Interni
Torino non ha buone carte
È concreto il rischio di sforare nuovamente il patto di stabilità. L’improbabile soluzione è vendere le società dei servizi pubblici —
Torino rischia di far la fine di Alessandria. La quarta città d’Italia potrebbe salutare il 2013 in dissesto finanziario. Piero Fassino lo sa, e gioca una difficile partita a poker col bilancio del Comune di Torino. Per evitare la tempesta, l’ente di piazza Palazzo di Città deve incassare oltre 350 milioni di euro. Non può bluffare, però: le quattro carte che ha in mano le conoscono tutti. Sono Gtt, Amiat, Trm e Sagat, le quattro società partecipate che il Comune di Torino ha l’obbligo di vendere entro il 31 dicembre 2012. La prima gestisce il trasporto pubblico locale, la seconda il ciclo dei rifiuti; la terza ha costruito l’inceneritore della città, al Gerbido, e la quarta gestisce l’aeroporto di Caselle, lo scalo cittadino.
Torino dovrebbe incassare 370 milioni di euro. Ma se le quattro operazioni non dovessero andare in porto, il rischio -concreto- è che il capoluogo piemontese finisca proprio come Alessandria. Ad esplicitarlo un paio di documenti, presentati al Tar del Piemonte dagli avvocati del Comune di Torino e dalla Finanziaria Città di Torino (Fct), la holding attraverso la quale l’ente detiene la partecipazione nelle società. Il ricorso -avanzato da un gruppo di cittadini tra coloro che hanno fatto parte del Comitato promotore dei referendum sui servizi pubblici locali del giugno 2012- contesta la delibera con cui la Giunta comunale mette in vendita Amiat e Trm. Le due “memorie” sono datate intorno alla metà di ottobre. Quello firmato da Donatella Spinelli, avvocato del Comune di Torino, spiega che “il mancato incasso delle quote straordinarie proposte a bilancio (appunto i 370 milioni di euro, ndr) determinerebbe una criticità di liquidità tale che la Città sarebbe costretta alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (in sostanza un predissesto)”; nell’altro, gli avvocati Mario Comba e Matteo Chiosso di Fct sottolineano che “il Comune, per rispettare il patto di stabilità 2012-2014, deve incassare le entrate straordinarie proposte a bilancio per oltre 300 milioni relative alle alienazioni mobiliari delle quote delle società partecipate”. E paventano un disastro qualora il giudice bloccasse, in particolare, la vendita di Trm, la società che non ha ancora completato la costruzione dell’inceneritore di Torino: se l’azionista (oggi il Comune di Torino detiene il 95,98% delle azioni) non sarà in grado di sottoscrivere gli aumenti di capitale necessari, ciò “comporterebbe il blocco dei finanziamenti bancari per la realizzazione del termovalorizzatore (sic!) che pertanto non potrebbe essere terminato”. Gli avvocati attaccano i ricorrenti, chiedendosi se essi intendano “sostituirsi all’amministrazione per effettuare una scelta eminentemente politica, quale quella di individuare i beni da vendere per rispettare il patto di stabilità”.
La vicenda Trm (un investimento da mezzo miliardo di euro) merita un approfondimento: il Consiglio comunale ha votato la cessione dell’80% delle azioni il 25 luglio. La voce più insistente, a lungo, è stata che il Gerbido sarebbe stato acquistato da Iren, la multiutility quotata in Borsa nata dalla fusione tra Iride ed Enia, e partecipata dallo stesso Comune di Torino attraverso un’altra finanziaria, Finanzaria sviluppo utilities (Fsu, di cui è azionista al 50%, con il Comune di Genova).
Purtroppo per il Comune di Torino, nemmeno Fsu se la passa bene: secondo un dossier finora inedito, elaborato dal Comitato acqua pubblica di Torino, la Finanziaria avrebbe mantenuto dal 2006 al 2010 un valore d’iscrizione a bilancio delle azioni di Iren (e in precedenza di Iride) superiore in media del 45% rispetto patrimonio netto della società controllata. Ciò si è tradotto in un salasso nel 2011, quando Fsu è stata costretta a riconoscere una svalutazione di oltre 250 milioni di euro. “Durante il 2012 -spiegano gli autori del dossier- il corso del titolo è precipitato (ad ottobre la quotazione è mediamente inferiore agli 0,50 euro) tale da rendere, di fatto, la svalutazione effettuata assolutamente insufficiente”. I Comuni di Torino e Genova, azionisti di Fsu, avrebbero potuto accantonare risorse in conto economico, per affrontare questa situazione, e invece hanno fatto il contrario, continuando a “garantirsi” dividendi. Tra il 2006 e il 2011, Iride/Iren hanno garantito ai due Comuni dividendi per oltre 175 milioni di euro. Solo che il 61% di questi dividendi sono stati distribuiti andando ad intaccare le riserve della società. Minando, cioè, la solidità dell’azienda.
L’unica certezza, per il Comune di Torino -che ha giocato maldestramente a fare l’azionista e vanta un debito complessivo che ha superato i 4,5 miliardi di euro- è il rischio di dissesto.
Intanto Fct ha speso, nei primi sette mesi del 2012, ben 483mila euro più Iva per gli advisor e i consulenti che hanno imbastito le gare per alienare la quattro carte che restano in mano a Piero Fassino. Molti di più delle fattura che il Comune (che controlla il 100% di Fct) deve pagare da 250-300 giorni alla cooperativa San Donato (www.coopsandonato.it), una realtà storica che dal 1981 gestisce servizi educativi residenziali, diurni e scolastici, rivolti a minori, stranieri ed adulti disabili: 263.265 euro. —
Il Piemonte è fallito
Anche la Regione Piemonte rischia il default. Lo ha spiegato, a metà ottobre, l’assessore alla Sanità, Paolo Monferino, parlando di “fallimento tecnico”. Sommando l’indebitamento dell’amministrazione regionale a quella della Asl, si arriva a quasi 10 miliardi di euro.
Alcune Asl, in particolare, pagano i fornitori, anche la cooperativa San Donato, a 12-18 mesi. E se la Regione rischia il crack, le scelte dell’amministrazione guidata da Roberto Cota hanno già portato in liquidazione il Centro di riferimento per l’agricoltura biologica (Crab, www.ilcrab.it), una società consortile con un capitale di circa 170mila euro, i cui soci sono la Provincia di Torino (maggioranza), Regione, Camera di commercio, Unioncamere e la Scuola teorico pratica Malva Arnaldi. Dal 2002 si è occupato per dieci anni di recupero della biodiversità: “Abbiamo lavorato su una quarantina di varietà, tra cereali ed ortaggi -racconta Massimo Pinna, il direttore-. Tra le attività, la sperimentazione tecniche di coltivazione, la promozione di prodotti, la consulenza per la creazione di reti”. Un patrimonio che rischia di perdersi: “Ad ottobre 2012 i soci hanno deciso di mettere in liquidazione il Centro. Ma i soci più importanti sono quegli stessi enti, Regione e Provincia, che nel 2012 avevano fatto mancare le risorse per le attività del Crab: la Regione non ha rispettato accordi su programmi pluriennali, e ha fatto mancare 67mila euro. La Provincia, 70mila. Così si è eroso il capitale sociale”. E l’epilogo non poteva che essere questo.