti animali. La terra viene dunque convertita alla produzione di mangimi, ma occorrono 8,5 chili di cereali e leguminose per farne uno di carne bovina, e 5-7 per un chilo di carne di maiale.
C’è poi la richiesta crescente di agrocarburanti, la cui produzione è sussidiata. Sul lato dell’offerta sono aumentati i costi di produzione e trasporto con il caro petrolio, e se è vero che nel 2007 i raccolti globali sono stati al livello dell’annata d’oro 2004, negli anni precedenti c’erano però state notevoli perdite per condizioni climatiche sfavorevoli da parte di Paesi grossi esportatori, così il recupero di quest’anno non è bastato a reintegrare le scorte mondiali di cereali che erano arrivate ai livelli più bassi degli ultimi 25 anni”.
Invece per Antonio Onorati, presidente di Crocevia, organizzazione che da 50 anni realizza progetti nel campo della sovranità alimentare, le speculazioni finanziarie giocano parecchio. “È sbagliato credere che i prezzi elevati di oggi dipendano dal rapporto quantitativo fra domanda e offerta. Non c’è diminuzione delle terre coltivate, non c’è diminuzione delle rese, non c’è scarsità di produzione agricola, cresciuta parallelamente alla domanda. È invece vero che sempre più produzioni diventano mangimi o agrocarburanti. Diciamo, allora, che le impennate negli acquisti di questo tipo vengono soprattutto dall’Europa. In ogni caso, è un fattore centrale nel fenomeno prezzi la trasformazione del cibo in merce, anzi in prodotto finanziario: con la crisi immobiliare negli Usa e la liberazione di liquidità dovuta ai prezzi elevati del petrolio, i grandi fondi investono sulle derrate alimentari e più i prezzi sono volatili, più si può speculare”. Per questo c’è stato un crollo pianificato degli stock di derrate, “mentre quando si governa pubblicamente l’offerta e si mantengono le riserve, il regime dei prezzi è più stabile”.
Un altro aspetto del problema alimentare per Onorati è il “mito del mercato mondiale di prodotti agricoli: non è vero che determina la disponibilità globale di cibo. Nel 2007 è stato oggetto di scambi internazionali solo l’11% del prodotto totale. Il 90% degli alimenti è coltivato localmente da piccoli produttori e per il consumo locale”. È vero, però, che esistono nette colpe dell’Occidente, che con le sovvenzioni alle sue esportazioni ha condotto molti Paesi impoveriti a diventare dipendenti dalle importazioni (i loro surplus agricoli erano spariti già alla fine degli anni 80), “trascurando l’agricoltura nazionale e gli agricoltori più poveri, che poi sono il 70% degli affamati” sottolinea Via Campesina (viacampesina.org).
Dunque che fare, per il cibo per tutti oggi e domani, oltre ad affrontare la crisi climatica? Per Stamoulis, i governi devono continuare con le politiche avviate in questa emergenza per limitare l’impatto dei prezzi internazionali sui mercati alimentari interni: sussidi al consumo e aiuti alimentari internazionali, restrizioni alle esportazioni, controllo dei prezzi, e poi “di fronte al previsto aumento della popolazione, concentrato nelle città del Sud del mondo, i Paesi in via di sviluppo possono produrre molto di più ma occorrono politiche internazionali e investimenti pubblici in favore dei contadini più vulnerabili, affinché aumentino la produzione di alimenti, traendo vantaggi dai prezzi che rimarranno elevati”. In effetti, per decenni i sindacati contadini hanno chiesto prezzi agricoli al produttore più equi, cioè meno risibili. Ma affinché la nuova situazione favorisca gli agricoltori anziché agri-business e speculatori, Via Campesina e Crocevia chiedono di riconoscere che “un’agricoltura ecologica e basata sui piccoli produttori può nutrire il mondo se si promuove la sovranità alimentare, puntando sulla produzione locale per il consumo locale e favorendo l’accesso alla terra, rifiutando la conversione ad agrocarburanti e gli organismi geneticamente modificati, controllando e le importazioni alimentari e ristabilendo le riserve nazionali per vincere la speculazione”.
