Sulle spalle dei poveri – Ae 72
L’economia di mercato non è più un sistema volto a soddisfare i bisogni basilari dell’umanità. Piuttosto li massimizza creando nuove esigenze per realizzare profitti sempre maggiori. Intervista a Majid Rahnema Il suo libro è il risultato di una lunga ricerca…
L’economia di mercato non è più un sistema volto a soddisfare i bisogni basilari dell’umanità.
Piuttosto li massimizza creando nuove esigenze per realizzare profitti sempre maggiori.
Intervista a Majid Rahnema
Il suo libro è il risultato di una lunga ricerca sociale ed economica sul concetto di “povertà”, e di una vita intera spesa a lavorare insieme ai poveri. Qual è la conclusione del suo lavoro?
Una conclusione unanime raggiunta dagli storici della povertà è che si tratta di un concetto troppo relativo, troppo generale e troppo culturalmente specifico per essere definito in termini universali. Perciò, è impossibile e insensato conversare in modo serio sul tema se prima non ci mettiamo d’accordo su quale significato esso abbia assunto oggi.
Storicamente, centinaia di significati sono stati associati a differenti forma di precarietà, povertà e miseria, e la stessa parola ha preso a indicare numerosi concetti, anche differenti o opposti tra loro. Ho ritenuto necessario passare perciò per la storia, o meglio l’archeologia della parola. Questo mi ha portato a riconoscere diverse categorie di povertà e a vedere con chiarezza la non pertinenza e il pericolo di confondere la povertà con la miseria. Una confusione che non dovrebbe essere permessa, non solo per ragioni semantiche ed epistemologiche, ma anche per l’uso che ne viene fatto dalla politica e sulle dannose conseguenze per la vita dei poveri.
Quali sono allora, in poche parole, le differenze che separano la povertà dalla miseria?
Ho definito la miseria come una situazione difficile nella quale i poveri abbandonano l’alveo fluviale, “l’amaca” che il proprio modo di vivere e condividere aveva permesso loro di creare con l’obiettivo di rispondere alle necessità. Per usare un concetto creato da Spinoza, la miseria rappresenta la perdita della potentia individuale, che è il modo di vivere proprio di ogni essere vivente. È l’innata capacità di ognuno di preservare la propria unica essenza. Quando questa potentia è attaccata, mutilata o distrutta per differenti ragioni, priva l’uomo di tutti i mezzi innati a sua disposizione per superare le difficoltà che mettono in pericolo la vita.
Essi vengono trasformate in persone inermi, cadute nell’oceano infuriato dopo aver perso ogni capacità di nuotare. E diventano perciò dipendenti da un battello di salvataggio lanciato loro da altri. Perciò, la loro situazione è estremamente diversa da quella del povero che, anche nelle circostanze più tragiche, può sempre contare sulla propria potentia, che è viva e in forma.
Cosa pensa delle affermazioni sulla povertà della Banca mondiale, e sulla strategia che questa adotta per aiutare i poveri?
Per essere una banca, un’istituzione cioè votata al profitto, la Banca mondiale manifesta un’inusuale dose di “compassione” per i poveri. Il problema principale, però, risiede nel fatto che i suoi funzionari hanno sistematicamente confuso la povertà con la miseria e l’indigenza.
Una confusione che è chiara dal modo in cui definiscono i poveri. Per loro i poveri del mondo, senza considerare la loro potentia e la grande ricchezza di esperienze e di saggezza che hanno ereditato dalle proprie culture, sono ridotti a entità economiche che hanno un “reddito” di uno o due dollari al giorno (coloro che vivono con meno di 2 dollari al giorno sono classificati “relativamente poveri” mentre coloro che hanno meno di un dollaro al giorno appartengono alla categoria degli “estremamente poveri”). Secondo il loro calcoli, il 56% della popolazione mondiale è definita povera. Una definizione così semplicistica della povertà ci dice molto della visione strettamente economicista della Banca. Non ci dice nulla, però, della vita reale di questa schiacciante maggioranza della popolazione mondiale.
La confusione tra povertà e miseria è come un attentato catastrofico alla vita e alla potentia del povero, e tende a ridurre questi a oggetto passivo dell’“aiuto” economico o finanziario, sia direttamente -attraverso differenti forme di “assistenza”- sia indirettamente con l’integrazione nei vari processi di “sviluppo” della modernizzazione.
Queste politiche sono state, fino ad oggi, le vere cause della pauperizzazione e proletarizzazione. Quando la Banca mondiale definisce i poveri, rifiuta di considerarli l’unico gruppo di persone che possa ancora agire autonomamente per la propria liberazione.
