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Tutti i rischi della “balcanizzazione” del Parlamento italiano
Nella legislatura in corso, il numero dei “gruppi” rappresentati è passato da 10 a 25, e quasi quattro parlamentari su dieci hanno cambiato “partito”. Una frammentazione che modifica la rappresentanza e inficia il lavoro delle Camere: “Il voto di fiducia su un’infinita serie di provvedimenti sarà, purtroppo, l’ordinaria normalità” scrive Alessandro Volpi
In Italia è diffuso un virus assai insidioso, che può essere classificato con la forse fin troppo semplificatoria definizione di frammentazione politica.
I numeri sono implacabili: dopo le ultime elezioni politiche, quelle del 2013, i gruppi politici riconoscibili in parlamento erano 10; nel corso della legislatura si è assistito ad una rapido proliferare di altre sigle, partorite di fatto da quelle esistenti: dopo le recenti scissioni i simboli rappresentati in Parlamento sono divenuti 25, con alcune “spaccature” plurime particolarmente evidenti.
Da Forza Italia sono scaturiti i quattro gruppi dei “Conservatori e riformisti’, di “Gal”, di “Ala”, di “Insieme per l’Italia”. Da Scelta civica sono nati ben 4 gruppi, mentre dal Movimento 5 stelle ne sono usciti 3 e dal Partito Democratico ne sono emersi altri due.
Le separazioni hanno implicato in alcuni casi anche il passaggio dalla maggioranza all’opposizione e da destra a sinistra e viceversa. Ben 373 parlamentari, pari al 39,3 per cento del totale, hanno mutato gruppo parlamentare almeno una volta durante la vigente legislatura.
Si è verificato dunque un vero e proprio stravolgimento del quadro politico iniziale, uscito dalle urne e dal voto popolare, a testimonianza del fatto che, al di là della legge elettorale e delle sue regole, una volta in Parlamento gli eletti possono modificare la sostanza della volontà elettorale e “aggirare” i limiti di sbarramento, utilizzando il principio dell’assenza di vincoli di mandato, secondo quanto recitato dalla Costituzione.
Ben 373 parlamentari, pari al 39,3 per cento del totale, hanno mutato gruppo parlamentare almeno una volta durante la vigente legislatura
In altre parole, nonostante lo sbarramento al 4 per cento previsto dal Porcellum, con cui si è svolta la tornata del 2013, esistono ora in Parlamento formazioni politiche che difficilmente raggiungeranno tale soglia al prossimo voto. Siamo di fronte, quindi, ad una alterazione non banale della rappresentanza politica, che riporta alla mente l’antico vizio del parlamentarismo italiano, tipico della seconda metà dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, quando i deputati, eletti nella logica degli “ottimati”, dei migliori rappresentanti possibili dei territori, si ritrovavano liberi di cambiare casacca, di “trasformarsi”, a loro piacimento durante il mandato.
Non è un caso che tali pratiche fossero molto diffuse prima della nascita dei partiti di massa e tornino molto in voga adesso, in presenza di una radicale crisi proprio di quel modello di partito a cui sono state portate finora solo operazioni di cosmesi.
Di fronte a una situazione siffatta nasce l’inevitabile interrogativo se si tratti di una sola peculiarità italiana o se questa frammentazione sia un dato comune quantomeno ad altri Paesi europei.
Purtroppo, pur con alcune similitudini, la vicenda italiana pare essere pressoché unica. Nelle Assemblee dei principali Paesi del Vecchio Continente le sigle presenti sono assai meno; raramente infatti superano la decina e sopratutto rispondono a logiche diverse.
In Inghilterra come in Spagna, la presenza di più sigle si lega all’esigenza di rappresentare identità territoriali e geografiche specifiche. In quegli stessi Paesi si assiste, come nel resto dell’Europa, alla comparsa e alla moltiplicazione di nuove formazioni populiste, nazionalistiche e xenofobe destinate a sottrarre consensi ai partiti più grandi.
Populismi e territorialità sono pertanto i tratti distintivi delle varie realtà europee che, come detto, solo in parte caratterizzano anche il panorama italiano, connotato da una frammentazione più estesa e molto più disorganica; una frammentazione che non è limitata neppure dallo strumento delle primarie, a differenza di quanto avviene ad esempio in Francia, dove esso riesce a funzionare da filtro rispetto a una successiva semplificazione delle sigle.
Quali sono, allora, le ragioni più evidenti di questa anomalia italiana, al di là di indubbi precedenti storici e della già citata crisi del modello del partito novecentesco? Pur non essendo facile rispondere a questa domanda, è indubbio però che per l’Italia pesi una recondita e parimenti radicatissima idea per cui solo il proporzionale e la molteplicità delle forze politiche da esso espresse possono garantire una rappresentanza fedele della complessità della società italiana.
In questa ottica si collocano le pulsioni identitarie e i fin troppo puntuali rigurgiti ideologici che alimentano spesso spaccature addirittura molecolari. A ciò si associa una più inquietante e sempre più diffusa auto-referenzialità del ceto politico, che pare ragionare davvero secondo logiche quasi interamente di posizionamento tattico, facilitate dalla mancanza pressoché costante di maggioranze stabili.
Certo, questa peculiare condizione nostrana produce conseguenze tutt’altro che banali, la più importante delle quali sembra essere quella della estrema difficoltà di immaginare una visione realmente complessiva, condivisa e soprattutto condivisibile del Paese e del suo destino.
L’orizzonte è quello di una vera e propria balcanizzazione del quadro politico di cui la diaspora dei gruppi in Parlamento è la fotografia più efficace. Il voto di fiducia su un’infinita serie di provvedimenti sarà, purtroppo, l’ordinaria normalità
È davvero difficile in un quadro di 25 sigle, in continuo ampliamento, trovare linee programmatiche comuni ed elaborare sintesi comunque inevitabili per non cadere in improbabili formule manichee, votate ad un impossibile unanimismo.
Dal bipolarismo siamo approdati al tripolarismo, ma in realtà ormai l’orizzonte è quello di una vera e propria balcanizzazione del quadro politico di cui la diaspora dei gruppi in Parlamento -la sede legiferante del Paese- è la fotografia più efficace. In un quadro così, il voto di fiducia su un’infinita serie di provvedimenti sarà, purtroppo, l’ordinaria normalità.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa