Esteri / Reportage
India e Cina: le isole Andamane e le sue popolazioni indigene al bivio
L’arcipelago indiano potrebbe rappresentare una tappa importante lungo la rotta marittima della moderna “Via della Seta” lanciata da Pechino. Ma lo sviluppo minaccia la sopravvivenza dei gruppi nativi, come i bellicosi Jarawa
La risposta ai governi di India e Cina è la stessa riservata a chiunque incroci la loro strada. Un machete puntato minaccioso a mezz’aria. Lo sguardo fulminante che non ammette grazia. Scurissimi di pelle e vestiti appena con un gonnellino di rafia, i guerrieri Jarawa sbucano all’improvviso dal folto della foresta pluviale, lanciando un chiaro avvertimento: le Andamane sono territorio loro da oltre 30mila anni e non sarà facile per nessuno trasformarle nello scalo strategico della “Nuova via marittima della seta”. Pochi passi e dei “negritos” non c’è più traccia, figli di un mondo ormai invisibile all’uomo addomesticato. Benché l’arcipelago a Sud del Myanmar conti 572 isole e solo 38 di esse siano abitate, gli interessi delle grandi potenze regionali guardano oggi alle tre maggiori, dove l’India ha confinato la sua ultima tribù nomade.
La riserva Jarawa si estende per circa mille chilometri quadrati di giungla fra Middle e South Andaman. Agli occhi degli antropologi potrebbe essere uno spaccato perfetto della vita nel Paleolitico, ma come ogni paradiso naturale nasconde una mela del peccato: la Great andaman trunk road. L’unica vera arteria stradale che congiunge la capitale Port Blair alla cittadina di Diglipur, distante 298 chilometri e all’estremità di North Andaman. Inevitabile che qualunque progetto di potenziamento infrastrutturale -sollecitato dal transito di 60mila navi cargo l’anno- debba partire da qui. Con 15 vascelli militari, due basi navali e quattro aeree, oltre a due brigate di stanza, l’arcipelago indiano è uno degli attracchi più sicuri al mondo: non a caso l’80% del commercio marittimo del petrolio passa da qui. “Le Andamane potrebbero diventare la Singapore del futuro”, ha dichiarato Harish Bisht, viceammiraglio in pensione, ma per anni a capo del Comando Navale Orientale della flotta indiana. “Abbiamo un potente presidio militare nell’arcipelago, per cui l’India non deve temere nulla dal suo sviluppo come scalo commerciale internazionale. Anzi, la posizione strategica dell’arcipelago può farne la miglior base d’interscambio di tutto l’Oceano Indiano”.
La storia marittima lo ha già dimostrato più volte: dai tempi di Marco Polo alle spedizioni dell’ammiraglio eunuco Zheng He o di Archibald Blair, il luogotenente britannico che nel 1788 stabilì a South Andaman il primo insediamento coloniale stabile, le navi in viaggio fra Estremo Oriente ed Europa finiscono sempre nel cosiddetto Decimo Canale: questione di venti e di correnti. Sopra le Andamane passa inoltre la rotta dei monsoni, la cui regolarità di spostamento -fra maggio e ottobre- permette di ottenere coordinate impeccabili per la navigazione. “Tutto pare giocare a favore di un rapido sviluppo delle nostre isole”, affermano Karan Tripati e Gaurav Rana, studenti della facoltà di legge presso la Symbiosis International University di Pune, nell’India continentale. “Dopo la rimozione delle sanzioni all’Iran da parte delle Nazioni Unite, il governo indiano ha siglato con Teheran un patto che potrebbe modificare a breve gli equilibri globali, ma risvegliare anche pericolosi conflitti egemonici. L’utilizzo del porto persiano di Chabahar, scalo d’appoggio indiano verso l’Europa, è infatti entrato in competizione con quello di Gwadar in Pakistan, utilizzato dalla Cina. I flussi andrebbero regolamentati quanto prima secondo la Convenzione per la Legge del Mare, ma è chiaro che il titanico progetto One Belt One Road è ormai realtà”.
