Economia
Quanto pesa ancora il debito – Ae 64
Numero 64, settembre 2005 Un bilancio dopo anni di campagne: 18 miliardi di dollari condonati a 18 fra i Paesi più poveri del pianeta. Troppo poco di fronte a una montagna di debiti di 2.597 miliardi di dollari Di quella…
Numero 64, settembre 2005
Un bilancio dopo anni di campagne: 18 miliardi di dollari condonati a 18 fra i Paesi più poveri del pianeta. Troppo poco di fronte a una montagna di debiti di 2.597 miliardi di dollari
Di quella pietra al collo che è il debito estero dei Paesi poveri, finora siamo riusciti solo a scalfire qualche frammento. Il grosso però rimane, pesa e fa male.
Bastano poche cifre per farsi un’idea: a fronte dei circa 18,3 miliardi di dollari di debito cancellati a 18 fra i Paesi più poveri del pianeta, l’ammontare del debito che ancora pesa su altri Paesi a basso e medio reddito è di ben 2.597 miliardi di dollari, e il servizio del debito (cioè la restituzione del capitale più gli interessi) nel 2004 è stato di 373 miliardi di dollari.
Per fare un paragone, nello stesso anno i 30 Paesi industrializzati dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo), hanno destinato in aiuti allo sviluppo 78 miliardi di dollari.
Ovvero: sono più i soldi che i Paesi poveri versano ai Paesi ricchi per ripagare il debito, rispetto a quanto i secondi destinano alla lotta alla povertà.
A distanza di cinque anni dalla vasta mobilitazione internazionale per la cancellazione del debito, si può certo affermare che qualcosa è stato fatto. Ma è ancora poco. In questi anni i governi dei Paesi creditori e le istituzioni finanziarie internazionali (Banca mondiale e Fondo monetario internazionale), hanno avviato un percorso per la riduzione del debito estero per i Paesi cosiddetti Hipc (Heavily Indebted Poor Countries, Paesi poveri altamente indebitati). Sono i 38 Paesi per i quali le istituzioni finanziarie internazionali ritengono che il debito sia “insostenibile”.
Il debito è considerato insostenibile quando il Paese ha un reddito pro capite intorno ai 2 dollari al giorno e un debito estero che è pari al 100/150 per cento del valore delle esportazioni. In altri termini, quando le condizioni di vita di buona parte della popolazione sono al limite della sopravvivenza, e quella parte di entrate dello Stato derivante dalle esportazioni è di gran lunga inferiore a quanto esso deve sborsare per pagare il debito.
L’obiettivo di questo percorso predisposto da istituzioni finanziarie e Paesi creditori è quello di riportare il debito di questi 38 Stati ad un livello sostenibile. Questo comporta per i Paesi Hipc l’assunzione di alcune riforme economiche (come apertura dei mercati e privatizzazioni) e l’adozione di un “Piano strategico” di riduzione della povertà. È previsto che complessivamente a questi Paesi, una volta completato il percorso, venga rimesso circa il 51% del debito. Si tratta sia di debiti multilaterali (cioè verso Banca mondiale e Fondo monetario internazionale) che di debiti bilaterali (verso singoli Paesi). Il valore della riduzione è in totale intorno ai 32 miliardi di dollari (ai quali dovrebbero sommarsi i 17 miliardi promessi dai G8 a luglio, vedi pagina 11).
Ad oggi, 18 Paesi (Benin, Bolivia, Burkina Faso, Etiopia, Ghana, Guyana, Honduras, Madagascar, Mali, Mauritania, Mozambico, Nicaragua, Niger, Rwanda, Senegal, Tanzania Uganda) hanno completato il percorso e altri 9 lo stanno percorrendo. Per gli altri 11 si è in una fase di stallo, in quanto non sono stati finora in grado di sottostare alle condizioni richieste.
Uno dei limiti più grossi di tutta l’operazione Hipc è che non ha coinvolto tanti altri Paesi poveri e quelli a medio reddito, come per esempio la Nigeria (vedi pagina 13). Sono Paesi che hanno un debito meno pesante, ma le condizioni di vita delle fasce più povere non sono tutelate. Anzi il peso del debito si ripercuote soprattutto sul budget statale nei settori della sanità, della scuola, dell’assistenza sociale, e a farne le spese sono proprio i più poveri.
Ma torniamo ai 18 Paesi per i quali una riduzione del debito è stata fatta.
Che beneficio ne hanno tratto i poveri?
