Finanza / Opinioni
Trump sta portando il capitalismo Usa, drogato a lungo dalla “finanza democratica”, al collasso

I rendimenti dei titoli di Stato statunitensi stanno salendo rapidamente, e così il costo degli interessi sul debito monstre da 36mila miliardi di dollari. La guerra commerciale scatenata contro la Cina lascerà solo macerie mentre l’Europa si scopre marginale, schiacciata sull’autoreferenzialità di Washington. È tempo di guardare al resto del mondo. L’analisi di Alessandro Volpi
Sono entrati in vigore i dazi di Donald Trump nei confronti di 60 Paesi e il presidente degli Stati Uniti manifesta un chiaro disprezzo verso i possibili Stati che chiedono di negoziare.
Stiamo entrando davvero in una fase destinata a generare una crisi profonda del capitalismo americano. Lo dimostrano alcuni indicatori. Uno è particolarmente pericoloso per gli Usa: i rendimenti dei titoli di Stato americani stanno salendo rapidamente, a partire dai titoli trentennali, considerati storicamente un bene rifugio proprio per la solidità degli Stati Uniti. Tali rendimenti salgono perché è in atto una vendita dei titoli statunitensi a dimostrazione della perdita di fiducia globale nei confronti della tenuta americana.
Ma ciò significa un duro aggravamento di uno dei problemi principali con cui Trump deve fare i conti, costituito dal costo degli interessi sul debito, quei circa mille miliardi di dollari l’anno che il governo federale deve trovare per tenere in piedi un gigantesco debito di 36mila miliardi di dollari. In questo senso è bene sottolineare che Trump ha ereditato dai democratici, al di là delle simpatiche narrazioni fatte nel tempo dagli aedi nostrani, una situazione molto critica, gravata, appunto, da un debito federale insostenibile, da un disavanzo commerciale e da una posizione finanziaria netta non più gestibili.
Il neo presidente, tuttavia, ha deciso di affrontare l’insieme di questi problemi con una ricetta costituita dal “disboscamento” delle spese pubbliche sul modello del presidente argentino Javier Milei, con una parziale svalutazione del dollaro e con un muro di dazi. In questa miscela ha inserito anche una forte conflittualità con la grande finanza di BlackRock e soci, che, follemente, ha deciso di dichiarare guerra al dollaro ben oltre le ipotesi di una mera svalutazione.
Una simile prospettiva sconta però la scarsa credibilità del “campione” Musk a cui è stato affidato il ruolo di supervisore dei tagli, generando tensioni interne alla stessa élite trumpiana, l’ostilità del presidente della Fed, Jerome Powell, ostile ai tagli di tassi perché, fondamentalmente, terrorizzato dall’azione di Trump e, soprattutto, la scelta di aver coinvolto nella guerra dei dazi la più grande potenza economica mondiale di cui gli Stati Uniti non possono fare a meno per il mantenimento del dollaro come valuta degli scambi internazionali e per la capacità delle merci cinesi di raffreddare l’inflazione americana. Un quadro in cui i dazi Usa verso la Cina arrivano al 104%, e quelli verso Taiwan e verso larga parte del Sud-Est asiatico raggiungono livelli inimmaginabili, rende chiaro per chiunque che Trump sta portando il capitalismo Usa, drogato a lungo dalla “finanza democratica”, al collasso.
Un sintomo evidente di questo deragliamento è costituito, oltre che dalle difficoltà del debito Usa, peraltro in larga parte nelle mani dei grandi fondi non trumpiani che chiederanno rendimenti sempre più alti in un gioco davvero pericoloso, dalla totale scomparsa di beni rifugio, con difficoltà anche per l’oro. Se crolla tutto chi si è esposto con le banche per acquistare titoli il cui valore sta sparendo deve, necessariamente, vendere ciò che ha di buono per non saltare e allora nel tritacarne ci finiscono anche i pezzi più pregiati.
Trump, un prodotto del turbo-capitalismo degli anni Ottanta, sta portando a termine il processo di totale autoreferenzialità statunitense e sta svelando quanto l’Occidente, l’Europa in primis, sia dipendente da tale autoreferenzialità, tanto da risultare marginale persino quando invoca un’allarmantissima chiamata alle armi. Pensare di trattare con Trump pare una follia e sarebbe opportuno, forse, provare a ragionare con il resto del mondo, Cina in primis, a cui Trump ha dichiarato guerra.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)
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