E poiché il suo obiettivo principale è quella di integrare i poveri nelle proprie strategie orientate al mercato, contribuisce a sradicare le persone dal proprio ambiente umano e sociale, privandole dei mezzi per assicurarsi la sopravvivenza.
L’aiuto economico non è il modo migliore per rispondere ai problemi dei poveri?
L’economia di mercato, che è l’economia produttivista e plasmata dalla tecnologia che guida i destini dei poveri, non è più un’istituzione diretta a soddisfare i bisogni basilari della gente. È piuttosto volta a massimizzarne i bisogni, per realizzare profitti sempre maggiori e creare nuove esigenze socialmente fabbricate, necessarie a realizzare gli obiettivi di profitto. Fortemente dipendente dalle nuove tecnologie, cerca prima di tutto di accrescere le proprie capacità produttive e di far soldi, e di produrre più beni e servizi per coloro che possono permettersi di pagarli.
Un’economia che è diventata un nuovo Giano dalle due facce. Da un lato, ha creato ricchezze inimmaginabili per pochi. Dall’altro, ha prodotto sistematicamente nuove scarsità, responsabili della propagazione della miseria in tutto il mondo. Ad esempio questa economia ha saputo raggiungere livelli inimmaginabili nella produzione di cibo a livello mondiale. Sufficiente a nutrire tra 9 e 12 miliardi di persone, il doppio della popolazione mondiale odierna.
Ma questi stessi processi sono responsabili di una sorta di genocidio, l’eliminazione di miliardi di contadini che, finora, hanno prodotto la maggior parte del cibo per soddisfare il fabbisogno mondiale. Circa trent’anni fa, tutto il Corno d’Africa ha sofferto una terribile carestia che ha portato alla morte di milioni di persone. Tra le cause principali addotte per giustificare questa carestia, c’è che l’economia di sussistenza dell’area era stata distrutta dalle nuove e avanzate politiche di modernizzazione agricola. Così, mentre i poveri della regione morivano di fame, cibo per cani e gatti prodotto nella stessa regione era esportato in Europa e in America, giustificato dal bisogno di valuta straniera per la crescita dell’economia.
Come vede il futuro dei poveri in questa situazione? Che tipo di strategie e soluzioni propone?
I poveri sono, ancora, le persone migliori e più qualificate a cercare una soluzione adeguata per rispondere ai loro problemi. Ciò significa che se qualcuno di noi, tra i “non poveri”, è realmente interessato ad aiutarli (e ad aiutarci, rigenerando milioni di potenzialità che un mondo dominato dal mercato ha condannato alla non partecipazione e all’apatia), il modo migliore per iniziare a farlo è di “saltar giù dalle spalle dei poveri”, come ci ha ricordato Gandhi.
Le trasformazioni che sono state all’origine dell’abbondanza e del progresso nel Nord hanno in verità arricchito pochi in alcune aree, ma nel complesso stanno spingendo il mondo intero verso pericolosi binari morti e abissi pieni di violenza e privazioni.
Fra gli eventi che hanno plasmato la storia dell’ultimo secolo, alcuni ci possono aiutare a trovare nuovi paradigmi e alternative di liberazione che sono così necessari oggi. D’altra parte, l’attività quotidiana di persone “ordinarie”, che cercano di capire e cambiare se stessi e il loro ambiente, si è dimostrata molto più efficace nel dare un significato alla vita umana e alla società. Questo dovrebbe incoraggiarci a dedicare le nostre azioni al bene che possiamo fare qui ed ora nei nostri ambienti. Si può fare ancora molto se ognuno di noi agisce in modo lucido e intelligente per aiutare i propri vicini, prima di tutto, a vedere il mondo con una maggiore chiarezza, e, in secondo luogo, ad agire di conseguenza con attenzione e saggezza. I mutamenti nel mondo della tecnologia possono benissimo servire a promuovere un futuro di liberazione, se solo cambiamenti paralleli avvengono nei cuori e nelle menti delle persone che partecipano a un processo di liberazione di questi tipo. Questo accadrà anche se più persone impareranno a fare delle proprie vite “un’opera d’arte”, come ha sperato Foucault. Se le persone impareranno a essere una candela nel buio per gli altri e per se stessi.
“Quando la povertà diventa miseria”, ed. Einaudi, 2005, 16,50 euro
Majid Rahnema. Nato in Iran nel 1924, vive in Francia.
Ministro della Cultura nel suo Paese alla fine degli anni sessanta, poi diplomatico e funzionario delle Nazioni Unite (ha lavorato con l’Unesco e l’Undp; è stato commissario in Rwanda durante la guerra civile), ha avuto modo di conoscere da vicino le contraddizioni dello sviluppo e della povertà. Il titolo originale del suo libro, pubblicato in francese nel 2003, è Quand la misère chasse la pauvreté (“Quando la miseria caccia la povertà”).