Finanza / Opinioni
Serve una vera riforma fiscale, strutturale e giusta. Non i bonus
Sta per ripartire un’ulteriore fiammata inflazionistica che provocherà nuove povertà. Non basteranno certo nuovi crediti fiscali sganciati da redditi e patrimoni dei beneficiari e usati negli anni per sfasciare il sistema e aumentare le disuguaglianze. Senza toccare le rendite. L’analisi di Alessandro Volpi
Come sfasciare il sistema fiscale e aumentare le disuguaglianze, senza toccare le rendite. I bonus, spesso, sono crediti di imposta. In sostanza una riduzione del carico fiscale, che negli ultimi anni è stata introdotta senza alcuna relazione con il reddito e il patrimonio dei beneficiari. Il vero problema è costituito dal fatto che intervenire sul fisco in questo modo genera due effetti dannosi: il primo è il venir meno di ogni progressività, il secondo è rintracciabile nella assoluta impossibilità di fare delle previsioni credibili sul minor gettito, e dunque, sul costo per le casse pubbliche dei bonus usati come strumento per ridurre le imposte.
Quantificare il numero degli utilizzatori dei bonus, tanto più se cartolarizzati, è impresa davvero ardua che costringe poi lo Stato a scegliere tra coprire le minori entrate determinate da maggiori spese fiscali o, secondo la narrazione largamente dominante, far fallire le imprese. A ciò si aggiunge il fatto che, con un’alta inflazione, una parte rilevante delle entrate pubbliche è composta dall’Iva che, come sappiamo, è un’imposta regressiva, destinata a gravare di più sui redditi medio bassi. In questo senso è singolare che il governo pensi a un inserire un bonus carburanti di 80 euro e non tolga o riduca accise e Iva sui carburanti, costruendo così una paradossale partita di giro.
In pratica il governo distribuisce solo in minima parte quello che preleva dai consumatori. Del resto, anche nel caso del taglio del cuneo fiscale, il contribuente subisce l’impossibilità di dedurre quanto pagato con i contributi, subendo una riduzione evidente dell’eventuale beneficio complessivo. Peraltro è molto probabile che, con il petrolio in salita e un listino Platts decisamente opaco, i prezzi si impenneranno di nuovo. Anche il prezzo del gas sta tornando infatti a salire; ha già raggiunto i 39 dollari ed è probabile che crescerà ancora dato anche l’andamento del petrolio.
Dunque sta per ripartire una ulteriore fiammata inflazionistica che provocherà nuove povertà rispetto alle quali non basteranno certo nuovi bonus. Sul tema vale la pena fare solo un inciso. La piattaforma dove vengono definiti i prezzi di gran parte dell’Europa continua ad essere quella privata di Amsterdam che presenta due caratteristiche molto particolari. La prima. La piattaforma di Amsterdam, definita Title transfer facility (Ttf), è stata creata da un operatore olandese di trasmissione energetica, Gasunie, che l’ha venduta ad una Borsa privata Usa, Ice, che possiede anche l’indice Nyse: particolarmente interessanti sono i principali azionisti costituiti da Vanguard, BlackRock, State Street, Capital Research, Morgan Stanley, Geode e Lazard. In sintesi i prezzi sono fatti dagli speculatori.
La seconda caratteristica è ancora più surreale. Il volume degli scambi reali di gas rappresentano solo il 10% del totale degli scambi operati ad Amsterdam che sono per il 90% scommesse finanziarie. Un numero rende tutto ciò molto chiaro. In un anno vengono scambiati ad Amsterdam solo 700 milioni di metri cubi di gas, a fronte di un consumo di 412 miliardi di metri cubi. In pratica nel Ttf non c’è gas ma solo speculazione che determina i prezzi reali destinati a scatenare l’inflazione e a causare feroci disuguaglianze sociali.
Di fronte ad una situazione simile, oltre a una dura battaglia contro la finanziarizzazione, serve una vera riforma fiscale, strutturale e giusta e non i bonus. Qualche numero ulteriore può aiutare a capire. Il fabbisogno di cassa per il nostro Paese registra minori introiti rispetto a un anno fa per 45 miliardi di euro circa. In parte dipendono dalla mancata liquidazione della terza rata del Piano nazionale di ripresa e resilienza e in parte dal minor gettito fiscale legato, appunto, ai crediti fiscali dei bonus. In altre parole, banche, imprese e coloro che hanno fatto i lavori beneficiano del credito fiscale. In sostanza un vantaggio, soprattutto, per coloro che hanno fatto gli interventi del “Superbonus” e che appartengono, come dicono i dati disponibili, alle fasce medio alte di reddito. Lo Stato ha pagato, con minori entrate, i lavori fatti da chi se li sarebbe potuti tranquillamente permettere. Nel frattempo in due anni la Borsa di Milano ha pagato dividendi per quasi 140 miliardi di euro. Sono tassati al 26 per cento e se i beneficiari hanno residenza fiscale all’estero non pagano neppure questa aliquota. È significativo rilevare che i dividendi più alti sono quelli delle banche, delle società energetiche e di qualche grande multiutility. Forse nazionalizzare qualcosa o alzare le aliquote non sarebbe poi così male.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
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