Ambiente / Opinioni
Suolo, impatto ambientale, mobilità lenta. Il Piano di ripresa delude
Il consumo di suolo non è una preoccupazione del Pnrr del governo Draghi, che sull’urbanistica compie un pericoloso passo indietro. La Valutazione d’impatto ambientale è presentata come un ostacolo alle opere. Alle ciclovie spettano le briciole, i cammini storici non sono considerati. L’analisi del prof. Paolo Pileri
Chiamatela Pippo, Mario, Peppe o Gastone, ma non transizione e ancor meno ecologica, perché l’ecologia è una cosa seria. Forse il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr) pensa di essere l’annuncio di una transizione, ma non ecologica. Ci vuole di più.
Non è affatto un piano che sovverte il modello di sviluppo che fino all’altro ieri faceva bottino della natura e delle sue risorse. Non è neppure un piano che coglie di sorpresa annunciando cose che mai avresti pensato: più lentezza e meno alta velocità, più aree interne e meno metropoli (alle aree interne vanno appena 600 milioni di euro, “Missione 5”), più regia pubblica e meno delega di cose pubbliche ai privati.
La versione Draghi è perfino, a tratti, più pericolosa e deludente della ultima versione Conte. Pare esserlo senz’altro per questioni come suolo, valutazione ambientale e mobilità lenta. Un Pnrr che non educa la nostra società a cambiare e che non riscatta le parole dalla manomissione concettuale con cui sono state imbrattate per anni e anni dagli interessi finanziari e produttivi, sempre avidi di profitto. L’aggettivo “ecologico” somiglia più a una pezza per dare avvio a progetti che di ecologico hanno ben poco, come le nuove linee di Alta Velocità che sono definite “sostenibili” a priori (“Missione 2”), quando sappiamo bene che se si facesse un serio bilancio ecologico, i danni generati dalle fasi di cantiere metterebbero in enorme crisi la sostenibilità (per non dire che la annullerebbero, se non peggio).
La delusione di questo Pnrr passa anche attraverso alcune contraddizioni irricevibili, che ci vengono vendute addirittura come salvifiche perché semplificherebbero la burocrazia. È il caso della Valutazione di impatto ambientale (VIA), e non solo, che continua a essere apostrofata come nemica dello sviluppo, collo di bottiglia (par. 1.1.3). È inaudito.
Al punto 2.1.2. del Pnrr (Semplificazione e razionalizzazione delle normative in materia ambientale) si legge che “È necessaria una profonda semplificazione delle norme in materia di procedimenti in materia ambientale e, in particolare, delle disposizioni concernenti la valutazione di impatto ambientale (‘VIA’). Le norme vigenti prevedono procedure di durata troppo lunga e ostacolano la realizzazione di infrastrutture e di altri interventi sul territorio”. E ancora: “La semplificazione delle norme sui procedimenti di valutazione di impatto ambientale -almeno quanto alle opere strategiche previste dal Pnrr e dal Pniec- va disposta con decreto-legge da approvarsi dopo la trasmissione del Pnrr”.
Tutto questo ha il terribile sapore di un condono preventivo e un lasciapassare per le opere del Pnrr ma con la presunzione di estenderlo persino oltre il Piano. Si parla di liberalizzazione delle procedure (p. 53) e la cosa non è affatto detto sia una buona notizia per l’ambiente.
Lo abbiamo già scritto ai tempi del governo Conte e non sarebbe neppure da dire: la transizione ecologica non deve essere ottenuta a spese dell’ambiente. Che la VIA sia farraginosa, è vero. Ma lo è anche perché il personale è ridotto e demotivato (ben venga se il Pnrr mette in campo esperti e ne forma nella amministrazione: vedremo come si concilia questo con la liberalizzazione, p. 52). Perché non si vogliono generare set di indicatori ambientali unici, perché non si investe nelle basi dati ambientali, perché i progetti sono spesso fatti male o di non facile lettura. Insomma, anziché irrobustire una procedura importantissima facendo capire che i progetti devono imparare a non impattare; anziché investire in chi se ne occupa mettendolo nella condizione di essere più rapido ed efficiente; anziché contrastare la burocrazia si fa la lotta alle poche procedure tecniche di garanzia ambientale anestetizzandole. La cosa sa di condono preventivo. Difficile chiamarla transizione ecologica.
Dopodiché: volete ridurre la burocrazia? Allora riducete i Comuni, accorpate le competenze ambientali per unità fisiografiche o paesaggistiche, riformate gli uffici tecnici ma soprattutto fondete i Comuni troppo piccoli (il 30% di quelli italiani). Di cose se ne possono fare senza eliminare VIA o VAS.
Consumo di suolo: non è una preoccupazione del Pnrr di Mario Draghi. Per sole tre volte il Pnrr cita il consumo di suolo, ma nessuna delle tre è una buona notizia. La prima è parlando di turismo e cultura: è bene che il business turistico possa godere di una scena paesaggistica adeguata alla sua necessità di estrarre valore dal territorio attraverso i turisti paganti. Per salvaguardare il profitto turistico si suggeriscono, senza dire quali, “politiche intrinsecamente ecologiche che comportino la limitazione del consumo di suolo” (p. 115). Da decenni, sappiamo bene che utilizzare la parola “limitazione” e non dire nulla è più o meno la stessa cosa. Il fatto che nel Pnrr compaiano parole del genere equivale a dire che del suolo poco importa.
