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Sognando la pensione
La riforma previdenziale è nuovamente all’ordine del giorno. Uno sguardo al passato, uno al presente e un ultimo, molto incerto, al futuro A cadenza regolare c’è qualche politico, qualche editorialista o più in generale qualcuno tra gli “addetti ai lavori”…
La riforma previdenziale è nuovamente all’ordine del giorno. Uno sguardo al passato, uno al presente e un ultimo, molto incerto, al futuro
A cadenza regolare c’è qualche politico, qualche editorialista o più in generale qualcuno tra gli “addetti ai lavori” che ci ritorna: “E se provassimo a riformare le pensioni?”. Le preoccupazioni che vengono sollevate in questi casi sono in genere di due tipi: in primo luogo si sente obiettare che a causa dell’aumento della speranza di vita e del calo demografico il nostro sistema pensionistico rischia di non essere sostenibile. Ovvero: sempre meno lavoratori dovranno pagare le pensioni di sempre più anziani.
Il secondo problema è l’ampiezza della quota di contributi che viene prelevata dal reddito dei lavoratori. Secondo recenti stime Oecd, tale quota arriva al 33% in Italia, contro una media del 21% negli altri Paesi “sviluppati”. Tale differenza nel costo complessivo del lavoro può costituire uno svantaggio sui mercati internazionali. Inoltre, il costo totale del lavoro, che dal lato dell’impresa comprende anche gli oneri contributivi, se troppo alto può disincentivare le imprese ad assumere, diminuendo così il monte dei salari e costringendo ad aumentare le aliquote contributive per pagare lo stesso monte pensioni.
È il caso di intervenire sull’attuale sistema pensionistico? Per dare una risposta, occorre dapprima ricordare le diverse funzioni che esso dovrebbe assolvere, e in seguito è necessario compiere un esercizio della memoria e ripercorrere i principali interventi che la previdenza pubblica obbligatoria in Italia ha subito, dal 1992 ad oggi. Dunque. Ai sistemi previdenziali si chiede di assolvere tre funzioni fondamentali: garantire alle persone in età da pensione un livello di entrate equiparabile a quanto percepito quando ancora a lavoro (funzione previdenziale); permettere l’accesso a un livello di entrate per lo meno dignitoso, tale da evitare la condizione di povertà anche a chi non ha avuto una carriera lavorativa soddisfacente (funzione redistributiva); assicurare verso rischi non direttamente controllabili, come l’inflazione, o l’allungamento della vita “inattiva” (funzione assicurativa). L’assetto con cui In Italia si arriva agli anni 90 era stato definito nel 1969 dalla riforma Brodolini. Aveva un unico pilastro di previdenza pubblica obbligatoria basato su due cardini: un sistema di finanziamento a ripartizione, secondo cui le generazioni al lavoro versano dei contributi che vengono utilizzati per erogare le prestazioni di chi è già in pensione; e un sistema di calcolo retributivo, secondo cui l’entità della pensione viene commisurata alla retribuzione ricevuta nel periodo finale della vita lavorativa. Tale sistema, in vigore negli anni 70 e 80, e ancora prevalente, ha permesso di conseguire tutti questi obiettivi. La diseguaglianza del reddito tra i pensionati è stata inferiore di quella tra i lavoratori; anche a livello familiare, la distribuzione dei redditi delle famiglie con capofamiglia pensionato non era granché diversa da quella dell’insieme delle famiglie.
Ma non è tutto oro quel che luccica: la coesistenza di un numero consistente di “regimi speciali”, le promozioni automatiche e corporative nell’ultima fase della vita lavorativa, la possibilità di pensionamento anticipato (le così dette baby pensioni, che in alcuni comparti del pubblico impiego hanno permesso il pensionamento per anzianità dopo appena 15 anni), tante ristrutturazioni di aziende private facilitate concedendo prepensionamenti lunghissimi (ricordate gli “scivoli”?) hanno generato forme inique e perverse di redistribuzione. Questi sprechi, associati ai fenomeni demografici citati all’inizio e al rallentamento della crescita del Pil, e quindi della torta da cui prelevare la fetta per i pensionati, hanno reso la spesa per pensioni quasi fuori controllo. Il primo importante intervento di correzione è quello della Finanziaria del 1992, governo Amato. Viene innalzata l’età della pensione di vecchiaia (da 55 a 60 anni per le donne, da 60 a 65 per gli uomini); le regole per i dipendenti pubblici divengono uguali a quelle del settore privato; l’arco temporale per il computo dell’entità della pensione viene esteso a 10 anni. Ma già due anni dopo la questione è nuovamente sul tappeto. Il governo tecnico presieduto da Dini vara nel 1995, con il consenso delle parti sociali, una riforma strutturale del sistema. Dal retributivo, si passa a un sistema di calcolo di tipo contributivo, secondo il quale ciascuno otterrà erogazioni pensionistiche in proporzione a quanto versato. Il “rischio” dell’allungamento di vita è ora a carico dei lavoratori/futuri pensionati. Infatti a parità di contributi versati, una maggiore speranza di vita si tradurrà in un minore pensione. Anche la funzione previdenziale è a rischio: oggi si prevede che per i futuri pensionati tassi di sostituzione (il rapporto fra la pensione e l’ultima retribuzione) intorno al 60% saranno delle chimere e per questo si invita, chi se lo può permettere, a farsi la pensione integrativa.
