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Testimone in Val di Susa

Il racconto della giornalista Chiara Spadaro, alla manifestazione del 3 luglio

Quel signore alto che sale con noi la strada verso Ramat è valsusino: lo sappiamo dalle sue scarpe adatte ai sentieri di montagna, i pantaloncini corti, lo zainetto sulle spalle e la bandiera No Tav che sventola alta dal bastone che stringe in mano. Scambiamo qualche parola camminando, mentre con questo spezzone di corteo saliamo verso la montagna: è orgoglioso della grande partecipazione alla manifestazione di oggi (domenica 3 luglio, ndr) e non appena scopre che veniamo da Vicenza ci chiede come vanno le cose “da noi”, contro la base militare a stelle e strisce al Dal Molin.

Così, chiacchierando e scambiando impressioni e idee, la salita non si fa sentire: nessuno sa bene cosa aspettarsi una volta arrivati lassù, si cercano “indizi” e suggerimenti sul da farsi, ognuno dice la sua e spera di essere arrivato fin qui sufficientemente attrezzato. Io ad esempio ancora una volta mi trovo impreparata: lo zaino è sicuramente più grande e scomodo del dovuto, e ai piedi indosso un paio di polacchine acquistate con il nostro Gruppo d’acquisto solidale, che scoprirò -solo troppo tardi, quando ormai avrò già male ai piedi- avere “le suole troppo lisce”, come osserva una signora che mi cammina dietro, lungo il tragitto di ritorno verso Chiomonte. Se non altro l’acqua -in borraccia- non mi manca. La mascherina antigas non ho nemmeno pensato di portarla, mentre il nostro compagno di strada valususino l’ha con sé: “Ho già preso abbastanza lacrimogeni lunedì scorso -ci racconta-, questa volta non ho intenzione di farmi intossicare ancora”. E’ dopo i fatti di quel lunedì (27 giugno, ndr), con l’apertura del cantiere a la presa da parte delle forze dell’ordine del presidio di Chiomonte, infatti, che è stata indetta la manifestazione nazionale di oggi che ci ha portato in migliaia in Valle, ancora una volta.

Di noi, infatti, nessuno potrà dire che “non c’entravano nulla con la Val di Susa”: non è la prima volta che da Vicenza veniamo in Valle per resistere insieme al movimento No Tav e in questi anni abbiamo stretto un legame forte con i valsusini contrari al treno ad alta velocità. Questa reciproca solidarietà -che nel tempo con alcuni si è trasformata in una relazione profonda- è racchiusa nel “Patto di mutuo soccorso” che lega diversi movimenti italiani e che prevede un appoggio reciproco in caso di bisogno, come oggi.

In molti hanno provato a confrontare i nostri due movimenti -No Tav e No Dal Molin- evidenziandone similitudini e differenze, confrontando esperienze e territori, cercando di leggerne i destini. Entrambi siamo stati definiti movimenti “Nimby” (ovvero: “non nel mio giardino”), minoritari o violenti (come sarà anche oggi) -a seconda delle occasioni-, dimenticando troppo spesso che, invece, quel che unisce comunità in fondo così diverse, in territori profondamente differenti, si chiama amicizia. E’ per questo che sono venuta qui oggi -prima di tutto, ancor prima delle profonde motivazioni che mi spingono a essere No Tav, tanto quanto No Dal Molin- per salutare Chiara e Claudio, abbracciare Ezio e sapere come sta Valentina dopo la giornata di lunedì, dopo il sequestro del Presidio che per loro -come per noi a Vicenza- è casa.

A differenza del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, intervistato da Repubblica lunedì 4 luglio, non conosco la Valle perché “da scout ho camminato sul sentiero dei Franchi” (pur essendo stata scout per una decina d’anni), ma perché ho condiviso con i valsusini un pezzo di torta e un bicchierino di Genepy, perché ho partecipato alle assemblee dei No Tav, perché ho dormito nelle loro case e perché abbiamo attraversato insieme i paesini della Valle, durante le manifestazioni di questi ultimi anni, così come le strade di Vicenza. Con loro abbiamo imparato, nel tempo, a conoscerci e fidarci gli uni degli altri, in altre parole a riconoscerci, e non solo grazie al “trucco” che ci ha insegnato Alberto Perino: “Per riconoscere un valsusino devi guardargli i piedi”, se indossa gli scarponi stai certa che viene dalla Valle.

Io, invece, che arrivo dalla città, cammino con le mie polacchine, senza capire molto di quel che mi sta succedendo attorno, ragione per la quale le dichiarazioni che leggo l’indomani (lunedì) sui giornali da parte di chi la manifestazione l’ha solo guardata da lontano e nonostante questo si sente all’altezza di giudicare, mi sembrano ancora più assurde. Per me che pure ero lì, è stata una giornata piuttosto confusa, forse per il semplice fatto che ci si è mossi contemporaneamente su più fronti, dopo la partenza collettiva dal forte di Exilles: il corteo lungo la strada, aperto da “i sindaci e i bambini, con i palloncini” -come è stato sottolineato più volte- e quello salito a Ramat, lo spezzone di Giaglione e quello partito da Chiomonte. E’ lì che, scesi da Ramat, abbiamo provato a tornare per recuperare il nostro gruppo (che nel frattempo si era disperso) e poter poi tornare verso casa; per farlo abbiamo dovuto guadare la Dora Riparia, il fiume che separa i due lati della Valle: scarpe in mano e pantaloni arrotolati, uno dopo l’altra. L’acqua è fredda e tutto mi sembra così strano mentre camminiamo velocemente per evitare i lanci di lacrimogeni, ma sull’altra sponda c’è qualcuno che ti aiuta, offrendoti una mano: l’afferro e ricambio con un sorriso. Poi, gli passo le scarpe per avere le mani libere e intanto osservo le sue, che ha già rinfilato ai piedi: sono scarponcini da montagna. Tutto il resto sono solo passi lungo lo stesso sentiero, fino a raggiungere casa.

 

 

 

 

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