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Referendum: ecco perché il quesito unico lede i diritti dei cittadini
Domande eterogenee senza una “matrice razionalmente unitaria” impediscono “risposte consapevoli ed univoche”. E “uno strumento essenziale di democrazia” come il referendum diventa un “distorto strumento di democrazia rappresentativa”. Sono parole della Corte costituzionale riferite a un precedente quesito referendario abrogativo. Un pool di avvocati punta a far valere questo principio anche per il referendum d’autunno
Il presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi, ospite giovedì 22 settembre in una trasmissione televisiva, ha già sventolato un foglio A4 che riporta il facsimile del quesito sulla scheda referendaria. Ai cittadini, entro l’autunno, verrà infatti chiesto di barrare “Sì” o “No” in calce alle “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”. Un quesito unico -frutto di una “riforma” a pacchetto che si discosta non poco dalla revisione parziale e puntuale immaginata dall’articolo 138 della Carta- e che rischia di comprimere “intollerabilmente” la “libertà di determinazione” di chi si reca alle urne. Ne è convinto l’avvocato Claudio Tani, del foro di Milano, che insieme ai colleghi Aldo Bozzi, Ilaria Tani ed Emilio Zecca (parte del pool che ha contribuito ad affossare il Porcellum, insieme a Felice Besostri), ha depositato presso il Tribunale di Milano una “domanda di accertamento” che punta a chiarire un aspetto centrale.
È legittimo chiedere ai cittadini di “volere ciò che si disvuole”, ponendoli di fronte a “quesiti che incorporino una pluralità di scelte su oggetti eterogenei”?
Stando alla Corte costituzionale, il giudice delle leggi, che gli autori del ricorso citano riportando ampi stralci di sentenze, no. Anzi, farlo, sempre secondo la Corte, sarebbe “improponibile”, perché a domande eterogenee “carenti di una matrice razionalmente unitaria” non possono corrispondere “risposte consapevoli ed univoche”. Cosa che trasformerebbe di fatto “uno strumento essenziale di democrazia” in un “distorto strumento di democrazia rappresentativa” (le parole sono sempre della Corte). Il paradosso è che la Consulta si era espressa in questo modo sul “voto bloccato” nel 1978 -e poi nel 1987- in merito a referendum “abrogativi” e non “costituzionali”. Ma per i promotori del ricorso nulla cambia, dal momento che il principio della libertà di voto di cui agli articoli 1 e 48 della Costituzione resta saldo per qualunque tipo di appuntamento referendario.
Intanto, il presidente del Consiglio -colui che ha formalmente presentato il testo di revisione al Senato nell’aprile 2014- sventola un quesito multiplo intitolato come la “macroriforma”; evidentemente, non conosce un precedente datato 1987. All’epoca, la Corte costituzionale si espresse su un quesito abrogativo unico che riguardava due oggetti diversi (nella revisione costituzionale sono addirittura cinque quelli indicati nel titolo). “Comprendendo tale articolo due materie distinte […], la richiesta preclude all’elettore che sia favorevole all’abrogazione di una solo fra le due ipotesi […] di operare una scelta fra esse, confondendolo, e di conseguenza incidendo sulla libertà del diritto di voto”. Le materie erano “caccia e pesca”.
La richiesta del gruppo di avvocati -come spiega Tani- punta a far dichiarare l’illegittimità costituzionale della “legge sul referendum” (352/1970) laddove non prevede la possibilità che l’Ufficio centrale -chiamato a verificare la “conformità” della chiamata al voto- possa invitare i promotori a separare i quesiti. Anche nel caso in cui la legge costituzionale fosse una sola.
Ma l’incognita principale è il tempo. Il 26 settembre sarà nota la data, compresa tra una forbice di 50 e 70 giorni. Per Tani, però, i margini affinché la Corte costituzionale possa esprimersi ci sono. “Noi sosteniamo che i termini previsti dalle legge 352 non siano perentori; quindi si potrebbe rinviare la consultazione. Troverei paradossale che per rispettare un termine si debba violentare la volontà degli elettori. Inoltre, un pronunciamento della Corte consentirebbe di andare incontro a quelle parti di opinione pubblica e della politica che non vogliono parteggiare per partito preso, liberandole dalla logica del voto plebiscitario”.
E se l’auspicio dell’avvocato Tani e degli autori del ricorso è un’ipotesi, l’uso strumentale del titolo della revisione è cosa certa. “Il linguaggio è un problema etico -riflette amaramente Tani-; è normale che si parta dal titolo della legge, ma a questo delirio di comprensione – indotto dalla confusione del linguaggio usato nella riforma – dovrebbe esserci un limite”.
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