Relazioni di terra e di idee
Il rapporto diretto tra consumatori e produttori locali è la chiave di numerose esperienze di filiera corta in giro per il mondo. Eccone quattro
Che cosa accomuna un immigrato del Bronx nell’anno del crollo di Wall Street, una donna di un sobborgo di Osaka negli anni 50, un contadino tanzanese dei nostri giorni e un agricoltore francese? Apparentemente nulla. In realtà ognuna di queste persone appartiene a gruppi e comunità che, in modo più o meno formalizzato, sono organizzate per vendere o acquistare prodotti alimentari che vengono consumati vicino ai luoghi di produzione. Le loro storie sono molto diverse per contesto, durata, dimensione e modalità di azione, ma tutte nascono da persone che mettono alla base dello scambio economico la relazione diretta tra le persone e la fiducia che questa relazione crea. In Italia da alcuni anni si parla di filiera corta, mercati contadini, cibo a chilometro zero, e si diffondono velocemente i gruppi di acquisto solidali e le pratiche di “adozione” di orti e terreni. Nel mondo, però, esperienze più organizzate di avvicinamento tra produttori e consumatori -alcune delle quali sono descritte in queste pagine- si diffondono a partire dagli anni 60. In Giappone, ad esempio, si ha notizia di gruppi che cominciarono ad organizzare l’acquisto diretto di prodotti presso i contadini (una pratica chiamata teikei) già verso la fine degli anni 50. Il teikei nasce come reazione ad alcuni disastri ambientali che contaminarono il suolo e l’acqua in diverse parti del Giappone, e come movimento di difesa della cultura giapponese tradizionale messa in discussione dal protettorato americano negli anni del dopoguerra. Dalla comunità svizzera di Topinambur nel 1984 si mossero invece alcune persone che portarono negli Stati Uniti le idee e forme di organizzazione di queste comunità, e presso la Indian Line Farm, in Massachussetts, nel 1985 nasce il primo gruppo che si autodefinisce di Community Supported Agricolture (Csa), cioè di agricoltura sostenuta dalla comunità. Attualmente negli Stati Uniti centinaia di migliaia di americani aderiscono al movimento della Csa divisi in circa 1.700 gruppi, ciascuno dei quali raduna da pochi membri fino a 4.000 nuclei familiari. I rapporti collettivi tra produttori e consumatori che si sviluppano su base locale in Francia assumono un connotato simile alla Csa solo piuttosto recentemente, ma il fenomeno è interessante perché ha avuto una crescita esponenziale. Nel 2001, vicino a Marsiglia, viene fondata la prima Amap (Association pour le Maintien de l’Agriculture Paysanne, Associazione per il mantenimento dell’agricoltura contadina) su iniziativa di una coppia di agricoltori che era rimasta molto colpita da un gruppo newyorkese di Csa. In sette anni le Amap sono diventate circa un migliaio nella sola Francia e il modello dell’Amap è stato esportato in diversi Paesi dell’Africa francofona ed è in espansione in Europa dell’Est.
Nel 2004 le pratiche dei teikei, della Csa e delle Amap hanno dato origine a una rete mondiale chiamata Réseau International Urgenci che unisce molte forme di rapporti collettivi e organizzati tra produttori e consumatori che coltivano, distribuiscono e consumano cibo prodotto localmente.
In giappone si chiama “teikei”
I giapponesi sono stati degli antesignani dei rapporti diretti e organizzati collettivamente tra produttori e consumatori: quarant’anni di esperienza, durante i quali si è vista la sperimentazione, il consolidamento ma anche la crisi di molti modi di intendere e organizzare i circuiti alimentari corti.
I teikei alimentari sono gruppi di cittadini auto organizzati (ma anche cooperative di dimensioni rilevanti come la scala regionale) che praticano forme di rapporto diretto con gli agricoltori: i gruppi discutono con i produttori i tipi di prodotti da coltivare e partecipano al rischio di impresa mediante la raccolta di denaro tra i consumatori per garantire un pre-finanziamento all’agricoltore o un acquisto anticipato di tutta la produzione o di una sua parte. Nei teikei tradizionali, si prevede addirittura l’accettazione dell’intera produzione agricola da parte dei consumatori, anche se quest’ultima è maggiore di quella preventivata in fase di contrattualizzazione e pre-finanziamento della produzione.
L’approccio teikei (nella foto a sinistra) è molto vicino a quello del movimento dell’agricoltura “organica” giapponese: la Joaa (Japanese Organic Agricolture Association) è fra le più estese associazioni al mondo impegnate sul fronte del contatto diretto e organizzato tra cittadini e agricoltori.