Il consumo di suolo ricompare nell’Investimento 3.3 “Rinaturazione dell’area Po” ma giusto per ricordare en-passant che tra le cause di agonia del Po è vi è anche il consumo di suolo. Giusto, ma non è una politica di azzeramento del consumo. Più preoccupante quando è citato nell’Investimento 2.2. “L’intervento Piani urbani integrati è dedicato alle periferie delle Città Metropolitane e prevede una pianificazione urbanistica partecipata, con l’obiettivo di trasformare territori vulnerabili in città smart e sostenibili, limitando il consumo di suolo edificabile. Nelle aree metropolitane si potranno realizzare sinergie di pianificazione tra il Comune ‘principale’ ed i Comuni limitrofi più piccoli con l’obiettivo di ricucire tessuto urbano ed extra-urbano, colmando deficit infrastrutturali e di mobilità”. Un vero e proprio capitombolo di parole tipiche di quella urbanistica gattopardesca che vuole cambiare tutto senza cambiare nulla.
Ancora si parla di trasformazioni che “limitino” e, quindi, non evitano il consumo di suolo. Ma non basta. Si suggerisce alle città di espandersi su territori “vulnerabili”. La cosa suona preoccupante perché potrebbero essere quelli sottoposti a dissesto idrogeologico, colpiti da frane e smottamenti o cose del genere. Costruirci sopra sarebbe una follia anche per la più smart delle città. E poi, ancor peggio, il Pnrr invita le città a ricucirsi tra loro, ovvero a colmare quegli spazi aperti tra aree urbane con altre aree urbane. Questo è sbagliato. Sbagliato perché innanzitutto c’è il “già urbanizzato” da recuperare. Sbagliato perché conferma ancora un’idea di urbanizzazione dove i vuoti sono ferite da ricucire e i pieni sono la pelle buona della nostra società. Per il suolo è l’esatto contrario. È il modo di dire tipico dell’urbanistica insensibile al suolo ma che un Pnrr dedicato alla transizione ecologica avrebbe dovuto ribaltare. E invece sta dicendo che i prati tra un Comune e l’altro o tra un quartiere e l’altro o tra un isolato e l’altro, possono essere cancellati per ricucire l’urbano, come se l’urbano fosse là prima dei prati. Assurdo: è un passo indietro. Fine dell’attenzione al consumo di suolo. Il suolo torna a essere il pavimento per la rendita, la piastra dove avvitare pale eoliche e fissare pannelli solari od ospitare una rigenerazione urbana mal definita e consumatrice di suoli o far spazio ad altri impianti nel frattempo rinominati green.
E arriviamo ora alle “ciclovie e ai cammini”. I cammini storici non ci sono nel Pnrr del governo Draghi. Come se la Francigena o la via Romea o l’Appia o le vie del Sale non esistessero nel nostro Paese e non costituissero un potenziale straordinario e di sicura sostenibilità per immaginare società, occupazione e cultura. Dobbiamo concludere che non interessano? Che non ne hanno colto le opportunità di rigenerazione territoriale per le aree più fragili del Paese? È assai probabile, purtroppo. Non si rendono conto che se si investe in sentieri e in pianificazione coordinata dei territori attraversati da quelle linee lente, si genererebbero decine di migliaia di posti di lavoro nelle aree più difficili del Paese. Le ciclovie sono trattate più o meno allo stesso modo: investimenti di gran lunga inferiori alle necessità. Per mettere in funzione ciclabili e cammini avremmo bisogno di avere a disposizione almeno un miliardo di euro per ogni anno del Pnrr. È così che avvengono i cambiamenti. Così si creano le condizioni affinché le imprese possono investire nelle aree interne italiane da sud a nord.
Invece per il Pnrr Draghi la ciclabilità è ancora e solo una delle possibili forme di mobilità (“soft”: nuova invenzione terminologica inglese di cui non vi era necessità), sostenibile sì, ma solo mobilità. Alle ciclovie vengono destinate briciole: solo 600 milioni di euro, per realizzare 570 chilometri in città e 1.250 fuori (Investimento 4.1), di cui una buona parte era probabilmente già disponibile da prima. Il “rafforzamento mobilità soft”, come la chiama il Pnrr, è debole. L’ex ministro Delrio aveva messo a disposizione una cifra simile già ai suoi tempi e senza “Recovery Fund”. I nostri cugini europei investono in lentezza, noi non ne vogliamo sapere.
Addio ciclovie, addio sentieri e cammini: dobbiamo arrangiarci con poche briciole. Ancora velocità e alta velocità. Ancora via libera per il modello della crescita rapida che può contare su varie deregulation.
La delusione è tanta. Troppa per suolo e lentezza, per trasformazioni e valutazione ambientale, per l’irrisolta frammentazione amministrativa, per la cultura ecologica. Il timore che la transizione ecologica sia già stata rapinata da vecchie ideologie sviluppiste e dai soliti interessi turbocapitalisti che si sono travestiti di verde in fretta e furia è palpabile. Il timore che la sfida ecologica rischi la banalità del green o del “meglio così che niente” è ora possibile. Il sospetto che l’ignoranza ecologica possa aver dettato alcune strategie, è una ipotesi che non possiamo scartare. La tentazione di farsi scudo con le solite parole manomesse e ambigue come smart, green, soft, tecnologia, digitalizzazione o altre diavolerie del genere non possiamo accantonarla.
È un Pnrr troppo modesto e, in fondo, obbediente a logiche più industriali e finanziarie che ecologiche. E poi non viene sollevato alcun dubbio sugli effetti ambientali di certi interventi. Il turismo ad esempio. Non si capisce quale turismo vuole il Pnrr. L’agricoltura, è tutta ecologica? Un Pnrr che, in fondo, non vuole cambiare la testa a nessuno di quelli che la testa dovevano e dovrebbero cambiarla eccome. È dura specchiarsi in questo Pnrr e sentirsi finalmente in una nuova Italia.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)
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