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Economia / Reportage

La rinascita rischiosa in Sri Lanka, tra capitali cinesi e finanza offshore

Lo skyline futurista che si staglia sulla coloniale Colombo, capitale commerciale e finanziaria dello Sri Lanka - © Andrea de Franciscis

Reportage da Colombo, capitale del Paese affacciato sull’Oceano Indiano, al centro di interessi commerciali e già sconvolto dalla guerra civile. Pechino finanzia interventi immobiliari imponenti, come il contestato Port City

Tratto da Altreconomia 214 — Aprile 2019

All’imbrunire, il lungomare di Colombo si anima come un paesino in festa: Galle Face, l’ampio parco in riva all’Oceano Indiano dove un tempo si tenevano le corse di cavalli, fa da catalizzatore della vita in città. La passeggiata, lunga un chilometro e mezzo, è illuminata dai molti carretti e ristorantini di strada che servono pesce fritto e vadai, polpette di lenticchie, a pochi passi dal mare. Intorno alla baia del porto poco più a Nord, si trovano il quartiere indigeno, Pettah, e il quartiere commerciale, Fort, con i suoi edifici risalenti al dominio olandese sull’isola. Grazie alla sua posizione strategica nell’Oceano Indiano, è sempre stata un importante centro commerciale per cinesi e arabi, poi per portoghesi e olandesi, prima ancora degli inglesi, che vi rimasero fino alla metà del secolo scorso.

Lo skyline futurista che si staglia sulla coloniale Colombo, capitale commerciale e finanziaria dello Sri Lanka, si è riempito di una serie di grattacieli che svettano sulla linea costiera tropicale: con le gru che lavorano incessantemente, la città è un cantiere sempre attivo che cambia continuamente profilo. Poco più a Nord di Galle Face, oltre il canale che congiunge l’oceano al lago di Beira, una nuova parte della città sta per essere costruita da zero: dove un tempo c’era il mare, adesso c’è un’enorme spianata di sabbia, un’isola artificiale bonificata dall’oceano pompando 65 milioni di metri cubi di sabbia a ridosso del porto commerciale.

Nata per attirare investimenti, Port City Colombo sarà una free zone sul modello di Dubai che sorgerà sui 2,6 chilometri quadrati di terra strappata al mare, con un regime fiscale favorevole alle imprese e, eventualmente, un diverso sistema giuridico. La bonifica è stata appena completata e presto inizieranno i lavori per la costruzione dei nuovi grattacieli nella zona residenziale: lussuosi appartamenti che potranno ospitare 80mila persone, e poi hotel a 5 stelle, una marina, un golf club, un distretto finanziario e un circuito di Formula Uno affacciati sullo sconfinato Oceano Indiano.

L’investimento di 1,4 miliardi di dollari arriva da capitali cinesi tramite la China Harbor Engineering Company (Chec) -sussidiaria della China Communications Construction Company Limited (Cccc) a trazione statale- leader nella progettazione e costruzione di porti. La Cccc è l’investitore immobiliare e sviluppatore cinese che dal 1998 ha finanziato diverse opere infrastrutturali in Sri Lanka: la Southern Highway, la Outer Circular Highway, l’aeroporto internazionale di Mattala e il porto di Hambantota a Sud dell’isola. Quest’ultimo, costruito con un prestito di 1,5 miliardi di dollari, per l’impossibilità di estinguere il debito, nel 2017 è stato ceduto alla Cina per 99 anni, innescando il dibattito sulla perdita di sovranità del Paese.