Il contributivo della Dini porta anche una rivoluzione in positivo: la possibilità di libera scelta dell’età di pensionamento, fra i 57 e i 65 anni. Peccato però che gli interventi successivi abbiano riportato indietro ai termini fissi. Il che è un vero e proprio controsenso, visto che chi sceglie di uscire prima non va a gravare sugli altri (vedi box in alto). La riforma gestiva anche il periodo di transizione: il nuovo sistema di calcolo si sarebbe applicato ai nuovi lavoratori e, misto al retributivo, per tutti coloro che nel 1996 avessero accumulato meno di 18 anni di contributi. Per i restanti il sistema di riferimento restava immutato.
Pubblico impiego sotto esame
Il tema dell’età di pensionamento è di stretta attualità per il pubblico impiego. Un primo emendamento al decreto anticrisi in discussione alla Camera a luglio innalza gradualmente l’età di pensionamento delle donne, portandola dai 60 anni attuali ai 65 nel 2018. L’uguaglianza di trattamento fra lavoratori e lavoratrici del settore pubblico era stato richiesto da una sentenza della Corte di Giustizia. Un secondo emendamento autorizza invece le amministrazioni pubbliche ad “espellere” chi ha totalizzato più di 40 anni di contribuzione, anche figurativi, tramite un pensionamento anticipato. Due provvedimenti di segno opposto che hanno in comune l’approccio dirigistico e poco incline a lasciare libertà di scelta ai lavoratori.
8,5 milioni, mille euro
Per 4,8 milioni di pensionati l’assegno mensile è tra i 500 e i 1.000 euro. Sempre meglio degli importi inferiori ai 500, appannaggio di 3,7 milioni. Totale: 8 milioni e mezzo, ovvero più della metà dei pensionati, che si fermano ai 1.000 euro lordi al mese, per 13 mensilità.
Due conti sulla sostenibilità
Sin qui la storia ed anche la cronaca. Ora proviamo a valutare l’efficacia del sistema nell’assolvere le sue funzioni e la sua sostenibilità.
La vulgata etichetta la previdenza italiana come estremamente generosa. Gli esempi però puntano sempre a mettere in luce i privilegi concessi ad alcune categorie di lavoratori e di imprese. Se guardiamo alla generalità delle erogazioni scopriamo invece che a fine 2007 i 16 milioni e 670 mila pensionati italiani hanno ricevuto una pensione lorda media inferiore ai 14mila euro e quasi un quarto di loro in realtà ha un assegno mensile inferiore ai 500 euro (vedi box nella pagina accanto). Non è quindi un caso se nelle campagne elettorali degli ultimi 10 anni, tutte le parti politiche abbiano puntato a promettere che avrebbero risolto il problema delle pensioni basse.
L’altra “fonte” di generosità è considerata la facilità di accesso al pensionamento anticipato. Da un confronto con gli altri paesi (vedi box sotto) si può notare che l’età di pensionamento in Italia risulta fra le più basse a livello internazionale, ma le differenze sono piccole e non dovrebbero destare molto allarme. Inoltre, esse dipendono più dalle eccezioni che dalle norme in quanto l’età “legale” è molto più in linea con quella prevista negli altri Stati.
Anche l’andamento demografico negli ultimi anni è stato meno negativo: secondo le ultime previsioni ufficiali, di fonte Istat, che si spingono fino al 2051, la popolazione aumenterà di più di 6 milioni rispetto alla previsione precedente. Ciò è dovuto principalmente alla quota crescente della componente immigrata sulla popolazione residente e avrà ripercussioni sul numero di occupati e sul tasso di occupazione, che cresceranno. Ma gli aspetti demografici non esauriscono il quadro. Questi, unitamente al metodo di calcolo, rendono chiaro quanto andiamo a spendere in pensioni; per comprendere però la facilità con cui possono essere finanziate occorre osservare l’andamento del Pil, del tasso di occupazione e della struttura dei redditi dai quali vengono generati i contributi a fini previdenziali.