Da New York…
Just Food è una organizzazione no-profit nata nel 1995, che lavora utilizzando il cibo come elemento cardine per migliorare la qualità della vita dei cittadini e dei piccoli agricoltori nella zona intorno a New York. Nel 2008 circa 14mila newyorkesi hanno partecipato a programmi di Community Supported Agricolture (Csa) di Just Food, acquistando anticipatamente il raccolto di un agricoltore della zona e ricevendo ogni settimana, da giugno a novembre, una cassetta contenente dai 7 ai 10 tipi diversi di verdura fresca di stagione, sufficiente a soddisfare le necessità di una famiglia media. Nell’arco della stagione del raccolto i membri ricevono circa 40 diversi tipi di verdure. Gli agricoltori che partecipano usano metodi biologici certificati o, comunque, metodi di produzione sostenibili e si trovano a non più di tre ore di strada da Ny. Durante tutto il periodo del raccolto gli agricoltori consegnano la quota settimanale di verdure presso uno (o più) punti di distribuzione disponibili nei quartieri di Ny, tipicamente sedi di associazioni o luoghi di culto. La distribuzione è capillare: attualmente ci sono 7 centri nel Bronx, 19 a Brooklyn, 22 a Manhattan, 8 nel Queens e uno a Staten Island; tutti elencati sul sito di Just Food, con i relativi contatti del posto e l’azienda agricola di riferimento. I membri della Csa ritirano la propria quota di verdura presso il centro di riferimento di zona e assicurano il lavoro necessario per la corretta gestione delle attività. Il prezzo della quota di raccolto (da acquistare in anticipo) si aggira intorno ai 400 dollari a stagione (circa 17 dollari a settimana). Poiché il programma coinvolge anche famiglie a basso reddito (più di 2.000 persone), sono possibili diverse forme di pagamento, anche dilazionate, a cui possono essere associate anche meccanismi di microcredito e forme di scambio di lavoro.
…alla Tanzania
Negli altipiani della Tanzania, come in numerose altre parti dell’Africa, molti piccoli agricoltori hanno delle difficoltà nel vendere i loro prodotti al mercato. A volte questo è un problema di distanza -non è facile raggiungere fisicamente un mercato dove vendere i propri prodotti-, altre la questione è quella di riuscire a sapere dove è più facile vendere, o quale sia il contesto dove riuscire ad ottenere un prezzo migliore per il proprio raccolto, magari senza rivolgersi a degli intermediari. Spesso, quindi, oltre ai problemi di trasporto ci sono quelli di informazione e di comunicazione.
Il progetto First Mile parte proponendo una soluzione creativa a questo problema. Sul dorso di alcuni muli, molto diffusi nelle campagne, vengono fissati dei trasmettitori di segnale di rete e, girando per le campagne, i muli creano dei veri e propri ponti-radio mobili che raggiungono anche i villaggi più remoti dove è difficile arrivare in macchina. Questa idea viene chiamata donkey-net: una soluzione low cost che supera il problema dell’assenza di segnale in questi territori, che non vengono raggiunti perché le compagnie telefoniche nazionali non fanno costosi investimenti per installare e mantenere dei ripetitori in zone isolate che, per loro, sono poco remunerative. Il mulo si sposta continuamente di villaggio in villaggio seguendo il cammino delle persone che si spostano, rendendo possibile la comunicazione sia via telefono, sia via mail o web: in tutti casi utilizzando un sistema wi-fi del tutto simile a quello che si sta ora installando in diverse città italiane. Attraverso la rete wi-fi portata a dorso di mulo si può fare arrivare in tutti i villaggi una connessione di rete con la quale facilitare ogni genere di comunicazione riguardante l’intera filiera agroalimentare e per mettere direttamente in comunicazione i produttori e i consumatori. In altri casi, se è disponibile, al posto del mulo viene utilizzata una moto.
Al ripetitore mobile è poi associato un sito web.
Contadini a Tolone con l’Amap
Nell’area metropolitana di Tolone, su una strada di periferia senza ombra, popolata da McDonald’s, Carrefour, Decathlon e molti capannoni, l’azienda agricola Les Olivades è una vera e propria oasi. Resiste grazie al rapporto instaurato con 70 famiglie che acquistano direttamente dall’azienda frutta e ortaggi biologici di stagione. Dal 2003 Les Olivades ha interrotto completamente i rapporti con la grande distribuzione (Gdo)
e, praticando la sola vendita diretta, ha potuto anche assumere 5 dipendenti fissi. I protagonisti di questa trasformazione sono due contadini, Denise e Daniel Vuillon e il nome che hanno scelto per definire la loro esperienza è Amap: Association pour le Maintien de l’Agriculture Paysanne Les Olivades. La particolarità dell’Amap sta nella sottoscrizione di un contratto in base al quale le famiglie acquirenti si impegnano a pagare i prodotti in anticipo, circa sei mesi prima del raccolto, ricevendo in cambio frutta e ortaggi biologici e di stagione durante l’intero arco dell’anno e potendo esprimere la loro opinione sulle colture da programmare per la stagione.
