Ambiente / Opinioni
Sulla strada di Palladio per tornare umani
L’idea di una architettura concepita per vivere in comunione con la natura sembra essersi rovesciata. Il caso delle ville in Veneto
“Le case di città sono veramente al gentiluomo di molto splendore e commodità, avendo in esse ad abitare tutto quel tempo che li bisognerà per la amministrazione della Repubblica e governo. Ma non minore utilità e consolazione caverà forse dalle case di villa, dove il resto del tempo si passerà in vedere e ornare le sue possessioni e con industria e arte dell’agricoltura”. Le parole dei Quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio, pubblicati per la prima volta nel 1570 a Venezia, descrivono bene la singolare dicotomia che, sotto la presidenza di Barack Obama, ha caratterizzato la vita quotidiana nell’edificio palladiano più famoso del mondo: la Casa Bianca, costruita tra il 1792 ed il 1800.
Come è ben noto, la Casa Bianca non è un caso isolato. Il segretario di Stato di George Washington, Thomas Jefferson, era anche un architetto, e un devoto seguace di Palladio. Quando Jefferson divenne il terzo presidente degli Stati Uniti (1801) il palladianesimo esercitò un’influenza immensa, diventando una specie di stile architettonico di Stato. La retorica dell’orto domestico che Michelle Obama coltivava alla Casa Bianca può forse farci sorridere, ma l’aspirazione della first lady americana ha un nesso diretto con la tradizione italiana, e dunque con quella classica: se quell’orto non è stato fatto a Cape Code, e cioè in una residenza presidenziale di campagna, ma in città, è perché l’architettura della Casa Bianca è davvero palladiana nella sua trasparenza, nella sua apertura, nella sua ricerca di comunione con l’ambiente, il paesaggio, la natura.
Come ha scritto lo storico dell’architettura James Ackermann: “Il programma di base della villa è rimasto inalterato per oltre duemila anni, da quando cioè fu stabilito per la prima volta dall’antico patriziato romano. Ciò che rende la villa qualcosa di assolutamente unico […]. La villa è rimasta sostanzialmente inalterata, poiché soddisfa una necessità che non muta mai, un’esigenza che non essendo materiale, ma piuttosto psicologica ed ideologica, non è soggetta alle influenze esercitate da società e tecnologie in evoluzione. Essa asseconda infatti desideri e visioni inesaudibili nella realtà”.
La villa è tanto profondamente connessa alla “civiltà” romana, che nessuna sopravvive al crollo dell’impero e alle invasioni barbariche. La crisi delle città, l’insicurezza delle campagne e la durezza della vita quotidiana cancellano insieme il mito, l’ideologia, l’utopia e la tipologia architettonica: è con la rinascita della cultura e del sistema di valori classici, nel XIV secolo, che risorge il mito della vita di campagna, e con esso la villa.
E fu in Veneto, e nell’opera di Palladio, che la villa arrivò al suo vertice moderno. Uno degli aspetti cruciali di questa stagione è il rapporto con il paesaggio: della più celebre tra le sue ville, la Rotonda a Vicenza, Palladio celebra il fatto “che gode da ogni parte di bellissime viste delle quali alcune sono terminate, alcune più lontane, ed altre, che terminano con l’orizzonte: vi sono state fatte le logge in tutte quattro le facce”. Oggi, però, quel paesaggio è stato violato: vicino alla Rotonda incombe l’ecomostro di cemento di Borgo Berga, e solo due ville palladiane su dieci hanno ancora un rapporto con il paesaggio non sfigurato dalla cementificazione. Il Veneto è una delle regioni con il consumo di suolo più alto d’Italia, e l’idea di una architettura concepita per vivere in comunione con la natura sembra essersi rovesciata nel suo contrario. Ritrovare il bandolo di questa storia vorrebbe dire trovare una delle strade per tornare umani. La vera urgenza di questi tempi orrendi.
Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia.
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