Alternative in campo
Una rivoluzione alimentare globale è necessaria. Per affrontare la tragedia della fame -la sottonutrizione calorica di oltre 850 milioni di persone, che provoca nove milioni di morti all’anno-, e la malnutrizione in proteine, vitamine e oligoelementi, che colpisce miliardi di persone, anche quelle che mangiano troppo e male, nel Nord e fra le classi medie del Sud. Per mitigare l’impatto del previsto aumento della popolazione mondiale, che passerà da sei a nove miliardi di persone in qualche decennio. Sul lato dell’offerta, le superfici agricole disponibili non si possono espandere ulteriormente e nemmeno le rese per ettaro (già frutto di ipersfruttamento delle risorse). Così la scelta di “che cosa produrremo” e “che cosa mangeremo” sarà vitale quanto “come produrremo” (l’agricoltura biologica o ecologica è una necessità ambientale) e “chi produrrà” (200 milioni di piccole aziende agricole già assicurano la gran parte della produzione alimentare e, se sostenute, possono garantire un cibo locale localmente trasformato). Sul lato del “cosa”, occorre scegliere se destinare suoli, acqua e input a food, feed, fuel, non-food.
Ovvero: cibo per gli umani, mangimi per gli animali o per le automobili, produzioni non alimentari. Tutto non ci può stare: se non cambia il modello, la produzione globale di carne -soprattutto polli e maiali- dovrebbe raddoppiare (passando dai 229 milioni di tonnellate del 1999/2001 a 465 milioni nel 2050), e il latte da 580 milioni di tonnellate a 1.043. Insostenibile. Già ora gli allevamenti usano almeno il 30% della superficie terrestre e al loro nutrimento si destina in percentuale la quota principale della terra coltivabile: il 33%,
a cui si aggiungono i pascoli permanenti (sovrasfruttati e degradati) e i nuovi pascoli creati al posto delle foreste (il 70 per cento dell’Amazzonia). La stessa estensione di territorio produce anche 10 volte più proteine se coltivata a cereali e leguminose per il consumo umano diretto. Gli agrocarburanti per ora coprono superfici limitate ma l’aumento del prezzo del petrolio e la minaccia climatica li sta pompando a scapito delle produzioni alimentari e delle foreste. Anche le colture non alimentari, come il cotone, le piantagioni per fare carta e legno, e le colture coloniali da esportazione di alimenti non nutrienti (caffè, tè, cacao) rubano terra e risorse.
Ma anche una riconversione della produzione e del consumo verso il food (alimenti in prevalenza vegetali, locali, per il diretto consumo umano), non basterà. Bisogna puntare su prodotti rustici in grado di assicurare, al tempo stesso, più nutrienti per ettaro coltivato (o per metro cubo di acqua).
Il rapporto Slow Trade Sound Agricolture del Wupperthal Institute indica cinque “colture minori” su cui occorre puntare nelle aree povere, perché nutrienti e resistenti alla siccità: miglio, orzo (nella foto), sorgo, arachidi, ceci. Anche la trasformazione alimentare dovrà decrescere: basta riso brillato
e zucchero bianco, sì agli alimenti integrali per tutti. Un altro capitolo è dedicato alle perdite post raccolto, con tecniche di conservazione sane ed economiche al tempo stesso.
Un’altra alimentazione
Per decenni, e fino quasi a pochi mesi fa, la tematica della competizione globale fra cibo e mangimi come importante causa di fame, malnutrizione e distruzione di risorse naturali è stata pressoché ignorata perfino dal mondo delle organizzazioni non governative, per non dire dei governi.