Il mercato del lavoro ha subito, negli ultimi 15 anni, una preoccupante flessibilizzazione: dalla iniziale struttura lavoristica basata sul modello del bread-winner, ossia del capofamiglia tipicamente maschio stabilmente occupato, con donne e giovani relegate nella non occupazione, si è passati ad un mercato fortemente segmentato: un’area, fortunatamente ancora prevalente, con discreta copertura di diritti e buona capacità di generare reddito; una seconda, di proporzioni crescente, ad alta intensità di precarietà, con pochi o nulli diritti e con redditi bassi e discontinui. Da più parti, Istat e Banca d’Italia in testa, è stato sottolineato come l’aumento del tasso di occupazione registrato negli ultimi anni sia da attribuire prevalentemente alla componente immigrata e alla maggiore permanenza delle persone nelle “coorti” anziane piuttosto che a quelle in ingresso. Le quali peraltro scontano una notevole difficoltà a uscire dalla trappola della precarietà: alcuni economisti hanno evidenziato come ci sia un divario nei salari di ingresso che, nella maggioranza dei casi, non viene colmato: una sorta di carriera differenziale.
Che ne è, quindi, della sostenibilità? A livello finanziario i dati che si ricavano dalla lettura del bilancio della la principale gestione Inps per numero di iscritti, il Fpld-Fondo pensioni lavoratori dipendenti- sono tutt’altro che sconfortanti. I problemi del bilancio Inps derivano semmai da altre gestioni previdenziali, i cosiddetti Fondi speciali, che sono spesso in disavanzo; ma soprattutto da titolarità da parte dell’Inps di trattamenti a fini assistenziali (si pensi alla cassa integrazione o alle indennità di disoccupazione) per cui non si è mai provveduto ad un scorporo anche solo a fini contabili e di monitoraggio. Se si analizza la composizione della spesa per protezione sociale si osserva che la spesa italiana totale è inferiore alla media europea (il 26,6% contro il 27,5% della Europa a 27), ma la spesa per pensioni assorbe il 55% di tale spesa, a fronte di una media europea inferiore di 10 punti. Quindi una spesa per pensioni relativamente alta associata a una spesa per protezione sociale bassa. Ancora un supporto forte a sostegno del fatto che alla previdenza sono state attribuite anche funzioni improprie al fine di coprire le lacune dei restanti interventi della protezione sociale. Il problema di una tale prassi è la violazione del principio costituzionale di progressività delle imposte: infatti la spesa pubblica dovrebbe essere finanziata con i soldi riscossi dal fisco mediante aliquote progressive, mentre se si finanzia con i contributi previdenziali si gravano i redditi con aliquote costanti. Chi denuncia l’insostenibilità del nostro sistema pensionistico spesso utilizza il confronto della spesa per pensioni in rapporto al Pil con gli altri Paesi europei (vedi box nella pagina successiva). L’Italia si caratterizza per la cospicua fetta della torta che destina ai pensionati, ma ciò ad oggi non causa un problema di insostenibilità finanziaria del sistema pensionistico. È però chiaro che vi è un problema di sostenibilità sociale e di equità intergenerazionale: il sistema probabilmente riuscirà a pagare a ciascuna generazione quanto previsto, ma è indubbio che i giovani di oggi saranno anziani molto meno protetti domani.
A riposo prima degli altri
Nel periodo fra il 2002 ed il 2007 sia gli uomini sia le donne italiane in media sono andati in pensione a 60,8 anni. Più dei francesi, poco meno dei tedeschi. Molto simili anche i numeri degli uomini spagnoli e delle donne del Regno Unito. Più distanti quelli degli Stati Uniti. Rispetto alla media Oecd risultiamo un Paese con età effettiva di pensionamento abbastanza anticipata, mentre quella fissata per legge appare più allineata.
La persona al centro
di Davide Di Laurea
Generazione mille euro è un reality book che ha il merito di avere svelato la precarietà lavorativa e di vita di tanti giovani. Poiché anche 8,5 milioni di pensionati non superano quella cifra, si potrebbe suggerire il sequel: Generazioni mille euro. Ai racconti dei “ragazzi”, appellativo che oramai lambisce i 40enni, sulle proprie disavventure lavorative, i “nonni” pensionati potrebbero opporre la fiaba dei vecchietti trattati da inutile zavorra di un disastrato bilancio pubblico, mangiatori voraci di una fetta di torta che troppo presto hanno smesso di contribuire a produrre. Forse potrebbero insinuare benevolmente che proprio del tutto inutili non sono se, insieme a colf e badanti, sono la spina dorsale di un sistema di welfare che, per quanto informale, rende socialmente sostenibile quello dello Stato che è povero, lacunoso e inefficace. Sempre che non abbiano avuto la malasorte di essere tra quelli classificati come anziani non-autosufficienti. In questo caso l’assistenza dello Stato semplicemente non esiste, né per loro stessi né per le famiglie che li prendono in carico.
