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Un diritto chiamato casa – Ae 93
Aumenta il numero di chi non può pagare l’affitto o un mutuo: sono giovani precari, immigrati, pensionati, intere famiglie. Viaggio nella nuova emergenza abitativa Tre città: Firenze, Roma, Trieste. Tre realtà dove molti non possono permettersi un appartamento. Non si…
Aumenta il numero di chi non può pagare l’affitto o un mutuo: sono giovani precari, immigrati, pensionati, intere famiglie. Viaggio nella nuova emergenza abitativa
Tre città: Firenze, Roma, Trieste. Tre realtà dove molti non possono permettersi un appartamento. Non si tratta solo di emarginati: oggi anche chi ha un lavoro, un titolo di studio, una professionalità fa fatica a stare dietro ai prezzi del mercato immobiliare. Le cause sono molteplici: si tende a comprare piuttosto che ad andare in affitto; la spesa sociale per la casa è irrisoria, specie rispetto al resto d’Europa; l’edilizia popolare è praticamente ferma da 20 anni; la speculazione edilizia preferisce lasciare gli appartamenti sfitti piuttosto che cederli a prezzi troppo bassi. Per questi motivi chi non ce la fa occupa abusivamente, appartamenti privati o alloggi popolari. Dietro alla facile retorica dell’illegalità, e ai molti casi di abuso, si cela un disagio strisciante che aumenta di giorno in giorno. Una condizione di cui si stanno accorgendo gli enti locali, e perfino la magistratura. E che è frutto del fraintendimento più grande: aver abdicato al mercato la garanzia di un diritto, quello alla casa. (pr)
Movimenti toscani
di Lorenzo Guadagnucci
Sembra che più di un collega, sul momento, abbia detto qualcosa tipo “tu sei matto”, ma alla fine tutta la giunta regionale ha detto sì alla proposta del nuovo assessore regionale toscano alla Casa, Eugenio Baronti. La Regione ha così deciso di stanziare 41 milioni di euro per l’edilizia popolare, da aggiungere ai 31 in arrivo dallo Stato grazie all’ultima finanziaria, più 9 milioni per il sostegno agli affitti.
Ma soprattutto la delibera ha bloccato la prevista vendita di oltre 17mila alloggi
di edilizia popolare (altri ventimila sono stati già ceduti negli anni scorsi). “Negli anni Ottanta -spiega l’assessore- si credeva che il problema della casa fosse risolto. Non è così. Siamo di fronte a una nuova emergenza. I soldi per recuperi e nuovi interventi sono necessari, ma non si può investire da un lato e intanto vendere le case che già ci sono”. E così è arrivato l’improvviso stop alle vendite.
Secondo i dati più recenti (fonte Cispel), in Toscana ci sono 18 mila famiglie in attesa di un alloggio pubblico che non c’è (in tutto le aziende pubbliche toscane gestiscono 55 mila appartamenti). Nella sola Firenze, l’assessore comunale alla Casa, Paolo Coggiola, stima una domanda di quattromila alloggi popolari e allarga le braccia: “Ci vorrebbero 400 milioni di euro, ma non ci sono soldi”. Non è chiaro se le cifre di Coggiola includano in tutto o in parte le duemila persone che secondo la Fondazione Michelucci vivono in “alloggi precari”, che spaziano dai baraccamenti di fortuna allestiti dai rom romeni confinati nell’estrema periferia dell’Osmannoro (sono le famiglie dei lavavetri, protagonisti loro malgrado della calda estate politica fiorentina del 2007), alle dodici occupazioni gestite dal Movimento di lotta per la casa, guidato da Lorenzo Bargellini, “antagonista” storico conosciutissimo in città. Sono Bargellini e gli altri del Movimento ad occuparsi dei casi più difficili, dai migranti ai richiedenti asilo (qualche centinaio di eritrei, etiopici e somali), dagli sfrattati fino alle famiglie fiorentine che non possono affrontare i prezzi altissimi proposti dal mercato.
