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Ambiente

Questione di gap…

Un workshop a Bonn, in occasione di una delle tappe intermedie del negoziato sul clima, fa emergere in tutta la sua serietà il problema del divario tra i desiderata e la cruda realtà. Anche se gli impegni presi a Cancun venissero rispettati, il rischio è di sforare rispetto ai limiti richiesti dalla scienza. Ci vorrebbe più ambizione, ma fino ad oggi quella che non manca è solo la creatività, come la proposta, tutta statunitense, di una "responsabilità futura" delle emissioni

“Options and Ways for Enhancing Mitigation Ambition and Possible Further Actions”. È il titolo, lungo ed adeguatamente oscuro, di un seminario che si è svolto lo scorso 21 maggio a Bonn, in occasione della "Bonn Climate Change Conference" una delle tappe istituzionali di avvicinamento alla prossima Conferenza delle Parti Onu sul clima, in programma a fine novembre a Doha, nel Qatar.
Per l’occasione, il Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) e l’International Energy Agency (IEA) hanno diffuso le ultime informazioni sull’ampiezza del divario tra le azioni richieste per mettere mano al disastro climatico e quello che effettivamente si sta facendo, e sulla necessità di colmarlo in tempi ragionevoli. Il riferimento diretto è alla necessaria ambizione di raggiungere l’obiettivo entro il 2020, una motivazione che è sembrata mancare nelle ultime sessioni della Conferenza delle Parti dell’Onu.
Joseph Alcamo, Chief Scientist dell’UNEP, ha evidenziato l’estrema difficoltà di rispettare il limite massimo di un aumento medio della temperatura globale di 1.5°C – 2°C sopra i livelli pre-industriali, se l’asticella dell’ambizione non viene radicalmente alzata nei prossimi anni.  Questo perchè tra quello che sarebbe necessario fare e quello che è stato deciso a Cancun nel dicembre 2010 durante la COP16 (se rispettato) rimangono dai 6 agli 11 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente in eccesso. E tutto questo nonostante gli avanzamenti tecnologici sia nel campo dei trasporti che della produzione elettrica, che permettono di consumare meno energia e di emettere meno gas. Perchè quello che manca è la volontà politica, come ha avuto modo di ricordare Jan Minx, coordinatore tecnico del 3 Gruppo di Lavoro dell’IPCC, che sta lavorando alla preparazione del prossimo rapporto del Panel, il quinto, che sarà pronto nel prossimo futuro. E in tutto questo, che dicono i due maggiori inquinatori?
La Cina, per bocca del suo rappresentante Zou Ji, ritiene che i Paesi industrializzati, quelli inseriti nell’Annesso 1 del Protocollo di Kyoto e che quindi hanno obblighi di riduzione delle emissioni, non stiano facendo il loro dovere. E che buona parte del contributo al taglio delle emissioni sia in realtà derivato dalla crisi economica, che ha abbattuto la produttività, e all’innovazione tecnologica. Ma quello che rimane al centro del problema, secondo Zou Ji, è il modello di consumo occidentale, che sta arrivando anche nei Paesi emergenti in modo "imitativo".
Ma la novità arriva dagli Stati Uniti e dal loro rappresentante Jonathan Pershing, che oppone al concetto di "responsabilità storica" quello di "responsabilità futura". "La storia di domani è l’azione di oggi e dobbiamo agire immediatamente" ha esclamato, focalizzando sulla necessità di avere maggiore trasparenza ed un sistema internazionale di monitoraggio e verifica
del rispetto degli impegni assunti. Per poter fronteggiare il cambiamento climatico, ha sottolineato Pershing, è possibile muoversi anche fuori dalla Convenzione Onu, lavorando ad esempio con l’International Civil Aviation Organization (ICAO) e l’International Maritime Organization (IMO). E azzerando, di fatto, i sussidi ai combustibili fossili. Ma di cambio di paradigma non se ne parla.
E considerato che tra poche settimane Rio+20 dovrebbe porre le basi del "futuro che vorremmo" la prospettiva rischia di essere sconfortante.

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