Ambiente / Opinioni
Syngenta tifa riduzionismo, per questo teme agricoltura bio e cambiamento ecologico
Sull’onda della guerra in Ucraina e del rischio di una crisi alimentare, le multinazionali dell’agribusiness spingono affinché l’Unione europea freni le proprie politiche per rendere più sostenibile e resiliente il settore agricolo. Oggi più che mai, però, è fondamentale puntare su questi obiettivi. L’analisi di Stefano Bocchi
Le dichiarazioni rilasciate alcuni giorni fa da Erik Fyrward, amministratore delegato di Syngenta, hanno aperto un fronte di discussione ampio e diversificato. Di fronte a una crisi produttiva di cereali aggravata da una guerra in atto -è la tesi di Fyrward- dobbiamo rinunciare all’agricoltura biologica che comporta minori rese e quindi mette a rischio la sicurezza alimentare. Il vertice di uno dei più importanti gruppi industriali petrolchimici, attivo nel settore agricolo, assume una posizione che -ovviamente legata agli interessi industriali della multinazionale cinese- viene presentata come di salvaguardia dell’interesse globale.
L’affermazione di Fyrward (erronea e solo in parte smentita dallo stesso) non arriva in un momento qualsiasi. Riaprendo il dibattito sulla food security, sottolineandone strumentalmente alcuni aspetti e nascondendone altri, è probabile che voglia rivolgersi in particolare all’Unione europea. Che in questi mesi sta definendo la propria futura politica agraria. Chiariamo alcuni punti chiave, utili per seguire il dibattito internazionale che si svilupperà nei prossimi mesi e che ci riguarda tutti.
Il ruolo del sistema agroalimentare è fondamentale per le molteplici ricadute che esercita sulla qualità della nostra vita e quella dell’intero Pianeta. Il modello attuale risulta insostenibile per diverse cause: ampie inefficienze d’uso di fattori produttivi offerti dall’industria, forte ricorso alle energie fossili, iniquità nella distribuzione delle ricchezze, inquinamento (dell’aria, delle acque e del suolo), banalizzazione dei paesaggi. L’agroalimentare subisce da decenni, sistematicamente, una perdita importante delle risorse su cui poggia (biodiversità, terreno fertile, acqua irrigua, lavoro, conoscenze, autonomia) e dimostra di non avere sufficienti strumenti di difesa. Il modello attuale dei consumi determina, inoltre, diete insostenibili, spesso squilibrate per la nostra salute e fonte di sprechi alimentari.
All’interno di questo quadro, con la futura Politica agricola comune (Pac), l’ Unione europea affronta non solo il tema del sostegno economico diretto alle aziende agrarie, ma di individuare anche interventi per riqualificare l’intero settore in termini ambientali e sociali. La Pac, per questo, si collega al Green Deal e alla strategia europea “Biodiversità”. Inoltre, la strategia europea “Farm to Fork” (dal produttore al consumatore) indica la necessità di ridurre l’uso di agro-farmaci di sintesi, concimi e antibiotici e diffondere l’agricoltura biologica su almeno il 25% della superficie utilizzata. Il laboratorio politico europeo mobiliterà consistenti risorse economiche per raggiungere tre obiettivi: promuovere un settore agricolo intelligente, competitivo, resiliente e diversificato; sostenere e rafforzare la tutela dell’ambiente e l’azione per il clima nel rispetto degli accordi di Parigi; rafforzare il tessuto socioeconomico delle zone rurali. Si aggiunge l’obiettivo trasversale di ammodernamento dell’agricoltura attraverso la promozione e condivisione delle conoscenze, la partecipazione all’innovazione e la digitalizzazione.
Diverse forme di opposizione e conservazione, attive fin dalle prime edizioni della Pac, si sono progressivamente strutturate in modo da organizzare una vera a propria resistenza al cambiamento. Questa resistenza non si è quasi mai manifestata attraverso soluzioni alternative alle proposte di riforme, quanto piuttosto con tentativi di depotenziamento delle innovazioni, in particolare di quelle destinate a stabilire una maggiore equità di distribuzione di ricchezze, a determinare una riduzione degli impatti, una mitigazione del cambiamento climatico, una difesa della biodiversità.