L’estate scorsa Regione e Movimento hanno stretto un accordo che dovrebbe risolvere lo spinoso “caso Luzzi”, una vasta e bellissima area sulle colline fiorentine, un tempo adibita a strutture sanitarie e occupata un paio di anni fa da oltre 400 persone, di numerose nazionalità. L’area sembrava destinata a insediamenti turistici di lusso e per mesi si è paventata l’ipotesi di uno sgombero d’autorità, reso complicato dall’alto numero di persone presenti e dalla capacità del Movimento di mobilitarne altre. L’accordo del 2007 prevede la rinuncia, da parte della Regione, alla vendita dell’area, che sarà riutilizzata sulla base di un percorso di “progettazione partecipata”.
Il Movimento, in cambio, si è impegnato a spostare subito una parte degli abitanti, anche per alleggerire la pressione su edifici instabili. Così nel febbraio scorso oltre 150 abitanti del Luzzi hanno occupato la ex caserma Donati di Sesto Fiorentino.
È scoppiato il putiferio. Il sindaco di Sesto ha invocato lo sgombero della caserma abbandonata, destinata alla costruzione di nuovi appartamenti e negozi, trovando manforte nei cittadini del quartiere e nei circoli Arci del Comune, che sono arrivati a rifiutare le sale che il Movimento ha chiesto per assemblee aperte d’informazione sulle occupazioni e sulla vendita ai privati di numerosi spazi pubblici che si potrebbero utilizzare con finalità sociali. Il richiamo alla “legalità” ha impedito ogni dialogo.
Negli ultimi mesi il Movimento ha messo in piedi anche le prime esperienze di “autorecupero” concordate con gli enti locali, riguardanti un ex istituto sanitario in via Aldini e l’ex asilo Ritter, occupati rispettivamente da 18 e 8 famiglie fin dagli anni 90. Il patto prevede che il Comune di Firenze si accolli le ristrutturazioni primarie e che le cooperative formate dagli occupanti paghino gli interventi interni. La Regione si è impegnata a pagare il 35% delle spese sostenute dal Comune e gli interessi sui mutui aperti dalle cooperative. Dariuche Dowlatchahi, detto Dario, “persiano di Roma, con padre iraniano, madre pugliese e figlio fiorentino”, è un giovane architetto, attivista del Movimento e occupante dell’istituto “Bice Cammeo” di via Aldini. “È un progetto nel quale crediamo. Abbiamo formato la nostra cooperativa, si chiama ‘Un tetto sulla testa’. Ma il Comune tarda a presentare il progetto, dovrà chiedere una proroga ai tempi fissati dalla Regione e ci ha fatto sapere che l’onere per noi sarà molto superiore al previsto. Potremmo essere costretti a rinunciare. Il fatto è che il Comune non sembra molto motivato. Un funzionario una volta mi ha detto: ci hanno dato anche questa bega…”. L’esito dei piani di autorecupero è quindi incerto, ma l’esperienza non andrà perduta. “In cooperativa -dice Dario- stiamo pensando di andare comunque avanti. Se il progetto fallisce, proseguiremo da soli, a piccoli passi, cercando finanziamenti alternativi”.
Intanto il Movimento si prepara a una stagione calda: c’è il caso della caserma Donati contestata a Sesto, ci sono almeno duecento persone “in lista d’attesa” per nuove occupazioni, ci sono le famiglie dei lavavetri che non possono restare all’Osmannoro. Tutto lavoro per questo informale assessorato di fatto.
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La capitale in azione
di Adriano Marzi
A piantonare l’ingresso di via Lucio Sestio 10, zona Cinecittà, ci sono 4 signore. La villetta, una vecchia stazione di filobus abbandonata da anni, è stata occupata l’8 marzo. Non sono mancate le mimose, ma qui “la festa delle donne” ha avuto un sapore diverso: italiane, marocchine, peruviane, moldave hanno rivendicato insieme il loro diritto all’abitazione. Mentre per evitare lo sgombero si tratta con la proprietà, nella palazzina 22 nuclei familiari hanno già cominciato a sistemarsi: vecchi materassi, piccoli fornelli elettrici o a gas, qualche tenda. Su uno stendino c’è già ad asciugare il primo bucato. L’immobile è stato pulito a fondo e un architetto ha valutato gli interventi necessari: il tetto deve essere messo in sicurezza e così, almeno per ora, le nuove “inquiline” si sono divise le stanze ai piani inferiori. Mentre curioso nell’accampamento provvisorio, la maggior parte di loro è a lavoro: badanti, cameriere, lavoratrici a progetto. Ida, 65 anni, è nel gruppetto rimasto di guardia. Vive in via Masurio Sabino 31, una delle occupazioni storiche delle lotte per la casa a Roma, ma è comunque venuta “a dare una mano alle ragazze”. Sandra, al suo fianco, è invece arrivata dall’Ecuador 4 mesi fa. Prima di srotolare qui il suo materasso, è passata dalle grotte del Forte Prenestino e da via Marchisio, un altro immobile occupato in zona Cinecittà.