È difficile dirlo, poiché non sono stati fatti studi specifici.
Nel volume “Impegni di Giustizia. Rapporto sul debito 2000-2005”, curato dalla Fondazione Giustizia e Solidarietà e pubblicato dalla Emi, viene analizzata la spesa sociale di questi 18 Paesi a partire dal 1999. “Guardando questi dati -si legge nel Rapporto- la situazione sembra incoraggiante, poiché la spesa per la lotta alla povertà appare significativamente incrementata”.
Tutto bene dunque? Non proprio: “Per una giusta valutazione di tali incrementi -sottolineano i ricercatori- è di fondamentale importanza legare questo aspetto della spesa sociale alla effettiva situazione del Paese. Purtroppo aumenti anche consistenti rispetto alla situazione precedente rimangono largamente inadeguati alla realtà sociale dei Paesi e possono quindi rivelarsi non sufficienti per incidere sui problemi reali”. In altri termini, la riduzione del debito ha certamente permesso di destinare delle risorse alla lotta alla povertà (in particolare nel campo della salute e dell’educazione), ma ci vuol ben altro per cambiare la vita di milioni di persone povere.
Purtroppo però, denunciano i ricercatori, “non si trova una disponibilità della maggioranza dei creditori a fornire risorse finanziarie addizionali, nonostante gli appelli non solo della società civile e dei governi dei Paesi debitori, ma anche delle stesse istituzioni finanziarie internazionali”. Quando nel 2000 in tutto il mondo milioni di persone si mobilitarono per chiedere la cancellazione del debito, l’obiettivo non era tanto quello di ridurre le cifre o di mettere a posto i conti dei bilanci dei vari Paesi indebitati. L’obiettivo era la lotta alla povertà. Un obiettivo raggiungibile se si cancellerà il debito e, insieme, la comunità internazionale sarà disposta a spendere qualcosa in più per l’aiuto allo sviluppo.Tutti i documenti in un cd rom
Presentazioni, schede, documenti, tabelle e immagini sul tema del debito estero. È quanto contiene il cd rom allegato a questo numero di Ae, realizzato dalla Fondazione Giustizia e Solidarietà, l’organismo creato dalla Conferenza episcopale italiana per dare seguito alla Campagna per la cancellazione del debito promossa dalla Chiesa italiana durante il Giubileo dell’anno 2000. Il cd contiene una serie di documenti che, in maniera chiara, raccontano l’origine del debito dei Paesi poveri, la situazione internazionale, l’iniziativa di cancellazione italiana e quella Hipc, fino alle ultimissime iniziative del G8 in Scozia. Inoltre ci sono i documenti che hanno portato all’iniziativa ecclesiale di conversione del debito.
Per info: www.giustiziaesolidarieta.it
E i grandi promettono altri 40 miliardi (ma in realtà sono 17)
Nel giugno scorso i ministri finanziari dei 7 Paesi più industrializzati hanno annunciato con enfasi la decisione di voler cancellare totalmente il debito estero. Almeno così si poteva capire leggendo i titoli dei quotidiani. La realtà è un po’ diversa. La decisione dei ministri finanziari, recepita in luglio dai capi di Stato del G8 riuniti in Scozia (foto), riguarda infatti solo 18 Paesi, i cosiddetti High Indebted Poor Countries. L’ammontare annunciato era di 40 miliardi di dollari, cifra che però si riferisce solo al valore all’origine del debito. La cifra effettiva, tenuto conto di nuovi accordi fra debitori e creditori, è invece più bassa: 17 miliardi. Per i 18 Paesi interessati vorrebbe dire un risparmio di circa 1 miliardo e mezzo di dollari all’anno, fra interessi e restituzione del capitale. Questa cifra si somma a quella già prevista. I ministri finanziari hanno quindi deciso di cancellare ulteriormente il debito rimasto, limitandosi però a quello multilaterale, ossia verso la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e la Banca africana per lo sviluppo. Il debito verso altri singoli Paesi pertanto rimane.
Tenete d’occhio la Sace
Poco conosciuta dall’opinione pubblica, ma strategica per le imprese italiane che vogliono lavorare all’estero.
