Scegliamo la pace sempre anche se è impopolare – Ae 21
Numero 21, ottobre 2001 Esattamente 40 anni fa, il 24 settembre 1961, Aldo Capitini, il “padre” della cultura nonviolenta italiana, apriva la strada che da Perugia porta verso Assisi in nome della Pace, quella scritta con la maiuscola e ben…
Numero 21, ottobre 2001
Esattamente 40 anni fa, il 24 settembre 1961, Aldo Capitini, il “padre” della cultura nonviolenta italiana, apriva la strada che da Perugia porta verso Assisi in nome della Pace, quella scritta con la maiuscola e ben diversa da una semplice assenza di guerra.
Racconta Capitini nella sua autobiografia:
“Avevo visto, nei dopoguerra della mia vita, le domeniche nella campagna frotte di donne vestite a lutto per causa delle guerre, sapevo di tanti giovani ignoranti ed ignari mandati ad uccidere e a morire da un immediato comando dall’alto, e volevo fare in modo che questo più non avvenisse, almeno per la gente della terra a me più vicina. Come avrei potuto diffondere la notizia che la pace è in pericolo, come avrei potuto destare la consapevolezza della gente più periferica, se non ricorrendo all’aiuto di altri e impostando una manifestazione elementare come è una marcia?”
Nelle intenzioni del suo fondatore i caratteri distintivi della marcia dovevano essere l’indipendenza dai partiti e il pacifismo integrale degli organizzatori, il coinvolgimento delle persone più lontane dall’informazione e dalla politica, la presentazione del metodo nonviolento alle persone lontane o avverse e il legame della Marcia con Francesco d’Assisi, definito da Capitini come “il santo italiano della nonviolenza”. Un’altra caratteristica della prima edizione della marcia era l’assenza di bandiere o simboli di partito, richiesta fortemente dallo stesso Capitini, quasi a presagire i numerosi tentativi di strumentalizzazione politica del Movimento nonviolento che si sono puntualmente verificate negli anni successivi.
I tragici avvenimenti relativi all’attentato negli Stati Uniti hanno reso ancora più difficile il compito di chi vuole camminare a testa alta combattendo contemporaneamente il terrorismo e la guerra come due facce di un’unica violenza che non dà soluzioni, ma aggiunge solo nuovi problemi.
Oggi la situazione è più che mai complessa, e la “Tavola della pace”, il cartello di associazioni promotrici della marcia, ha davanti a sé uno scenario ricco di grandi opportunità ma costellato di altrettanti rischi.
Il primo rischio è quello rappresentato dalla violenza di molti mezzi di informazione, sempre pronti ad interpretare in chiave sensazionalistica qualunque dichiarazione: questo determina spesso una autocensura o un eccesso di prudenza da parte di chi dovrebbe sostenere con coraggio posizioni “scomode” come il ripudio della guerra, la condanna delle rappresaglie militari o la necessaria distinzione tra gli interventi di polizia internazionale dei Caschi blu Onu -a nome dell’umanità- e le azioni di guerra della Nato realizzate per conto di un’alleanza militare regionale che rappresenta appena una ventina di Stati.
Un altro rischio è quello rappresentato dalla formula targata Bush “chi non è con noi è con i terroristi”, che ha costretto tutti i movimenti per la pace a camminare in bilico tra la violenza della guerra e quella del terrorismo, rischiando di essere additati come fiancheggiatori dell’integralismo islamico armato solo per aver rifiutato il terribile sillogismo “bisogna fare qualcosa, la guerra è qualcosa, bisogna fare la guerra”. È per questo che oggi per dire no alla violenza armata degli Stati come risposta a quella dei gruppi estremisti occorre una dose supplementare di coraggio, il coraggio di rischiare posizioni impopolari che possono allontanare dal pacifismo una classe politica troppo prudente, diplomatica e acritica, un’opinione pubblica che non ha ancora avuto gli strumenti per approfondire le alternative all’opzione militare, un senso comune smarrito che oggi recita come un mantra la parola d’ordine “guerra, guerra, guerra”.
Il 14 ottobre la Tavola della pace ci dirà se è ancora possibile essere pacifisti rifiutando la “realpolitik” dell’intervento armato senza venir meno a una lotta davvero efficace al terrorismo, se si può essere solidali con le vittime degli attentati senza solidarizzare con la cultura dell’interventismo militare, se si possono ricordare ancora, timidamente e rispettosamente, tutte le stragi silenziose compiute dalla violenza strutturale di un modello di sviluppo che ogni anno sacrifica sull’altare del progresso un numero di vittime ben superiore a quelle del terrorismo, se si può chiedere ai nostri parlamentari di non votare l’aumento del 15% alle spese militari previsto dalla prossima legge finanziaria.