L’emergenza abitativa nella Capitale è alle stelle. L’offerta di case popolari, 85mila appartamenti, è molto lontana dalla domanda. Le famiglie in graduatoria per l’assegnazione sono oltre 32mila. Quanto agli affitti, la liberalizzazione del mercato ha tagliato fuori una larga fascia della popolazione: nel 2007, secondo il Nomisma, il costo medio mensile per l’affitto di una casa di 90 metri quadri a Roma era di 1.523 euro, quasi il doppio rispetto al 2000. Le domande per il Fondo di sostegno all’affitto (vedi box) hanno raggiunto quota 23mila, ma ne vengono soddisfatte meno della metà e spesso il “buono-casa” annuale arriva con forte ritardo. Inoltre per richiedere sostegno al Comune occorre poter vantare un contratto d’affitto registrato, e in città non è così facile trovare un proprietario “onesto” disposto
a farlo, pagando le imposte relative. Esclusi dal mercato immobiliare, per molti l’occupazione diventa l’unica alternativa possibile.
A Roma, roccaforte dei “palazzinari”, i movimenti per la casa hanno una forte tradizione: dalle occupazioni per i “baraccati”, veicolate dal Comitato di agitazione borgata (Cab) a fine anni 60, la storia passa attraverso il Comitato di lotta per la casa, nato negli anni 80 dall’area di Autonomia operaia e ancora attivo. Ma sul palco di oggi, dove accanto agli attori storici ci sono addirittura gli estremisti di destra di Casa Pound, i più attivi sono quelli di Action.
Nato dalla scelta dei “Disobbedienti” di radicarsi maggiormente sul territorio, Action (www.actiondiritti.net) occupa 11 palazzine della Capitale dove vivono 800-900 famiglie tra immigrati e italiani. Il quartier generale è a San Lorenzo, nell’edificio di via de Lollis, il primo occupato dal movimento. Qui i nuclei sono 60, soprattutto etiopi ed eritrei. Al piano terra è stato ricavato un ufficio, aperto a quanti abbiano bisogno di assistenza legale e mediazione in procedimenti di sfratto. Ogni giorno, a Roma finiscono in tribunale almeno 25 casi di sfratto. Più della metà viene convalidata e resa esecutiva nel giro di pochi mesi. Il 65% sono sfratti per morosità: fino a 10 anni fa, quando è stato liberalizzato il mercato degli affitti, la quota era del 20%. Sono state proprio le lotte contro gli sfratti a rendere “popolare” il movimento di Action. “Quando, 5 anni fa, abbiamo occupato a via de Lollis -racconta Simona Panzino, occupante e attivista- il quartiere ci guardava con diffidenza. Eravamo ‘gli zingari’. Ma grazie alle battaglie con cui abbiamo difeso la casa di oltre 300 famiglie l’atteggiamento è cambiato, e ora ci apprezzano e ci difendono”.
Come ha riconosciuto la delibera comunale 110 del 2005, in cui è sancito il diritto all’alloggio, a Roma gli appartamenti sfitti sono circa 150mila, quasi tutti privati. Proprio per questo, nelle trattative con i proprietari degli immobili occupati entra quasi sempre anche l’amministrazione comunale. Il compromesso più frequente è il pagamento di un “canone sociale”, cui il Comune in alcuni casi contribuisce.