Quanto alla Fao, forniva i dati ma non prendeva alcun provvedimento. Così, cinque anni fa la campagna internazionale Global Hunger Alliance e la campagna italiana “Contro la fame un’altra alimentazione è possibile” (www.unaltralimentazione.org) hanno deciso di rivolgere precise richieste di azione a governi del Nord e del Sud del mondo, all’Unione europea, all’Onu e ai cittadini del Nord del mondo. Adesso l’assurdità di questo grande macello è arrivata sulle bocche di tutti,
ma le azioni intraprese sono relative. La Campagna rinnoverà le proprie proposte in occasione dei prossimi vertici della Fao (a Roma dal 3 al 5 giugno 2008). La Campagna chiede “il varo di un Progetto globale” che nei paesi occidentali:
a) agisca sui consumi alimentari dei Paesi ricchi (con la promozione della diminuzione del consumo di prodotti animali);
b) cambi la politica agraria (disincentivando gli allevamenti intensivi e quindi le importazioni di mangimi per nutrirli, riconvertendo la produzione verso proteine vegetali biologiche), e riorienti i progetti nei Paesi poveri e nei Paesi in via di sviluppo (Pvs);
c) riduca la superficie destinata alla produzione ed esportazione di cereali e soia per gli allevamenti;
d) promuova progetti di coltivazioni vegetali ricche di proteine e altri nutrienti;
e) disincentivi la delocalizzazione zootecnica inquinante verso il Sud e il trend al raddoppio del consumo di carne nei Pvs.
Agricoltura di comunità
“Di fronte ai cambiamenti climatici, alla distruzione della biodiversità e alla crisi energetica, le compagnie multinazionali pretendono di avere la soluzione magica che permetterà di perpetuare il business as usual. Promuovono ‘tecnologie miracolose’: colture e alberi geneticamente modificati, germoplasma di sintesi, nanotecnologie, Terminator, Transcontainer, agrocarburanti, ‘trappole per il carbonio’…”. In realtà quel che vogliono è privatizzare tutte le risorse della Terra: suolo, acqua, germoplasma, oceani, conoscenza. L’unico uso concreto degli ogm e degli altri semi ibridi è rafforzare i diritti di proprietà intellettuale sulle risorse, sui semi migliorati nei millenni dalle comunità agricole e indigene. Via Campesina si oppone a questo modello e insiste sul fatto che gli agricoltori del mondo, uomini e donne, sono in grado di affrontare le sfide ambientali e sociali di questo tempo. Purché si blocchi subito la distruzione delle comunità rurali e si rispettino i loro diritti e la sovranità alimentare.
I prezzi pesano sui più poveri
Secondo le previsioni della Fao la produzione mondiale di cereali nel 2008 dovrebbe aumentare del 2,6%, per raggiungere il record di 2.164 milioni di tonnellate. Il grosso dell’aumento riguarderebbe il frumento e sarebbe legato all’incremento delle superfici piantate, nei Paesi maggiori produttori.
La produzione degli altri cereali -mais, orzo, avena, sorgo, miglio e segale- dovrebbe rimanere ai livelli elevati dell’ultimo anno. La produzione di riso dovrebbe aumentare leggermente, in virtù degli incentivi offerti da diversi Paesi asiatici. In Nord Africa si prevede una netta ripresa della produzione cerealicola d’inverno dopo la grave siccità del 2007. In Asia le prospettive per il frumento sono favorevoli ma si rimarrà al di sotto dei livelli record dell’anno scorso; anche in Messico, buone prospettive per il frumento. In America del Sud si prevede un raccolto record di mais grazie all’aumento delle superfici coltivate.
Ma ci sono due “ma”. Primo: nei Paesi a basso reddito deficitari dal punto di vista alimentare (Lifdcs) la bolletta relativa alle importazioni alimentari sarà da salasso per il secondo anno consecutivo; la loro produzione di cereali nel 2008 dovrebbe registrare una crescita solo marginale e, anzi, escludendo Cina e India la tendenza potrebbe piuttosto essere a un lieve declino. Secondo: le previsioni cerealicole per
il 2007 erano state molto migliori di quanto poi il clima abbia permesso di ottenere.