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La Turchia non è un Paese sicuro. Migranti a parte. La schizofrenia europea
All’inizio di ottobre il Parlamento europeo ha cancellato i fondi di “preadesione” destinati alla “repubblica” guidata da Erdoğan. Motivo? La “regressione riguardo allo Stato di diritto, alla democrazia e ai diritti umani” sarebbe “inequivocabile”. Eppure il Paese resta un partner strategico per contenere i flussi migratori. Intervista a Chiara Favilli, docente di Diritto dell’Unione europea
“In Turchia è in atto una regressione riguardo allo Stato di diritto, alla democrazia e ai diritti umani”. A certificare all’inizio di ottobre il pessimo stato di salute del Paese è stato il Parlamento europeo, che ha deciso di cancellare 70 milioni di euro previsti come fondi di “assistenza preadesione” destinati proprio alla “repubblica” guidata da Recep Tayyip Erdoğan.
Per sbloccare quegli importi iscritti in riserva, infatti, la Turchia avrebbe dovuto conseguire “miglioramenti tangibili nei settori dello Stato di diritto, della democrazia, dei diritti umani e della libertà di stampa”, un risultato che è stato invece “inequivocabilmente” mancato.
Ma c’è un paradosso. Mentre il Parlamento europeo, rappresentante dei “popoli” del continente, è tornato a sanzionare duramente la Turchia -sulla stessa linea peraltro della relazione annuale della Commissione europea dell’aprile di quest’anno-, quello stesso Paese rimane per l’Unione europea un partner strategico per contenere i flussi migratori dei cittadini siriani diretti in particolare verso le coste della Grecia. Tanto da essersi meritato la qualifica di “Paese terzo sicuro” e un ruolo determinante nell’impropriamente detto “accordo” raggiunto con i membri del Consiglio europeo nel marzo 2016 per “affrontare la crisi migratoria”.
Secondo Chiara Favilli, professore associato di Diritto dell’Unione europea all’Università degli studi di Firenze, si tratta di una “schizofrenia evidente” frutto dell'”incapacità di trovare soluzioni efficaci per gestire la cosiddetta crisi dei migranti”. “Piuttosto che definire un sistema europeo di asilo autenticamente comune -spiega Favilli- si è puntato su un rafforzamento della cooperazione con i Paesi terzi al fine di ridurre gli ingressi di migranti e richiedenti asilo nei territori europei”. Ovvero i “Paesi terzi sicuri”, come la Turchia, che “si è impegnata a garantire accoglienza e protezione a circa tre milioni di cittadini siriani, in cambio di ingenti finanziamenti da parte dell’Ue e degli Stati membri (in totale si prospettano sei miliardi di euro) e dello sblocco dei negoziati sull’accordo per la liberalizzazione dei visti a favore dei cittadini turchi. Per la prima volta quindi è stato disciplinato il rimpatrio anche di richiedenti asilo, attraverso l’obbligo imposto alla Grecia di qualificare la Turchia come Paese sicuro e Paese di primo asilo per i cittadini siriani”.
Ed ecco perché oggi, come chiarisce Favilli, “ci troviamo nella situazione in cui la Turchia è considerata ‘sicura’ per i richiedenti asilo siriani i quali trovano secondo, le istituzioni europee, una protezione equivalente a quella prevista dalla Convenzione di Ginevra. Viceversa la stessa Turchia non è però qualificata, al momento, come ‘Paese di origine sicuro’ rispetto ai proprio cittadini turchi. Sembra un paradosso ma in verità è quello che sta facendo l’Unione”.
Distinguere è fondamentale. Il Parlamento europeo, infatti, è l’istituzione che più di tutte ha tentato di mantenere la “barra diritta” sul tema, per usare le parole di Favilli, nonostante sia stato escluso e bypassato durante i processi diplomatici tra Ue e Turchia. L'”accordo” del marzo 2016, peraltro, non è un testo scritto e la “dichiarazione” che gli dà forma è frutto della cooperazione tra i capi di Stato e di governo europei e la “controparte” turca.
“L’accordo prevede l’obbligo di rimpatrio dei migranti irregolari giunti attraverso la Turchia nelle isole greche a partire dal 20 marzo 2016, inclusi i richiedenti asilo, compresi i cittadini siriani, che pure avrebbero un’altissima possibilità di ottenere protezione internazionale in qualsiasi Stato dell’Ue -spiega Favilli-. Viene stabilito che per ogni cittadino siriano rimpatriato in Turchia vi sarà l’ammissione di un cittadino siriano nell’Unione Europea, il ‘sistema 1:1’. In altre parole, il numero dei siriani riammessi dalla Grecia alla Turchia viene a fungere da parametro numerico del numero dei siriani ammessi direttamente dalla Turchia. Le due misure, il rimpatrio verso la Turchia e l’ammissione verso l’Ue, sono strettamente connesse e volte a dissuadere i cittadini siriani dall’affidarsi ai trafficanti di persone per raggiungere la Grecia, in ragione del probabile rimpatrio e visto l’incentivo dato dalla possibilità, per contro, di raggiungere l’Unione in modo regolare. Tant’è che, in maniera scenografica, con telecamere spiegate da una sponda all’altra, il primo giorno di applicazione della Dichiarazione sono stati filmati i rimpatriati verso la Turchia e i reinsediati verso la Germania”.
Il risultato è misero. Stando al “progress report” sull’Agenda europea sull’immigrazione della stessa Commissione del marzo 2018, le persone reinsediate dalla Turchia in forza del meccanismo “1:1” non superavano quota 9mila (8.834). A fine agosto la cifra è salita a 15.652. A fronte di 3,5 milioni di rifugiati siriani registrati presenti in quel Paese.
“Al di là del problema dell’approccio di fondo applicato al reinsediamento -conclude Favilli-, vi è un dato incontrovertibile: tutti gli ingressi di tipo umanitario, siano ammissione umanitaria o reinsediamento, sono tanto invocati quanto scarsamente praticati, così da non poter essere in alcun modo considerati come compensatori delle pratiche di contenimento dei flussi”.
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