Ma è una soluzione che il proprietario accetta solo temporaneamente. “Il piano di edilizia pubblica del 2007 -spiega Nicola Galloro, consigliere delegato del Sindaco per l’emergenza abitativa- prevede la disponibilità di 10mila nuovi alloggi, da ricavare tra nuove costruzioni, acquisti da privati e trasformazioni d’uso di fabbricati, centri commerciali e strutture alberghiere. Il 15% di questi nuovi alloggi sarà destinato a sanare le occupazioni, sistemando gli occupanti e restituendo gli immobili ai legittimi proprietari. Ai movimenti va riconosciuto il merito di richiamare l’attenzione sul problema della casa che, senza la loro pressione costante, sarebbe in fondo all’agenda dell’amministrazione pubblica”.
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Trieste, stato di necessità
di Pietro Raitano
Le case popolari di Trieste sono le più antiche d’Italia. L’istituto che le gestisce -oggi si chiama Ater- venne fondato nel 1902. Gestisce 20 mila alloggi: oltre la metà sono dati in affitto, per gli altri è una sorta di “amministratore di condominio” di appartamenti acquistati dalle famiglie. 28mila persone, sulle 200mila che abitano in città, sono in affitto dall’Ater. Siamo largamente al di sopra della media italiana, eppure anche qui cresce il disagio abitativo. All’Ater ci sono tra le 4 e le 5mila domande per un alloggio popolare, ma quelli assegnati non sono mai più di 30 al mese. Per cui, evento molto raro fino a pochi anni fa, aumenta il numero delle occupazioni abusive.
“Un fenomeno non drammatico ma in crescita” spiega Raffaello Maggian, dirigente dell’area utenza dell’Ater. “Siamo attorno al centinaio di occupanti: in prevalenza sono italiani, giovani, o famiglie disagiate, con percorsi difficili”. Lo sanno bene alla “Casa delle culture”, piccolo centro autogestito nel quartiere Ponziana. La circoscrizione qui conta 50mila persone: siamo giusto sopra il cantiere navale (oggi fermo): le case popolari erano state costruite per dare un alloggio agli operai. Nel 2003 la “Casa” inizia ad aiutare gli immigrati. Il tema della casa prende presto il sopravvento, arrivano anche tanti italiani e a loro si rivolgono anche gli occupanti abusivi. La “Casa” ne segue una quarantina: sono giovani, precari, di tutte le estrazioni. Hanno un lavoro ma non è sufficiente a pagare un affitto di mercato, neanche a Trieste. Quindi si “autoassegnano” case popolari sfitte. Sono infatti un migliaio gli alloggi vuoti dell’Ater, in attesa di manutenzione o ristrutturazione. Un percorso che può durare anche 5 anni. Chi non può farne a meno, li occupa. Per l’autorecupero non esiste una legge. Appena dopo l’ingresso, l’occupante abusivo viene di norma denunciato. I processi -penali- per occupazione abusiva in corso sono 35. La notizia però è che sinora ci sono state 10 assoluzioni: il giudice ha riconosciuto lo “stato di necessità” che giustificava l’occupazione.
Un paese impopolare
L’offerta di “case popolari” è sempre più lontana dalla necessità della popolazione. Per il Nomisma, gli alloggi di edilizia residenziale pubblica sarebbero circa
1 milione. Ma secondo altre stime tale patrimonio è ancor più ridotto, aggirandosi intorno alle 800-900mila unità.
La situazione attuale è risultato di due processi. Da un lato la vendita a privati di oltre 100mila alloggi, in forza della legge 560 del 1993 e delle successive “cartolarizzazioni”. Dall’altro la drastica riduzione delle nuove costruzioni, dovuta essenzialmente al collasso del fondo Gescal (Gestione case lavoratori), che con la riforma Dini del 1992 non viene più finanziato dalle buste paga dei lavoratori dipendenti: dalla media di circa 34mila abitazioni costruite per anno durante gli anni 80, si è passati alle 1.900 del 2004. Oggi, un’abitazione su due risulta edificata prima del 1981. La spesa sociale per la casa in Italia è di 5,8 euro all’anno per ciascun abitante. La media europea è di 117 euro (in Francia 208, in Inghilterra 387). L’edilizia sociale italiana non copre neanche un quarto del mercato dell’affitto, contro il 45,5% della Francia, il 66% dell’Inghilterra, il 77% dell’Olanda.