I coniugi Vuillon sono anche i fondatori del movimento degli Amap, che si è sviluppato su tutto il territorio francese, e poi anche all’estero. Attualmente in Francia esistono circa un migliaio di Amap. Le famiglie che partecipano al progetto dei coniugi Vuillon sono divise in tre Amap, ciascuna delle quali conta circa 70 famiglie: una ad Aubagne, presso Marsiglia e due a Tolone. La forma di distribuzione dei prodotti che viene utilizzata è quella dei paniers, cioè cassette di diverse dimensioni che contengono legumi, ortaggi e frutta di stagione.
La formazione del panier dipende dalla quantità di produzione e dalle varietà di stagione disponibili. Negli ultimi due anni i paniers distribuiti stagionalmente a ogni famiglia sono stati circa 26, ad un prezzo che si aggira intorno ai 23 euro durante l’inverno e ai 27 euro nella stagione estiva; una famiglia spende così un totale di 700 euro in estate e 600 euro in inverno. Il prezzo dei prodotti non è sempre più basso rispetto a quello proposto dalla Gdo.
I limiti del biologico che viene da lontano
Stagionalità dei prodotti, export, tutela del consumatore e dei produttori: il futuro dell’agricoltura “bio”, un mercato che cresce in tutto il mondo
Schömberg (Germania) – Nel discount di questo paesino del Baden-Würtemberg il reparto di frutta e verdura è sulla sinistra. I prodotti biologici freschi sono a fianco di quelli convenzionali. I pomodori bio arrivano da Israele, le arance bio dalla Spagna, i kiwi bio e l’insalata bio dall’Italia. Cinque chilometri più in là c’è il paesino successivo, il supermercato appartiene a un’altra grande catena di distribuzione: anche qui frutta e verdura biologiche sono ben visibili e anche qui esse arrivano da tutta Europa, in particolare dai Paesi del Mediterraneo. Ci sono anche le eccezioni: banane dall’Ecuador o pere dall’Argentina, per esempio.
Le Germania è il più grande consumatore di prodotti biologici in Europa, l’Italia è il più grande produttore. Per anni il mercato tedesco ha fatto la fortuna dei bioagricoltori italiani. Oggi però questa tendenza è diventata globale: frutta e verdura bio viaggiano per tutto il mondo. Nei supermercati europei ciò che si compra non viene prodotto solo dal contadino della zona ma viene spesso importato, talvolta anche da molto lontano.
Per capire le ragioni di questo meccanismo la Germania è un osservatorio privilegiato. Le vendite di prodotti bio in Germania sono state stimate nel 2008 a 5,8 miliardi di eruo, il 10% in più rispetto al 2007 (il mercato globale del biologico nel 2008 vale circa 50 miliardi di dollari). La Germania è anche il centro della logistica europea per la commercializzazione di frutta e verdura. A Berlino ogni anno ai primi di febbraio si svolge Fruit Logistica, la fiera che raggruppa grandi esportatori e grandi importatori da tutto il mondo insieme a tutti gli addetti alla filiera della distribuzione. In Germania c’è anche la più grossa fiera al mondo dedicata ai prodotti biologici: da vent’anni, a fine febbraio, Biofach trasforma per un fine settimana la città di Nürnberg (Norimberga) nell’osservatorio globale dell’agricoltura biologica. Nel 1990 la prima edizione di Biofach aveva 240 espositori: nel 2009 sono stati 2.900. Tra gli stand di Biofach si capisce che il mondo bio si è allargato al punto che l’olio e il vino occupano ormai un settore specifico della fiera, dove si sente parlare sempre più frequentemente di etichette, di marketing, di segmenti di mercato.