Dove un tempo c’era il mare, adesso c’è un’enorme spianata, un’isola artificiale bonificata dall’oceano pompando 65 milioni di metri cubi di sabbia a ridosso del porto

Il precedente governo del controverso leader Mahinda Rajapaksa, esponente di spicco dello Sri Lanka Freedom Party oggi all’opposizione, nei suoi tre mandati come premier e presidente ha accumulato debiti con la Cina per 8 miliardi di dollari, molti dei quali sono stati spesi in mastodontiche infrastrutture nella sua città natale, Hambantota. In un passato ancora molto recente, lo Sri Lanka è stato teatro di una sanguinosa guerra civile tra il governo singalese e le Tigri Tamil che combattevano per l’indipendenza dalla maggioranza buddista: un conflitto armato intermittente durato 25 anni che ha fatto 100mila morti mandando in stallo l’economia del Paese. Una spietata offensiva dell’esercito nel 2009 ha sancito la fine dell’ostilità aprendo le porte agli investitori stranieri.

Port City sarà una free zone sul modello di Dubai che sorgerà sui 2,6 chilometri quadrati di terra strappata al mare – © Andrea de Franciscis

A dicembre 2014 il primo ministro Ranil Wickramasinghe, dello United National Party, aveva annunciato di voler bloccare il progetto della Port City perché avrebbe compromesso gravemente la fascia costiera da Negombo a Beruwala. I lavori erano stati fermati nel 2015 per le preoccupazioni legate all’impatto ambientale sulla costa e sulle attività a essa legate -pesca e turismo- ma la nuova proposta è stata approvata e i lavori sono ripresi l’anno successivo. “È stata fatta una nuova valutazione di impatto ambientale dando al progetto una patina di sostenibilità”, spiega Hemantha Withanage, direttore del Centre for Environmental Justice, un’organizzazione ambientalista locale che nel 2015 ha presentato un’azione legale contro la Port City. “L’unico cambiamento rilevante nel progetto è stato passare dai 235 ettari di riempimento della prima proposta ai 269 dell’attuale ma l’impatto totale potrebbe essere di circa 485 ettari (considerando anche i canali) e 1.200 acri a mare”.

La Chec, contattata al telefono, si è rifiutata di commentare la questione dell’impatto ambientale e la sostenibilità del progetto. I successivi governi non sono riusciti a rendere conto alla popolazione dei molti aspetti ancora nebulosi della nuova città. Gli ambientalisti sostengono che, nonostante l’evidente impatto economico e sociale del progetto, gli aspetti ambientali non sono stati adeguatamente affrontati. I mutamenti delle correnti per il fondo sottomarino dragato e la nuova diga foranea che proteggerà l’isola, causeranno un esponenziale aumento dell’erosione costiera a Nord e Sud di Colombo, da Negombo a Mount Lavinia, causando enormi danni alla barriera corallina, fondamentale per l’equilibrio dell’ecosistema marino. Di conseguenza anche l’economia della zona costiera, che dà da vivere a 15mila pescatori, sarà messa a rischio dagli effetti del progetto.

Colombo Port City avrà una gestione autonoma rispetto alla capitale e sarà sottoposta a un regime finanziario (e probabilmente anche legale) diverso

Colombo Port City, definita dalla Chec una “world class city”, avrà una gestione autonoma rispetto alla capitale e sarà sottoposta a un regime finanziario (e probabilmente anche legale) diverso, i cui dettagli non sono ancora stati resi noti al pubblico. “In base alla legge sul diritto all’informazione abbiamo richiesto al ministero della Provincia Occidentale e della Megapolis, coinvolto nel progetto della Port City, di rendere pubblici i dettagli dell’accordo tra Sri Lanka e Cina: dopo due rifiuti, ci siamo rivolti alla Commissione per il Diritto all’informazione”, spiega Withanage ad Altreconomia. “Che cosa dobbiamo pensare se il governo non è pronto a divulgare i termini e le conseguenze di questo progetto? Siamo molto spaventati da quello che sarà deciso per l’assetto finanziario perché si tratta di un investimento cinese diretto, non di un prestito”. Per ora si sa solo che la città sarà un hub finanziario con un regolamento a sé sul modello di Hong Kong, uno dei punti chiave della nuova Belt and Road initiative cinese.

