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Se il dottorato non piace al privato
Il 96,6% dell’offerta dottorale italiana è garantita dalle università pubbliche. E le “classifiche” degli atenei -quelle pubblicate sui maggiori quotidiani- non sono attendibili, almeno secondo l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca secondo cui i dati che raccoglie "non devono essere utilizzati per costruire graduatorie di merito, un esercizio senza alcun fondamento metodologico e scientifico"
Dalla “Grande Guida Università” firmata censis-la Repubblica a “La classifica delle migliori università italiane” a cura de Il Sole 24 Ore. Anche quest’anno l’orientamento universitario dei più giovani è stato accompagnato da iniziative editoriali basate su classifiche, ranking, graduatorie e risultati. Eppure è la stessa fonte di buona parte di quei dati -e cioè l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur, www.anvur.org)- a mettere in guardia da possibili errori e valutazioni affrettate: “Le tabelle che […] riuniscono nel rapporto i risultati delle valutazioni nelle varie Aree -si legge nel rapporto finale della Valutazione della Qualità della Ricerca 2004-2010 (VQR)- non devono essere utilizzate per costruire graduatorie di merito tra le aree stesse, un esercizio senza alcun fondamento metodologico e scientifico”.
A parlare quindi di “forti distorsioni” e “dati cattivi” a disposizione è Paola Galimberti, dell’ufficio Pianificazione organizzativa e valutazione dell’Università degli Studi di Milano nonché redattrice del network di soggetti impiegati nell’università e nella ricerca chiamato ROARS (Return On Academic ReSearch, www.roars.it).
Nell’ambito del III Convegno ROARS, tenutosi a giugno 2015, infatti, Galimberti ha curato una relazione dedicata a “La valutazione della ricerca e i dati”. “A proposito di dati della ricerca -racconta ad Ae- in Italia ci troviamo di fronte ad una situazione molto variegata. Mancando un coordinamento nazionale nella raccolta dei dati inviati dagli atenei, e cioè una anagrafe che li validi sulle basi di classificazioni condivise come in altri Paesi europei, ogni ateneo gestisce le proprie tipologie e i propri dati come meglio ritiene. Quando invia poi i dati a livello centrale sul sito del ministero dell’Istruzione (Miur, ndr) non c’è nessuno che li guarda o verifica. Poniamo che io sia un ateneo: se inviassi dati inventati -o attribuissi ai miei docenti pubblicazioni di omonimi che hanno ottenuto citazioni- nessuno potrebbe contraddirmi. C’è quindi un primo enorme problema di qualità dei dati e di controllo degli stessi. Un altro problema, in via di risoluzione, è quello degli identificativi univoci per ricercatori e pubblicazioni”. Solo nel primo semestre 2015 la maggior parte degli atenei italiani (“una cinquantina”, spiega Galimberti) ha effettuato il passaggio a un sistema gestionale dei dati sulla ricerca tecnicamente “aperto”.
È un passo importante per Galimberti, perché potrebbe permettere alle famiglie e alle future matricole di conoscere “pubblicazioni, attività, ambiti di ricerca”. Per la loro validazione, e utilizzo per la valutazione, però, manca ancora quell’organismo centrale (l’anagrafe) che attende d’esser attivato dal 2009, anno in cui fu previsto per decreto e poi rimasto senza attuazione.
Chi ha provato a misurare il “contributo” degli atenei -statali (61) e non (15)- alla ricerca scientifica del Paese è stata l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (Adi, www.dottorato.it), nell’ambito della quinta indagine annuale sul dottorato e il post dottorato. Alfredo Ferrara -del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Bari- è membro della segreteria nazionale, e per conto dell’associazione ha fotografato il “precario stato di salute” dell’istituto nato in Italia nel 1980.
Concepito come “tirocinio accademico” all’interno dell’università, e sostenuto attraverso una borsa di studio, il dottorato ha conosciuto diverse stagioni di riforme nel 1998, nel 2010 e ancora nel 2013. “All’inizio della sua storia -racconta Ferrara- il dottorato prevedeva come unica forma di reddito percebile quella della borsa di studio. Nel 1998 prima, e nel 2010 poi, è stata però istituita la figura del dottorando non borsista, che è colui che si iscrive, paga le tasse, non prende un centesimo e acquisisce un titolo di studio”.
L’introduzione di soglie minime e medie di borse di studio per attivare un corso di dottorato nel 2013 ha fatto il resto: “Nel giro di due anni -spiega Ferrara- i corsi di dottorato attivati si sono ridotti del 42%, passando dai 1.557 del 2012/2013 ai 903 del 2014/2015”. Per non parlare dei posti banditi, anche questi crollati del 25% fino a toccare quota 9.189 nell’ultimo anno accademico.
L’Adi ha contattato tutti gli uffici di dottorato degli atenei italiani, statali e non statali, e ha verificato chi e quanto concorresse all’offerta dei posti. “Il sistema universitario pubblico garantisce il 96,6% di tutta l’offerta dottorale italiana -prosegue Ferrara- il che dovrebbe far riflettere sulla reale volontà dei privati di investire nella ricerca scientifica”. Ferrara ha poi conteggiato uno per uno i posti di dottorato banditi dagli atenei, incontrando situazioni inattese per le quelle che figurano come campionesse “non statali” delle classifiche pubblicate nelle guide. Nel 2014, ad esempio, l’Università commerciale “Luigi Bocconi” ha bandito 57 posti, mentre l’Università Cattolica del Sacro Cuore 82. A Roma, la LUISS -di proprietà di Confindustria- 36, mentre la Sapienza (che è pubblica) 931. In questa (reale) classificazione, non si fa menzione delle università telematiche, istituite in Italia nel corso del triennio 2004-2006. Quelle riconosciute dal Miur sono 11. Secondo il portale unitelematiche.it la “più apprezzata dagli studenti” sarebbe la Pegaso Università Telematica di Napoli, che ha calendarizzato l’ultimo corso di dottorato di ricerca nel luglio 2012. Già destinatari di una bocciatura nell’ottobre 2013 da parte della “Commissione di studio sulle problematiche afferenti alle Università telematiche”, istituita ad hoc dal Miur -dovuta alla “carenza quantitativa di personale docente e al mancato svolgimento dell’attività di ricerca” ed al “massiccio ricorso a personale ricercatore a tempo determinato”-, gli atenei online hanno ricevuto un altro finanziamento pubblico nel dicembre 2014 (1,3 milioni, per la Uninettuno e la Guglielmo Marconi di Roma). E nel decreto firmato da Stefania Giannini non c’è alcun riferimento alle “notevoli criticità” sollevate dalla Commissione ministeriale nel 2013. —