Alla fine del 2021 il Parlamento europeo e il Consiglio, approvando i nuovi regolamenti, hanno avviato la fase successiva di definizione delle modalità di applicazione. La Commissione ha valutato da poco il Piano strategico nazionale italiano, presentato negli ultimi mesi dello scorso anno e ha individuato diversi punti di debolezza. La premessa del documento della Commissione è chiara: “L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’attuale impennata generalizzata dei prezzi dei prodotti di base pongono in primo piano, con la massima evidenza, il legame essenziale tra l’azione per il clima e la sicurezza alimentare. Tale legame è riconosciuto nell’Accordo di Parigi ed è stato integrato nella nuova legislazione per una politica agricola comune e nella strategia ‘Farm to Fork’ al fine di garantire un approvvigionamento alimentare sufficiente a prezzi accessibili per tutti i cittadini in qualsiasi situazione mentre si opera la transizione verso sistemi alimentari sostenibili -si legge nel documento-. In tale contesto, e nell’ambito della crisi climatica e della biodiversità, gli Stati membri dovrebbero rivedere i loro piani strategici della Pac per sfruttare tutte le opportunità: di rafforzare la resilienza del settore agricolo dell’Ue; ridurne la dipendenza dai fertilizzanti sintetici e aumentare la produzione di energia rinnovabile senza compromettere la produzione alimentare; trasformarne la capacità produttiva in linea con metodi di produzione più sostenibili. Questo comporta, fra l’altro, azioni volte a sostenere il sequestro del carbonio nei suoli agricoli, sostenere le pratiche agro-ecologiche, promuovere la produzione sostenibile e l’uso di biogas, migliorare l’efficienza energetica, estendere l’uso dell’agricoltura di precisione, potenziare la produzione di colture proteiche e diffondere l’applicazione più ampia possibile delle migliori pratiche tramite il trasferimento di conoscenze”.
Rimane l’esigenza di confermare, anche con guerre in atto, gli impegni di rispetto delle risorse che sono alla base della produzione agroalimentare di oggi e di domani. Anzi: a maggior ragione. Questi espliciti inviti a confermare il percorso strategico verso la sostenibilità integrale hanno indotto alcuni difensori dello status quo a chiedere un ritorno al passato. Viene infatti da questi riesumato uno schema sperimentato e diffuso negli ultimi decenni del secolo scorso che fa leva sul miglioramento genetico di alcune colture per innalzarne i potenziali produttivi, raggiungibili nella realtà grazie al sistematico ricorso ad agro-farmaci e concimi di sintesi offerti dall’industria.
Nel mondo, si contrappongono strategie agroalimentari molto distanti. Quella europea diversa da quella del Nord America, a sua volta vicina a quella proposta da una parte dell’industria cinese; la strategia dell’Agenda 2030 per la sostenibilità ben diversa da quella delle multinazionali del petrolchimico; la strategia che basa su un’ampia e sistemica analisi diversa da quella parziale e riduzionistica di una parte del mondo dell’innovazione.
A tal proposito, è forse il caso di aggiungere alcune considerazioni che riguardano il settore ricerca e innovazione, che rimane un motore fondamentale per il necessario e auspicabile cambiamento verso livelli di sostenibilità integrale. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite “Global Environment Outlook (geo-6)” pone tre domande: chi finanzia l’attuale crescita della conoscenza? A chi serve? Chi conta all’interno del sistema? Le risposte: le innovazioni hanno diverse fonti di finanziamento, ma i finanziamenti più consistenti sono rivolti a ottenere prodotti tecnologici, non ci sono altrettanti fondi investiti per ricerche relative ai rapporti fra società e ambiente. Le domande di ricerca -e qui arriva la risposta alla seconda domanda- tendono a rivolgersi agli interessi attualmente dominanti, a partire da quelli dei finanziatori e a quelli di carattere disciplinare, specialistico. Infine -terza risposta- oltre il 90 % dei ricercatori opera nei Paesi più ricchi.
Appare chiaro, dopo decenni di studi ed esperienze, che le valutazioni di sostenibilità del settore agroalimentare non possano essere fatte alla scala di singola coltura e tantomeno di organismo (pianta). Le efficienze d’uso di prodotti offerti dal mercato (agro-farmaci, antibiotici, concimi di sintesi, macchine), gli impatti delle agrotecniche, la redditività delle scelte devono essere lette con uno sguardo ampio, che parta dalla scala di azienda agricola includa l’intera filiera, consideri i rapporti con il territorio. L’innovazione tecnologica e la ricerca di nuovi prodotti dovrebbero essere assunte all’interno di un quadro di insieme più ampio, dotato di potenti filtri scientifici, culturali, etici.
In questa fase storica, il dibattito si sta polarizzando. Sta crescendo la voce di chi considera la tematica della sostenibilità come un intralcio al business internazionale e vorrebbe riportare indietro l’orologio ai tempi della “Rivoluzione verde” del secolo scorso. Questa visione, come detto, agisce a favore del mercato e di una parte del settore della ricerca e innovazione. Molto diverso invece è lo sguardo di chi ritiene necessaria e urgente una nuova politica, una nuova economia e una nuova ecologia per affrontare le grandi emergenze, in un quadro coerente di cura degli ecosistemi, di ricerca di giustizia ed equità. Le due strade, quella del riduzionismo (funzionale a interessi di pochi) e quella di un profondo cambiamento ecologico (sostenuto da un approccio sistemico) divergono.
Stefano Bocchi, professore ordinario di Agronomia presso l’Università degli Studi di Milano. Presidente dell’Associazione italiana di agroecologia (Aida). I suoi ultimi libri: “Zolle, storie di tuberi, graminacee e terre coltivate” (Ed. Cortina, 2015); “L’ospite imperfetto. L’umanità e la salute del pianeta nell’Agenda 2030” (Ed.Carocci, 2021)
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