La penetrazione cinese in Asia meridionale è stata definita sulle pagine del Guardian come “Il più grande cambio di paradigma degli ultimi 100 anni”. È la prima volta dalla seconda guerra mondiale che una grande potenza mette in discussione il controllo indiano della regione, che potrebbe vedere aggravarsi la sua fobia da accerchiamento. La multimiliardaria Belt and Road Initiative (Bri), yi dai yi lu, una “Via della seta del XXI secolo”, composta in modo poco intuitivo da una “cintura” di corridoi terrestri e una “strada” di rotte marittime, e unirà 71 punti strategici per la Cina in Asia, Africa e Europa in un network commerciale funzionale all’espansionismo economico cinese. Parallelamente, imprese cinesi stanno investendo nelle infrastrutture dei Paesi ospitanti, legandoli a doppio filo con la sua “diplomazia del debito”.

71 i punti strategici uniti dalla “Via della seta del XXI secolo” cinese, in Asia, Africa e Europa. Un network commerciale funzionale all’espansionismo economico di Pechino

“La crescita economica della Cina e dell’India, pur implicando alcune sfide, crea anche ampie opportunità per le piccole economie. È essenziale che lo Sri Lanka si integri nelle filiere regionali e globali, e migliori la propria competitività per attirare il flusso di investimenti esteri provenienti dalle due potenze in rapida crescita -replica Kithmina Hewage dell’Institute of Policy Studies di Colombo-. La Cina rappresenta solo il 9 per cento del debito estero: lo Sri Lanka ha fatto ricorso a prestiti a condizioni commerciali, holding straniere, buoni del tesoro e cambiali, che sono la causa principale dei crescenti livelli di debito nel Paese”. Pertanto, secondo l’economista, mentre i prestiti cinesi hanno contribuito al debito dello Sri Lanka, non ne sono la causa primaria.

La penetrazione cinese in Asia meridionale è stata definita sulle pagine del Guardian come “il più grande cambio di paradigma degli ultimi 100 anni”

Un report pubblicato lo scorso anno dal Center for Global Develpoment (Cgd) dell’Harvard Kennedy School s’interroga sul ruolo di quella che gli autori definiscono la “debt diplomacy”, ossia la leva coercitiva data dalla posizione di nazione creditrice per acquisire beni strategici o influenza. Se da un lato l’analisi rileva che è improbabile che la Bri causi un problema di debito sistemico, dall’altro conclude che vi sono alcuni Paesi, piccoli e relativamente poveri, che affrontano un rischio significativamente maggiore di insolvenza se i progetti pianificati sono realizzati in maniera rapida e finanziati tramite prestiti. Il documento identifica otto “obiettivi” nella tattica cinese di estendere prestiti a Paesi che non possono permettersi di pagarli, sfruttandone strategicamente il debito.

Pakistan e Sri Lanka, secondo gli accademici, sono gli Stati in cui il processo è già a uno stadio “avanzato”, cioè con un debito profondo e dove i governi hanno già ceduto strutture chiave. Il porto di Hambantota è uno dei casi esemplari: quando è stato firmato il leasing, lo Sri Lanka era in debito per 8 miliardi di dollari con varie partecipate cinesi: il porto, che non aveva ancora iniziato a generare profitto, è diventato una trappola. L’accordo, definito “opaco e controverso”, è stato firmato dopo oltre un decennio di prestiti: quando altre entità e organizzazioni internazionali erano preoccupate per le violazioni dei diritti umani e l’instabilità del Paese, la Cina già offriva aiuti a un governo dalle mani ancora insanguinate per la ricostruzione del Paese martoriato dalla guerra civile. Port City è a oggi il più grande investimento straniero diretto nel Paese ma man mano che il progetto prende forma, la domanda chiave su come funzionerà la nuova città resta senza risposta e inizia a farsi strada il timore che si trasformi in un’ulteriore perdita di sovranità per lo Sri Lanka.

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