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Se il razzismo non è più una notizia
Nel nostro Paese si moltiplicano episodi di intolleranza, discriminazione, aggressioni xenofobe. Ma il problema che si aggrava diventa normalità, e non è più un problema. Tocca a ciascuno contrastare la deriva. L’editoriale del direttore di Altreconomia, Pietro Raitano
Le regole fondamentali del giornalismo non sono particolarmente complesse. Una ad esempio dice che non si dovrebbero avere tesi da dimostrare, semmai fatti da mostrare. Un’altra, ancora più semplice, dice che l’essenza dell’informazione è dare notizie, ovvero fatti nuovi, novità. Qui e oggi noi contravveniamo a queste regole. Con una tesi e con fatti che non sono più notizie. Il primo episodio è di Monfalcone (GO), dove il Comune a luglio ha fissato -per le classi della scuola materna- un tetto per la presenza di bambini di origine straniera. Risultato: a settembre bambini bengalesi sono rimasti fuori da scuola. Il secondo episodio è avvenuto a Milano, dove sempre a settembre sono state vandalizzate le aule della “Scuola di cultura popolare” di via Bramantino, alla periferia Nord della città. Il collettivo che la gestisce si occupa di integrazione dei migranti. Il terzo episodio è avvenuto a Lodi. Centoventi (120!) bambini non sono andati a scuola per i primi tre giorni dell’anno scolastico perché le loro famiglie hanno deciso di protestare contro un regolamento del Comune, che di fatto obbliga le famiglie “non comunitarie” -anche se risiedono da decenni in Italia- a pagare la tariffa piena per scuolabus, mense e asili nido, a causa della richiesta di documenti prodotti nei Paesi di origine, difficilmente reperibili.
Questi tre episodi non sono “notizie” per due motivi: sono ampiamente noti e sono stati riportati dalla stampa; non sono affatto novità. E qui sta la tesi: il moltiplicarsi di episodi di intolleranza, discriminazione, vero e proprio razzismo, aggressioni xenofobe nel nostro Paese, anziché dare luogo a una seria analisi e magari a provvedimenti efficaci contro la deriva, ecco questo moltiplicarsi non fa più notizia. Il problema che si aggrava diventa normalità, e non è più un problema.
Nei giorni di protesta delle famiglie di Lodi alcuni bambini hanno mostrato dei cartelli -fogli di quaderno scritti coi pennarelli da bambini delle elementari, coi loro disegni e i loro colori-. Un cartello diceva: “Vogliamo andare a scuola”; un altro “Tutti sono uguali”. Su un altro ancora una bambina aveva scritto con un pennarello rosso: “Ho paura di non essere accettata”. Come siamo arrivati a tanto? Quale società tollera, anzi si disinteressa, a una paura del genere?
Secondo il think tank statunitense Pew Research siamo davvero il popolo meno tollerante dell’Europa occidentale. E secondo l’Istituto Cattaneo i cittadini italiani sono quelli che in Europa hanno la percezione più distorta dell’immigrazione, visto che i tre quarti ne sovrastimano la presenza. Ovviamente, all’aumentare dell’ostilità verso gli immigrati aumenta anche l’errore di valutazione rispetto alla quantità e qualità della loro presenza. E no, neanche queste sono notizie.
C’era un quarto cartello, a Lodi. C’era scritto “Perché questa legge?”. Ce lo siamo chiesti quando abbiamo presentato “Alla deriva” (il libro che abbiamo dedicato alle vicende dei migranti nel Mediterraneo e alla criminalizzazione di chi li soccorre) alla Camera dei Deputati. Ovvero uno dei luoghi dove il problema raccontato nel libro -la politica che abbandona vite per raccattare voti- si è generato. Abbiamo messo piede in un luogo che dovrebbe rappresentare i cittadini elettori, un luogo di “rappresentanza” e di delega di potere, e che invece ci è parso del tutto svuotato di autorevolezza e senso, schiacciato dall’invadenza di un governo che -dimenticando o ignorando i più semplici principi democratici- crede che chi ha la maggioranza possa decidere il bello e il cattivo tempo per cinque anni. E tutti gli altri che se ne stiano lì ad aspettare l’eventuale loro turno. Eppure quando ci si riempie la retorica del “popolo” ci si dovrebbe ricordare come “il popolo” sia democraticamente rappresentato proprio dal Parlamento, unica istituzione che dal “popolo” direttamente discende.
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