Latte, yogurt, formaggi e burro, soprattutto nei Paesi del Nord Europa, hanno conquistato quote di mercato: non a caso l’ospite d’onore della edizione 2009 di Biofach era la Danimarca, che è il Paese dell’Unione europea con il più alto livello di consumo pro-capite di prodotti bio; ogni danese spende (in media) 80 euro all’anno in biologico. Il settore bio vale il 6,5% del del mercato interno ma per quanto riguarda il latte arriva al 30%. Inoltre il 6% del terreno destinato all’agricoltura viene coltivato in modo bio. E Svezia, Germania, Paesi Bassi rincorrono la Danimarca…
Le due edizioni di Biofach in India e in Cina, in programma in aprile e in maggio, dimostrano non solo l’attenzione alla “Cindia” da parte dell’economia mondiale ma anche e soprattutto il particolare impegno della Germania nel cercare contatti commerciali con i due colossi asiatici. Non è difficile immaginare che qualcuno stia valutando l’opportunità economica di importare prodotti bio dalla Cina e dall’India, visto che già lo si fa per frutta e verdura convenzionali. E a Biofach gli stand cinesi erano una quarantina. La regione per eccellenza di produzione di frutta e verdura resta comunque il Mediterraeno. Un Mediterraneo che esporta. Giulio Malorgio, docente di economia e politica agraria all’Università di Bologna, nella rivista scientifica del Ciheam (il Centro internazionale di alti studi agronomici mediterranei) spiega che “nella maggior parte dei Paesi mediterranei le produzioni bio sono quasi completamente esportate e sono etichettate all’estero dalle aziende che importano o trasformano”. Oggi nei 25 Paesi del Mediterraneo ci sono cinque milioni di ettari coltivati in modo biologico e oltre 140mila aziende. Da sole Italia e Spagna occupano il 59% della superficie coltivata. L’Italia è il primo produttore, la Spagna il secondo: sono tradizionalmente votate all’esportazione, anche se entrambe registrano forti tassi di crescita del mercato interno (per quanto riguarda la Spagna, tra il 15 e il 20% annuo; per l’Italia, vedi box a pagina 14). In Italia i campi destinati all’agricoltura biologica sono tra il 7 e l’8% del totale, in Spagna tra il 3 e il 4%.
Anche negli altri Paesi del Mediterrano -quelli dell’area adriatica/balcanica, quelli nordafricani e quelli mediorientali- il bio cresce, sempre in funzione delle esportazioni. La Grecia è il secondo Paese del Mediteraneo per numero di imprese bio. In Albania, che pure è ancora agli albori dell’agricoltura biologica, le esportazioni di prodotti sono cresciute del 25% in due anni, dal 2006 al 2008: olive, pomodori, angurie, patate e peperoni. Anche la Serbia ha avuto un simile incremento. La Siria si è ritagliata un suo spazio nella produzione ed esportazione di cotone bio, il Marocco con l’olio di argan. La Tunisia si è dotata di una legislazione apposita e di un piano di incentivi per sviluppare produzione ed esportazione. Egitto e Turchia sono tradizionali esportatori di frutta e verdura e non poche grandi aziende convenzionali stanno buttandosi sulla nicchia bio. Se dunque molti prodotti mediterranei vengono consumati nel Nord Europa, questo scambio rilancia alcune domande: fino a che punto rimane bio la frutta e verdura che viene importata da migliaia di chilometri di distanza? Anche il consumatore bio può abituarsi a mangiare i pomodori (o le arance) tutto l’anno, non tenendo conto delle naturali stagioni di maturazione? Ci si può concentrare solo sulle condizioni ambientali in cui frutta e verdure sono state coltivate, dimenticando le condizioni sociali dei lavoratori?
Paola Migliorini, agronoma, è responsabile del gruppo ricerca e sviluppo nel Mediterraneo di Ifoam, la federazione mondiale del biologico. Inoltre insegna all’università di Scienze gastronomiche di Bra in provincia di Cuneo, quella promossa da Slow Food, per intenderci.
Spiega: “La produzione dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo si avvantaggia non solo delle condizioni climatiche favorevoli ma anche della disponibilità di manodopera a un costo talmente basso da non reggere il confronto con quelli in Europa. Per esempio un operaio agricolo specializzato in Marocco o in Tunisia può ricevere un euro (o poco più) al giorno, mentre un lavoratore con la stessa qualifica in Italia può arrivare a riceverne 1.800 al mese. Dunque anche per questo vi sono imprenditori agricoli, sia locali sia europei, che hanno deciso di investire nella produzione di frutta e verdura bio nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo per poi esportarla, in particolare in Nord Europa.