Forse è un sogno. Ma più vicino alla realtà rispetto a chi ancora chiede interventi sulle pensioni partendo dall’assunto contabile della necessità di fare cassa a stretto giro di posta, posizione oramai che solo in maniera strumentale può fare riferimento alla gravosità per le generazioni future: quelle le stiamo rovinando per altre vie, alla faccia del conflitto intergenerazionale. Le condizioni di sostenibilità della spesa pensionistica italiana sono molto cambiate e continuare a parlare di insostenibilità finanziaria del sistema è ipocrita.
C’è quindi spazio per un cambiamento di ottica, una rivoluzione copernicana per il welfare italiano: lo si riveda dalle fondamenta mettendo la persona, portatrice di diritti, doveri e bisogni, al centro dei suoi interventi universalistici. In un ambito così definito, anche parlare di una nuova riforma delle pensioni acquisirebbe il senso e il significato di riscrittura della logica del passaggio dall’età del lavoro (e dell’utilità sociale) a quella della pensione (spesso contrassegnata come inutilità sociale). In quest’ottica parlare dell’allungamento della vita lavorativa significa riconoscere che l’aumento della speranza di vita è spesso associata ad miglioramento delle condizioni di salute. E quindi rimanere a lavoro può ulteriormente innalzare la qualità della vita.
Ma quest’ultimo passaggio non può essere dato per scontato o, peggio, definito per legge, con interventi normativi che in modo coatto impongano un innalzamento dei requisiti anagrafici e contributivi. Vanno invece studiate delle misure che perseguano un costante miglioramento della condizione lavorativa, un progetto di riqualificazione culturale dei posti di lavoro. Va creato l’ambiente in cui la scelta di continuare a lavorare sia una opzione realmente esercitabile, individualmente gratificante e conveniente. D’altra parte, una volta passata la buriana dell’emergenza, continuare a paventare che ci siano schiere di 55enni pronti al ritiro non può che essere indicativo di un problema delle condizioni del lavoro, di un’offerta del lavoro che non si pone il problema della valorizzazione delle risorse di cui dispone.
Innanzitutto va dunque ripristinata la possibilità di scelta flessibile dell’età di pensionamento. Va adeguatamente incentivata l’opzione del part-time volontario anche come forma di uscita sfumata dal mondo del lavoro (su questo, il governo in carica ha percorso la direzione opposta, retrocedendolo da diritto del lavoratore a facoltà esercitabile a completa discrezione del datore di lavoro). Vanno creati i presupposti per una generalizzata riqualificazione dei lavoratori maturi in modo da rendere praticabile la possibilità di cambiare mansione all’interno dell’impresa. La permanenza al lavoro deve essere volontaria, entro i paletti stabiliti in azienda, con lo Stato che potrebbe riconoscere un beneficio fiscale per incentivarla. Vanno studiati processi formativi e di riqualificazione che, malgrado la scelta di lasciare il lavoro standard, permettano a persone in pensione di ritornare attive. Non si tratta semplicemente di munirli di paletta e piazzarli sulle strisce pedonali vicino alle scuole, ma di attivare dei processi territoriali, concertati fra organizzazioni datoriali, sindacali e terzo settore, che si pongano il problema di valorizzare le potenzialità lavorative di persone già in pensione in una maniera che risulti utile sia agli individui che alla collettività. La progressiva terziarizzazione della struttura economica favorisce innovazioni del genere.
Stiamo ipotizzando un nuovo patto sociale fra lo Stato e i suoi cittadini, fra lavoratori e datori di lavoro e fra le generazioni, da cui ciascuno possa trarre beneficio. Le condizioni economiche ci sono; della volontà politica non sappiamo.
Il trucco del tfr
Per 100 euro di reddito nazionale, nel 2006 l’Italia ne ha spesi 14,7 per le pensioni. L’incidenza è stabile se si considera che 10 anni prima era del 14,5%. È la più alta in Europa, la cui spesa media si attesta al 12%. Il nostro disallineamento è però accentuato da alcune differenze contabili: in questa voce viene incluso impropriamente il Tfr, che è salario differito e non previdenziale. È un istituto che non è presente in alcun altro Paese ed incide per circa 1,5-1,8% sul Pil. Inoltre la spesa è al lordo delle ritenute fiscali e ciò crea delle distorsioni nella comparazione in quanto in altri Paesi, come Germania e Regno Unito, le pensioni sono meno tassate che da noi.