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Shell e l’impatto ambientale nel cortile di casa

Le ricadute delle attività della major petrolifera sono state registrate anche a Groningen, nel Nord dell’Olanda, dove ci sono ricchi giacimenti di gas naturale. Oltre 3.500 persone hanno promosso una class action per danni. Nel frattempo la multinazionale ha annunciato investimenti nelle rinnovabili. Ma la strada è ancora lunga

Il 2017 della Shell si è chiuso con un considerevole +119 per cento rispetto al 2016 sul versante dei profitti, che si sono attestati sui 15,8 miliardi di dollari. Un mare di denaro che potrebbe non trasformarsi in ricchi dividendi per gli azionisti perché servirebbe a pagare risarcimenti milionari a migliaia di famiglie olandesi. Sì, perché le attività della major petrolifera non hanno solo pesanti impatti ambientali solo nel Sud del mondo -il caso del Delta del Niger è quando mai esemplificativo- ma anche in Europa, addirittura dove la Shell (che ha anche un “ramo” britannico) ha il suo quartier generale e proprio dove è nata nel lontano 1907: nei Paesi Bassi.

Più precisamente nell’area di Groningen, Nord dell’Olanda, dove ci sono i più ricchi giacimenti di gas naturale dell’intero Continente, gestiti in joint venture su base paritaria da Shell e dalla statunitense ExxonMobil. Lì all’inizio del 2018 si è registrato un terremoto di 3,4 gradi della Scala Richter, il secondo più intenso negli ultimi cinque anni, durante i quali il sismografo non ha mai cessato di segnalare un’intensa attività, molto probabilmente da imputare all’estrazione del gas. Per vederci chiaro, il governo olandese ha di recente istituito una commissione indipendente d’inchiesta, tuttavia il ministro dell’Economia, Eric Wiebes, ha già fatto sapere che “il governo vuole eliminare gradualmente il consumo del gas estratto dai giacimenti intorno a Groningen, in modo che entro il 2022 non sia più utilizzato dalle industrie che lo impiegano attualmente”.

Quando fu scoperto, nel 1959, quello di Groningen era il più grande giacimento di gas naturale del Pianeta. Dal 2014, l’attività di estrazione è stata ridotta, proprio a causa dei danni subiti dalle abitazioni e dalla fabbriche. 

Oltre 3.500 persone hanno intentato una causa, un class action, con cui si denuncia che circa 100mila case di Groningen e dintorni abbiano perso valore per un totale di un miliardo di euro a seguito dell’attività sismica.

 Ad aprile, un tribunale olandese ha incaricato un pubblico ministero di indagare sulla joint venture Shell-ExxonMobil per la sua presunta incapacità di effettuare adeguate valutazioni del rischio dopo il 1993, ovvero quando fu scoperto il collegamento tra terremoti ed estrazione di gas. Come già accennato, la richiesta di danni ammonta a centinaia di milioni.

A margine delle notizie sul significativo incremento dei profitti, favoriti dall’impennata del prezzo del petrolio, la Shell ha fatto sapere per bocca del suo amministratore delegato Ben Van Beurden che sicuramente non tornerà a perforare nella regione dell’Artico -dove invece, più precisamente in Alaska, sta facendo la sua comparsa l’italiana Eni- mentre investirà più di un miliardo di dollari nel settore delle nuove fonti energetiche. Una cifra che in termini assoluti fa effetto, ma che rappresenta ben poca cosa su un bilancio di centinaia di miliardi. Come abbiamo potuto constatare di persona durante l’ultima assemblea degli azionisti della Shell, tenutasi lo scorso maggio a l’Aja, nonostante la forte pressione gli azionisti critici, la multinazionale anglo-olandese ha ancora una lunghissima strada da percorrere in tema di sostenibilità ambientale. Ma se i problemi iniziano a moltiplicarsi anche nel “giardino di casa”, forse qualche speranza per il futuro la possiamo ancora riservare.

Luca Manes – Re:Common

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