Per la Tavola della pace la sfida da giocare nei 25 chilometri che uniscono Perugia ad Assisi sarà anche quella di restare liberi da condizionamenti ed equlibrismi politici (il che non è scontato per una realtà che aggrega enti locali e associazioni che vivono anche grazie a contributi pubblici); e di trovare quindi il coraggio di rimanere coscienza critica del potere -dei partiti e delle istituzioni- per trovare una proposta nuova, onesta, efficace e più forte, che nasce dal basso.
Il contesto di Perugia e di Assisi sarà la cornice ideale in cui la società civile avrà l’occasione di sfidare le regole della politica internazionale con una prospettiva in cui la Pace non è un “optional” o un interesse di “categoria” ma una necessità irrinunciabile per la sicurezza e il diritto alla vita di tutti. Sarà interessante anche costringere i politici che faranno la loro apparizione alla Marcia o all’assemblea dei popoli ad un confronto rispettoso, ma serrato ed implacabile, sui contenuti e sulle concrete proposte politiche contenute nell'”appello” lanciato in occasione della Marcia: tra l’altro il rafforzamento delle Nazioni Unite (e l’abolizione del diritto di veto), il blocco della privatizzazione mondiale dell’acqua, la lotta al lavoro minorile, la cancellazione del debito estero dei Paesi impoveriti, la riduzione di bilanci e arsenali militari, la destinazione dello 0,7% del prodotto interno lordo per iniziative di cooperazione, la lotta contro la pena di morte.
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Tutte queste questioni ancora aperte costituiscono un fattore di rischio per le associazioni della “Tavola”: ma la grandezza della posta in gioco (la costruzione della pace), lo spessore delle iniziative “dal basso” proposte dalla società civile mondiale nell'”Onu dei popoli” e le grandi speranze condivise da tutti quelli che marceranno, ci fanno dire che vale davvero la pena di provarci, dimenticandosi per una volta dei propri interessi particolari per cercare di camminare insieme verso il bene comune.
Capitini: storia di un gandhi italiano
“Io non dico: fra poco o molto tempo avremo una società che sarà perfettamente nonviolenta… a me importa fondamentalmente l’impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione”.
Aldo Capitini
Nel 1929 Aldo Capitini, nato a Perugia nel 1899, scopre la figura del “Mahatma” Gandhi e il suo messaggio di nonviolenza proprio quando l’Italia raggiunge il suo periodo più oscuro di oppressione e di dittatura, e sente come sia necessario rispondere alla violenza fascista con l’efficacia e la forza del metodo nonviolento, rifiutando la tessera del “partito unico” di allora e assumendosi le responsabilità della sua disobbedienza civile con due periodi di carcerazione.
Il 1967 è l’anno in cui Capitini pubblica “Le tecniche della nonviolenza”, un libro con cui la proposta nonviolenta di Gandhi, arricchita dai contributi originali di Capitini, fa il suo ingresso ufficiale nella cultura del nostro Paese, un classico della letteratura nonviolenta ancora oggi attuale.
In seguito, Capitini realizza un primo esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione del potere, fondando a Perugia nel 1944 il primo Centro di orientamento sociale (Cos), ambiente progettuale e spazio politico aperto alla libera partecipazione dei cittadini. Nel 1948 il giovane Pietro Pinna, dopo aver ascoltato Capitini in un convegno, diventa il primo obiettore del dopoguerra.
Domenica 24 settembre 1961 Capitini organizza la “Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli”, un corteo nonviolento da Perugia ad Assisi, una marcia tuttora riproposta ogni due anni da associazioni e movimenti per la pace.
New York: l’attentato era già previsto?
Un libro che, se venisse pubblicato oggi, suonerebbe come una facile dietrologia, ma che nel 1999, data di uscita dell’edizione originale, è stato un tentativo concreto di prevenire gli attentati di cui oggi subiamo le conseguenze, purtroppo rimasto ignorato. Vale la pena di riportare integralmente il testo della quarta di copertina:
Per opporsi all’invasione sovietica dell’Afganistan, nel 1979, gli Stati Uniti strinsero in funzione anti-comunista una sorprendente alleanza con gli estremisti islamici. Cooley racconta i retroscena di questa alleanza e del modo in cui la Cia pianificò la “guerra santa” in Afganistan. Racconta anche di come, con l’aiuto dell’Arabia Saudita, dei servizi segreti militari pakistani e persino con il coinvolgimento della Cina, vennero armati, addestrati e finanziati duecentocinquantamila mercenari islamici di ogni parte del mondo. Inoltre, con un’impressionante mole di prove, Cooley traccia le dirompenti conseguenze di quell’operazione: il trionfo dei talebani, la diffusione mondiale del terrorismo islamico, la destabilizzazione dell’Algeria e della Cecenia, gli attentati al World Trade Center… e in tutto ciò spicca curiosamente il ruolo di Usama (è scritto proprio Usama, ndr) Bin Laden, già protetto della Cia ed ora “nemico pubblico numero uno”.
L’altra faccia del terrorismo islamico. John K.Cooley, “Una guerra Empia. La Cia e l’estremismo islamico”. Edizioni Eleuthera, luglio 2000.