È chiaro che contraddizioni ci sono e sono forti: inviare frutta e verdura biologica invece di privilegiare la produzione locale può risultare vantaggioso da un punto di vista economico e commerciale ma può trasformarsi in una maniera di intendere i prodotti bio assolutamente scollegata dagli stessi principi di base dell’agricoltura biologica. Da un lato il consumatore cerca i prodotti biologici al minor prezzo possibile e non si preoccupa troppo di come essi vengono trasportati fino al supermercato, oppure di migliorare condizioni di vita delle popolazioni locali. Dall’altro il nuovo regolamento europeo dell’agricoltura biologica, che ad esempio vieta gli ogm e gli antiparassitari chimici, non si occupa però degli aspetti sociali della produzione biologica. Il problema sta in un mercato dove si privilegia la tutela del consumatore e non anche i produttori, considerati nel loro contesto sociale oltre che ambientale”.
Nei Paesi europei non mediterranei la produzione di frutta e verdura bio in serra può essere una buona alternativa?
"Ho molti dubbi. In un sistema bio dove si riscaldano le serre (con il gasolio…) e dove si utilizzano molti input esterni -certo, biologici- e fertilizzanti rischiamo di aumentare sia i costi sia, magari indirettamente, la produzione di anidride carbonica. Dal mio punto di vista le vera alternativa è il consumo locale, che fra l’altro abbassa i costi di trasporto e di intermediazione”. Quanto conta la decisione da parte della grande distribuzione di inserire sempre più prodotti bio nei supermercati? “La grande distribuzione è determinante. All’inizio del 2000 a oggi il mercato del biologico è aumentato in Italia con tassi che si aggirano attorno al 20% annuo. In Europa settentrionale forse ancor più. Bisogna riconoscere che in pochi anni la grande distribuzione ha divulgato e diffuso l’abitudine a consumare bio più di quanto siano riusciti a fare i mercatini nei vent’anni precedenti. Si tratta di un successo imponente. Il problema è che la grande distribuzione tende ad avere come fornitori aziende medio-grandi, in grado di assicurare pezzature uguali e costanti, un rifornimento just-in-time. Le aziende bio in questi ultimi anni sono diventate sempre più grandi e più organizzate, hanno bisogno di imprenditori agricoli innovativi e qualificati, spesso giovani. Però questo tipo di aziende non cambiano la struttura socio-economica del mercato, e i piccoli agricoltori tendono ad uscire dal sistema. Perché l’azienda a ciclo chiuso e rivolta al mercato locale ha bisogno di un progetto diverso. I consumatori bio dovrebbero rifornirsi per quanto più possibile dai produttori locali, comprare solo prodotti di stagione e varietà locale e prodotti tipici. Oggi però sta succedendo qualcosa di interessante: i consumatori vanno dal contadino al mercato perché costa meno e perché dal contadino trovano il bio ‘vero’, stagionale e vicino. Le piccole aziende magari costituiscono una nicchia, ma non necessariamente elitaria. La crisi non ha tagliato quei produttori che hanno saputo mantenere un rapporto diretto con il consumatore”.
(Diego Marani)
I numeri del bio in Italia
In concomitanza con il boom del biologico, anche le leggi si sono aggiornate. Dal 1° gennaio 2009 sono entrati in vigore i cinque nuovi regolamenti europei che riguardano l’agricoltura biologica. Il logo comunitario diventerà obbligatorio però solo dopo il primo luglio 2010. Anche l’indicazione dell’origine geografica delle materie prime diventerà obbligatoria dal 1° luglio 2010: con “origine” si intende il luogo di coltivazione delle materie prime e non, ad esempio, il luogo di acquisto. Il consumatore potrà leggere sulle etichette “Italia”, oppure “Agricoltura Ue” o ancora "Agricoltura non Ue”. Nel caso in cui tutte le materie prime agricole siano provenienti da uno stesso Paese, si potrà indicarlo sulle etichette.
Nel frattempo anche il mercato interno dell’Italia si conferma in espansione. Con alcuni numeri, magari piccoli in termini assoluti, che indicano però una tendenza. Dal 2006 al 2008, ad esempio, le aziende bio che offrono la vendita diretta sono aumentate del 47%, passando da 1.324 a 1.943. Le mense scolastiche che decidono di utilizzare ingredienti bio sono aumentate del 20% ovvero da 658 a 791; i gruppi d’acquisto solidale del 66% (da 288 a 479). Questi numeri sono tratti da Tutto bio 2009, l’annuario del biologico curato da Achille Mingozzi e Rosa Maria Bertino per Egaf Edizioni. Secondo i dati della Coldiretti, quasi 8 milioni di italiani consumano abitualmente prodotti biologici (un aumento del 23% rispetto all’anno precedente) e il 70% dei consumatori avrebbe comprato occasionalmente prodotti bio. Le aziende agricole bio in Italia sono circa 50mila per un totale di oltre un milione di ettari coltivati. (dm)