“Le Andamane potrebbero diventare la Singapore del futuro. La posizione strategica può farne la migliore base di interscambio dell’Oceano Indiano” (Harish Bisht, ex vice-ammiraglio)
L’iniziativa strategica lanciata da Pechino nel 2013, volta a collegare l’Eurasia attraverso una fitta rete di rotte commerciali simili all’antica Via della Seta, passa oggi tanto per terra quanto per mare: si basa sullo sviluppo d’infrastrutture di trasporto e di logistica che mettono in contatto diretto i porti dell’Estremo Oriente con i grandi scali europei, restituendo fra l’altro un peso geopolitico fondamentale a Genova, Venezia e Trieste. In dieci anni, la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib) stima un investimento complessivo di 1.800 miliardi di dollari, destinato a impennare gli indici economici delle 65 nazioni toccate dal progetto. È il più grande mai realizzando al mondo, 12 volte superiore al Piano Marshall americano, perché in grado di coinvolgere più della metà della popolazione della Terra e tre quarti delle risorse energetiche esistenti. Le ricadute sarebbero addirittura in grado d’influenzare un terzo del Pil globale. Lecito che l’India abbia iniziato a temere l’intraprendenza cinese nelle proprie acque. Al di là delle “magnifiche e progressive sorti”, il governo di Nuova Delhi sa infatti di non avere la coscienza del tutto a posto nel suo remoto, ma assai strategico arcipelago. Ne è consapevole almeno dal 1956, quando le isole Andamane, insieme alle ancor più distanti Nicobare, furono trasformate nel suo primo Union Territory: un dipartimento speciale sotto la diretta dipendenza della capitale, sul modello di quanto già sperimentato dall’ex potenza coloniale britannica. Ma anche un esperimento riuscito a metà. Nessuna autonomia decisionale, mercato interno mai pienamente sviluppato e tante grane: le tribù indigene sono state refrattarie a qualunque tipo d’integrazione, in particolare gli ultimi e bellicosi Jarawa. Bastano un gesto mal interpretato o un sorriso ironico. Qualsiasi leggerezza o dettaglio può trasformarsi in un pretesto improvviso per attaccare, ben sapendo quale sia stata la fine delle altre “minoranze” etniche. Gli Onge di Little Andaman, decimati dalle malattie portate dal continente, sono stati forzatamente sedentarizzati. I Grandi Andamanese si sono praticamente estinti a cavallo del secolo scorso, spinti ad adottare i costumi della civiltà. Le tribù di Sentinel Island, grazie all’isolamento naturale di un territorio che permette la difesa a oltranza, tentano di resistere a ogni contatto col mondo esterno. Pure i Jarawa fanno del proprio meglio per vivere nel fitto della foresta, estesa ancora per l’87% dell’intera superficie delle Andamane, ma gli imminenti progetti lasciano presagire il peggio: la fine degli ultimi discendenti diretti della grande migrazione Sapiens, la lunga marcia che dalle foreste equatoriali africane portò gruppi di nomadi raccoglitori-cacciatori sino alle più sperdute terre dell’Oceania.
“Abbiamo analizzato le sequenze del loro DNA mitocondriale -conferma Erika Hagelberg, docente presso il dipartimento di Bioscenze dell’Università di Oslo in Norvegia e curatrice dello studio “Genetic affinities of the Andaman Islanders, a vanishing human population”- così come i polimorfismi RFLP (nucleotidi utili per tracciare le impronte genetiche) e infine i markers del cromosoma biallelico Y. La conclusione è inequivocabile: le tribù delle Andamane discendono direttamente dai primi colonizzatori paleolitici del Sud-Est asiatico”. In parole brute, sono “fossili viventi” che permettono non solo di comprendere la nostra evoluzione nel corso degli ultimi 60mila anni, ma di prevedere anche la fine cui potrebbe andare incontro la specie Sapiens Sapiens. Sotto le costanti denunce di sfruttamento e maltrattamento sollevate da Surivival International (survivalinternational.org), incontri ravvicinati con i Jarawa sono ora vietati per legge. Ma l’Andaman Trunk Road è un colabrodo. Quando i mezzi restano incolonnati per ore, curiosità o provocazione possono spingerli improvvisamente fuori dalla giungla; e ogni volta è un rischio mortale, nonostante i sette comandamenti dell’Andaman Trunk Road. Per i mezzi che hanno il permesso di percorrerla è infatti vietato viaggiare sopra i 40 chilometri all’ora, potendo investire piccoli gruppi in cerca di cibo. Qualcuno tenta sempre di gettare ai Jarawa frutta o barrette energetiche, ma vige il divieto assoluto di fornire generi alimentari, di fotografarli e soprattutto d’interagire. Per via della loro imprevedibilità, è inoltre vivamente consigliato spostarsi in convogli e qualunque violazione dei divieti va segnalata immediatamente alla stazione di polizia più vicina, in particolare qualora si verificassero incidenti o improvvisi blocchi del traffico. Nel malaugurato caso queste precauzioni non fossero sufficienti e i Jarawa si materializzassero davanti a qualcuno, il regolamento suggerisce infine di distogliere lo sguardo o immobilizzarsi completamente, restando in perfetto silenzio.
