Economia / Opinioni
Semplificazioni “salvo intese”. L’ossimoro nel cuore di una crisi devastante
Le priorità su cui trovare facili e indispensabili convergenze, senza dover procedere ad ulteriori accordi nottetempo, non è una questione complessa. I recenti dati Istat mettono in evidenza, tra gli altri, tre aspetti che meritano una particolare attenzione per gli effetti che hanno sulla società italiana. L’analisi di Alessandro Volpi
Approvare il decreto “Semplificazioni” con l’incredibile, e ormai consueta, formula “salvo intese” è un ossimoro. In altre parole, varare quello che dovrebbe essere il manifesto della chiarezza amministrativa -che elimina le troppe distorsioni nell’interpretazione delle norme, che rende più lineari i percorsi amministrativi e che indica, in modo esplicito, quali sono le opere strategiche destinate a beneficiare di tale semplificazione- ma subordinarlo ad ulteriori intese prima della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale rappresenta davvero il paradigma di cosa una semplificazione dovrebbe evitare: non si può decidere, riservandosi la possibilità di modificare quella stessa decisione prima che assuma la compiuta ufficialità. Di nuovo, seguendo questa strada si resta solo sul piano degli annunci. Non è possibile che nel cuore di una crisi devastante, con una perdita secca del Pil di 12-13 punti, il governo non riesca ad adottare un provvedimento preciso, senza rinvii, senza contorsioni e illusionismi; tanto più se, appunto, tale decreto è stato definito “semplificazioni”.
C’è poi un secondo aspetto ancora più singolare. Nello stesso Consiglio dei ministri, svoltosi letterariamente nottetempo, è stato approvato senza colpo ferire e senza troppa attenzione il Programma nazionale di riforma (PNR) da inviare, già in ritardo, all’Europa. Traspare da questo diverso trattamento del Programma e del decreto “Semplificazioni” un’idea della politica che non può giovare al nostro Paese. Si manda all’attenzione dei partner europei un testo in cui dovrebbero essere inserite le vere priorità del Paese senza alcun reale dibattito politico perché, in fondo, si pensa che si tratti solo di una formalità per la noiosa e burocratica procedura europea mentre sul decreto ci si scontra e, non trovando un accordo dopo settimane e settimane di discussione, si decide un ulteriore rinvio: formalità europee e ipocrisie italiane. In simili condizioni, non è difficile capire perché i titoli del debito pubblico italiano pagano interessi tre volte più alti di quelli di Spagna e Portogallo e perché le nostre capacità di negoziato di fronte ai Paesi “frugali” sono così limitate. Dovremmo smetterla di coltivare, con cura, l’immagine dell’italiano “astuto e indolente” che ha già fin troppo successo in Europa anche senza il nostro costante sostegno.
Eppure, quali siano le priorità su cui trovare facili e indispensabili convergenze, senza dover procedere ad ulteriori “intese”, non è certo una questione complessa in questa fase. I recenti dati Istat mettono in evidenza, tra gli altri, tre aspetti che meritano una particolare attenzione per gli effetti che hanno sulla società italiana.
Il primo. Nonostante dal 2012 la spesa pubblica primaria, al netto degli interessi sul debito, sia cresciuta ad una media annua dell’0,8%, la spesa sanitaria è aumentata solo dello 0,2% a fronte, peraltro, di una crescita annua media del Pil dell’1,2%. Nello stesso arco di tempo, il personale a tempo indeterminato si è ridotto di 25.808 unità, con tremila medici e oltre quattromila infermieri in meno, ed è proseguita la riduzione dei posti letto, che nel 2019 sono arrivati a poco più di tre ogni 1.000 abitanti. È evidente, alla luce di tali numeri, che nel caso italiano esiste non solo un problema di spesa pubblica in quanto tale, che è stata più bassa di quella tedesca e di quella francese ormai da anni, ma anche di qualità e di destinazione della stessa spesa, che ha privilegiato altre voci rispetto a quella sanitaria.
Il secondo. L’Italia presenta livelli di scolarizzazione tra i più bassi del Vecchio continente, considerando anche le classi di età più giovani. Nell’Unione europea a 27, senza il Regno Unito, il 78,4% degli adulti fra i 25 e i 64 anni ha almeno un diploma di scuola superiore. In Italia soltanto il 62,1% dispone di tale titolo. Sono dati che segnalano un chiaro arretramento rispetto a metà degli anni Novanta, quando i posti letto erano quasi sette ogni 1.000 abitanti e i tassi di scolarizzazione italiani erano tra i più alti in Europa.
Il terzo. Le previsioni in merito all’andamento delle imprese italiane stimano la concreta possibilità che una su tre possa non farcela a sopravvivere alla crisi. Si tratta di una valutazione impressionante che ha un risvolto molto pesante anche per i conti dello Stato. Nel 2019 le garanzie pubbliche messe a disposizione delle piccole e medie imprese italiane assommavano a 87,7 miliardi, con l’ipotesi di un numero di fallimenti molto contenuto, tanto da far iscrivere nel bilancio dello Stato una spesa a copertura di circa tre miliardi di euro. Nel 2020, per effetto delle misure per contrastare gli effetti economici dell’epidemia, tali garanzie sfiorano complessivamente i 750 miliardi di euro. Ciò significa che se fallisse non un terzo, ma anche solo il 10% di tali imprese, lo Stato accrescerebbe il proprio debito di 75 miliardi; una cifra non distante da quanto già messo in campo con gli ultimi decreti del governo. Come accennato, non è difficile capire da dove dovremmo ripartire e quanto serva non sprecare tempo e risorse.
Università di Pisa
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