Economia / Opinioni
La dannosa sindrome della “rivolta dei tecnici”
La storia italiana ha conosciuto un articolato rapporto tra tecnici e politica in cui molto spesso i primi sono stati ritenuti indispensabili alla seconda e quasi mai considerati il “nemico interno” o un corpo ostile. Il clima però è cambiato. E potrebbe essere un rischio. L’analisi di Alessandro Volpi
Nelle scorse settimane ha ripreso vigore la polemica, da parte di vari esponenti politici, nei confronti dei “tecnici”, accusati senza troppo riguardo di essere degli ottusi interpreti di regole altrettanto ottuse o, ancora peggio, di presentarsi come gli artefici consapevoli di un premeditato disegno volto ad impedire alle attuali forze di governo di realizzare alcuni punti salienti del loro programma elettorale. Si tratta di uno scontro che, per molti versi, costituisce una novità nella storia italiana sia per la ferocia dei toni usati, davvero inediti, sia per la natura del rapporto instaurato, appunto, tra tecnici e politica.
Riguardo a questo secondo aspetto, infatti, le vicende patrie degli ultimi centocinquanta anni hanno conosciuto diverse modalità di relazione tra tecnici e politica che, quasi mai, si sono tradotte in un aperto scontro. Durante il periodo della Destra e della Sinistra storica, nell’Italia appena formata, gran parte delle compagini ministeriali erano composte da figure di alto spessore tecnico, soprattutto nei dicasteri decisivi. La poltrona di ministro delle Finanze fu occupata, solo per citare qualche esempio, da Marco Minghetti, profondo conoscitore di questioni agrarie e industriali, da Quintino Sella, che, dopo la laurea in ingegneria, si era perfezionato alla prestigiosa Ecole des mines di Parigi, divenendo uno degli scienziati più stimati in Europa, da Antonio Scialoja, economista di chiara fama e grande conoscitore dei bilanci pubblici, da Bernardino Grimaldi, studioso e docente universitario di diritto costituzionale, da Sidney Sonnino, dotato, tra le altre cose, di una formidabile preparazione “tecnica” in materia di banche, di moneta e di industria. Non mancavano poi i ministri che provenivano direttamente dagli apparati ministeriali come nel caso di Vittorio Ellena, già direttore generale delle gabelle al ministero delle Finanze e in seguito ministro, e dello stesso Giovanni Giolitti, formatosi negli “stanzoni” ministeriali.
Certo non a caso, anche durante il cosiddetto “periodo giolittiano”, nel primo quindicennio del Novecento, questa tradizione dello stretto legame fra ministri e tecnici fu ancora coltivata con cura. Nei diversi esecutivi guidati dal politico piemontese comparvero figure come Luigi Luzzatti, economista e giurista di grande rilievo, profondo conoscitore del sistema bancario italiano, come il costituzionalista Angelo Majorana Calatabiano, e come Giulio Alessio, uno dei “fondatori” in Italia della Scienza delle finanze. Durante tutta questa fase, in estrema sintesi, la capacità tecnica veniva ritenuta un requisito essenziale per coprire ruoli pubblici e, soprattutto, i tecnici, a cominciare da quelli dei ministeri, erano considerati un’autorevole risorsa in grado di tenere insieme i già sgangherati conti pubblici italiani. Un simile atteggiamento conobbe alcune trasformazioni negli anni del fascismo. Da un lato emerse una sostanziale continuità nella scelta di ministri dotati di buona preparazione tecnica per i dicasteri economici, da Alberto De Stefani, docente di Scienza delle finanze all’università di Roma, ad Antonio Mosconi, che era stato Segretario generale del Ministero dell’interno in età giolittiana, a Giuseppe Volpi e Guido Jung, legati a doppio filo alle proprie imprese e grandi conoscitori del mercato.
Dall’altro, Mussolini rivendicò a più riprese un primato della politica sulla tecnica destinato a rivelarsi fatale, a cominciare dal clamoroso errore di imporre, con Quota Novanta, un cambio artificiale e insostenibile tra lira e sterlina che, peraltro, fu osteggiato dai “tecnici” della Banca d’Italia, a cominciare dal direttore Bonaldo Stringher, e che costrinse il Paese a una costosissima e perdente autarchia. Mussolini però fece ampio ricorso ai tecnici, come Alberto Beneduce e Donato Menichella, per mettere in piedi la rete dei salvataggi bancari negli anni Trenta, rintracciando proprio nella competenza di tali figure una gran parte delle motivazioni delle sue scelte. L’attenzione alla preparazione tecnica dei personaggi chiave degli esecutivi divenne quasi maniacale negli anni della ricostruzione e del boom economico, con i dicasteri finanziari affidati a figure come Luigi Einaudi, Epicarmo Corbino, Ezio Vanoni e Antonio Giolitti; anche nel momento in cui i grandi partiti tendevano ad occupare tutti gli spazi dell’apparto statuale, la “riserva” dei tecnici continuava ad essere preservata e ad essere considerata, talvolta persino un po’ ipocritamente, un valore. Questa prassi fu attenuata nel corso degli anni Ottanta con dicasteri economici più “spregiudicati” e molto politici a cui seguì -verrebbe da dire inevitabilmente- la breve stagione dei tecnici al governo, prima con Ciampi e poi con Monti, chiamati dalla presidenza della Repubblica a porre un argine alle tragiche difficoltà dei conti pubblici e accusati poi dei peggiori misfatti per aver provato a mettere delle pezze, certo non troppo gradite in termini di consenso. La storia italiana, dunque, ha conosciuto un articolato rapporto tra tecnici e politica in cui molto spesso i primi sono stati ritenuti indispensabili alla seconda e, comunque, quasi mai sono stati considerati un corpo ostile, il “nemico interno”, nella complessa macchina statale. Costruire, in chiave elettoralistica, una contrapposizione del tutto artificiale rischia di aprire dannose stagioni di caccia alle streghe che, fortunatamente, il nostro Paese non ha vissuto. L’Italia ha conosciuto brutali epurazioni, fortunate carriere spinte dalla politica e altri mali profondi, ma è riuscita a risparmiarsi la sindrome della “rivolta dei tecnici”. Almeno finora.
Università di Pisa
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