“La conclusione è inequivocabile: le tribù delle Andamane discendono direttamente dai primi colonizzatori Paleolitici del Sud-Est asiatico” (Erika Hagelberg)
In bilico fra divieti e dichiarazioni di rilancio economico, le autorità indiane non hanno adottato ancora una linea chiara. “Stiamo portando avanti progetti infrastrutturali dal valore di oltre 373 milioni di euro -ha annunciato Anand Kumar, direttore indiano della National highways and infrastructure development corporation– in particolare ponti di collegamento sugli stretti delle isole centrali e 87 chilometri di nuova rete stradale. Abbiamo anche intenzione di creare una ferrovia che colleghi più velocemente Port Blair a Diglipur, mentre un cavo di fibra ottica sarà steso sino a Chennai, sul continente”. Progetti ventilati da decenni e attesi invano dai locali, ma per i quali il governatore delle isole Jagdish Mukhi è riuscito ad ottenere a sorpresa un impegno concreto da Nuova Delhi: strategia vecchiotta, in realtà. Basta agitare lo spettro cinese e l’elefante indiano torna improvvisamente a barrire. Occorre però capire quale sia la reale convinzione, dal momento che l’India sembra davvero essersi resa conto che le Andamane, al pari dei suoi abitanti originari, sono refrattarie a qualsiasi tentativo d’integrazione. Al di là, o meno, delle loro effettive potenzialità. Attorno all’arcipelago è stata creata una Zona Economica Esclusiva di ben 0.6 milioni di chilometri quadrati, pari al 30% di tutta la superficie indiana destinata all’esplorazione delle risorse marine ed energetiche: le famiglie disposte a trasferirsi dal subcontinente al remoto arcipelago restano però pochissime.
1.800 miliardi di dollari, la stima degli investimenti complessivi per lo sviluppo della nuova “Via della Seta” lanciata dalla Cina nel 2013 e che andrà a toccare 65 Paesi
Malaria, rischi di tsunami e attacchi sul posto di lavoro rendono i vantaggi economici evidenziati da uno studio della Reserve Bank of India alquanto dubbi, per quanto la media procapite degli stipendi risulti superiore a quella nazionale (2.200 dollari all’anno, contro 1.800, ma ben lontani dai 7.300 di Goa o dai 5.700 di Delhi). I principali introiti giungono tuttora dalla coltivazione del riso e della frutta, possibile su appena 50mila ettari dell’intero arcipelago, mentre le potenzialità della pesca sono inevitabilmente costrette a fare i conti con la violenza dei monsoni. Sino al 2010 uno dei settori più promettenti è stato quello del taglio di legname padouk (essenza di pregio trainata dall’attività della segheria Chatam), ma le denunce ambientaliste legate allo sfruttamento degli elefanti nel trasporto dei tronchi, l’intervento del WWF a difesa della più vasta foresta pluviale indiana, seguita dall’inclusione delle aree a mangrovie fra i 200 siti con la più alta biodiversità mondiale, hanno tarpato le ali al settore. L’India non ne viene a capo: le Andamane sembrano sempre sul punto di decollare, ma inevitabilmente tutto s’impantana. Qualcuno punta a farne le “nuove Maldive”, o a preservarne l’eredità monumentale penitenziaria come museo all’aperto della storia dell’indipendenza indiana. Ora incombe l’incubo concreto di un “soft shifting”: la perdita del controllo geopolitico per mano della Cina. Forse servirà un colpo di machete per tagliare la testa al toro. O magari a qualche altro animale bipede.
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