Le case popolari rappresentano il 4% del patrimonio abitativo nazionale, e sono in grado di soddisfare solo il 3,4% della domanda annua. (am)
Affitti poco sostenuti
Palliativo per la febbre del mercato immobiliare, il Fondo di sostegno all’affitto (Fsa) esiste dal 1998 per aiutare gli affittuari che si trovano in maggiori difficoltà economiche. Ogni anno, nel mare magnum della Legge finanziaria, il governo stabilisce l’ammontare dei fondi da mettere a disposizione. Dopodiché, un decreto del ministero delle Infrastrutture li ripartisce tra le Regioni, che li ripartiscono tra i Comuni, che a loro volta li ripartiscono tra le famiglie nella graduatoria degli aventi diritto. Per accedere al contributo del Comune, un “buono-casa” annuo, occorre un contratto d’affitto registrato e la certificazione dell’ammontare del canone e della situazione finanziaria della famiglia.
Ma se le richieste “di sostegno” sono cresciute seguendo il costo degli affitti, i fondi statali hanno preso la direzione opposta. Nel 2000 per il Fsa venivano stanziati 360 milioni di euro, scesi ai 230 del 2005, risaliti a 310 nel 2006 e arrivati nel 2007 al minimo storico: 210 milioni di euro. Le domande invece, che nel 2000 erano meno di 43mila, sono arrivate a oltre 106mila nel 2006.
L’autorecupero non decolla
Nel 1998, la Regione Lazio approva la prima legge italiana per l’Autorecupero del patrimonio immobiliare pubblico (la 11/1998). Gli interventi vanno realizzati in concorso con cooperative
di autorecupero, formate da un numero di soci superiore alle unità immobiliari da assegnare e il cui reddito rientri nei limiti previsti per l’accesso all’edilizia agevolata. Le opere inerenti le parti comuni e strutturali degli edifici sono di competenza dell’ente proprietario, mentre tutte le opere interne agli alloggi spettano alle cooperative. Gli oneri anticipati dai soci per la realizzazione dei lavori, vengono poi detratti dai canoni d’affitto.La prima cooperativa a praticare l’autorecupero in Italia è, già nel 1982, la bolognese “Chi non occupa preoccupa”. Nel 1989 è la volta dei romani di “Vivere 2000”, che occupano, ristrutturano e organizzano un vecchio convento abbandonato a Trastevere. Altri progetti nascono a Milano e Padova.Durante l’ultima legislatura, nel giugno del 2006, in Senato è stato presentato il disegno di legge 621 “Norme per il recupero ad uso abitativo di immobili di proprietà pubblica e privata attraverso cooperative di autorecupero”. Riferimenti normativi regionali esistono anche in Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia, Umbria, Toscana e Marche.
Diritto all’occupazione
Lo Stato francese ha il diritto di confiscare temporaneamente appartamenti lasciati disabitati da più di otto mesi, in caso di crisi degli alloggi. Questo dice una legge del 1945 e questo richiedono tre associazioni che nel dicembre del 2006, occupando un edificio di sei piani nel pieno centro di Parigi, si sono autoproclamati Ministero della crisi degli alloggi. Droit au logement, Macaq e Jeudi Noir si battono per le categorie più colpite dall’emergenza casa, rispettivamente famiglie a rischio
di sgombero, artisti e precari. Dal loro quartier generale in rue de la Banque 24, stretto tra la sede dell’Agence France Presse e piazza della Borsa, hanno preparato la manifestazione del 15 marzo, data in cui amministrativamente finisce l’inverno e possono ricominciare gli sgomberi.
Tre i punti cardine delle rivendicazioni:il divieto di sgombero in mancanza di una sistemazione alternativa, l’istituzione di una legge che regoli il costo degli affitti, e soprattutto l’applicazione della famosa Loi de Réquisition del 1945. Con un tasso di appartamenti sfitti del 10%, a Parigi basterebbe rispettare il sistema legale corrente per rendere la crisi meno aspra. ministeredelacrisedulogement.org (mcp)