È la Sace (Servizi assicurativi del commercio estero), una spa il cui capitale (7,8 miliardi di euro) è interamente detenuto dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Il suo compito è quello di assicurare le imprese italiane contro “i rischi politici e commerciali” nei quali possono incappare all’estero. Importante per le imprese, ma importante anche per il bilancio dello Stato visto che dei crediti vantati dall’Italia verso i Paesi in via di sviluppo (cioè il debito che si chiede di cancellare, circa 17 miliardi di euro in totale) un terzo sono commerciali Sace. Questo perché quando un cliente straniero, privato o pubblico, che ha commissionato a una impresa italiana assicurata un lavoro non lo paga, la Sace -e quindi lo Stato italiano- indennizza l’impresa italiana e subentra come creditrice.
Il bilancio 2004 della Sace si è chiuso con un volume di attività assicurate pari a 5,2 miliardi di euro, e un utile netto di 268 milioni di euro. www.sace.it
Ma diminuiscono gli aiuti allo sviluppo
L’Italia cancella
L’Italia si distingue dagli altri Paesi ricchi, almeno in tema di debito estero. Siamo infatti l’unico Paese che ha una legge, la 209 del 2000 (approvata all’unanimità dal Parlamento), che l’impegna ad avviare operazioni di cancellazione del debito che i Paesi in via di sviluppo hanno nei nostri confronti. L’articolo 1 è chiarissimo: “I crediti vantati dallo Stato italiano sono annullati”. Due le condizioni perché la cancellazione sia effettiva: che le risorse liberate e non più dovute all’Italia siano impiegate nella lotta alla povertà e che il Paese interessato non sia in guerra.
Difficile dire quanto l’Italia vanti complessivamente nei confronti dei Paesi debitori: un dato ufficiale non esiste. La Fondazione Giustizia e Solidarietà ha provato a ricostruirlo attingendo a diverse fonti e ha stimato che la cifra era nel 1998 di circa 33 mila miliardi delle vecchie lire. In particolare 11 mila miliardi sono crediti d’aiuto, cioè prestiti concessi a tassi particolarmente agevolati nell’ambito della cooperazione fra due Paesi, mentre 22 mila miliardi riguardano il credito commerciale, ossia quello originato dalle transazioni commerciali tra un governo e un’impresa italiana assicurata presso la Sace (vedi box nella pagina accanto).
La cancellazione del debito dei singoli Paesi è resa possibile grazie alla firma di accordi specifici. In questi cinque anni l’Italia ne ha siglati 13 che hanno portato alla cancellazione di tutti i debiti che questi Paesi avevano nei nostri confronti. I Paesi sono: Benin, Bolivia, Burkina Faso, Etiopia, Ghana, Madagascar, Mali, Mauritania, Mozambico, Nicaragua, Senegal, Tanzania e Uganda. Gli importi sono nella tabella.
Vi sono poi altri 11 Paesi per i quali le trattative sono in corso e accordi parziali sono già stati siglati: Camerun, Ciad, Repubblica democratica del Congo, Guinea Bissau, Honduras, Malawi, Sierra Leone, Zambia, Guinea (Conakry), Burundi e Costa d’Avorio. Complessivamente si tratta di circa 2 miliardi di dollari. Questi Paesi sono a basso reddito. Ma l’Italia ha siglato accordi di cancellazione del debito anche con Paesi a medio reddito come Perù, Ecuador, Egitto, Marocco, Giordania, Filippine, Algeria e Tunisia.
I problemi non mancano. In primo luogo perché il regolamento di attuazione della legge 209 ha ristretto il campo di applicazione. Infatti subordina ogni cancellazione al consenso degli altri Paesi creditori, riuniti nel cosiddetto Club di Parigi (vi fanno parte Austria, Australia, Belgio, Gran Bretagna, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Giappone, Olanda, Norvegia, Russia, Spagna, Svezia, Svizzera e Stati Uniti). L’Italia quindi sta cancellando il debito solo di quei Paesi per i quali i creditori sono già d’accordo per una riduzione del debito: in altri termini, ancora una volta i Paesi Hipc. La legge del 2000 invece non legava l’Italia al comportamento degli altri creditori.
Il secondo problema riguarda il controllo da parte delle autorità italiane sulla destinazione delle risorse liberate. Il governo italiano, e in particolare il ministero degli Affari Esteri, non ha gli strumenti per controllare che il Paese al quale è stato cancellato il debito destini e utilizzi le risorse liberate per la sanità, l’educazione, il sostegno ai contadini e quanto possa servire per sradicare la povertà. Una soluzione potrebbe essere affidare alla società civile dei singoli Stati, magari col sostegno di quella italiana, il monitoraggio della destinazione delle risorse liberate a progetti di sviluppo. Ultimo problema: l’Italia tende a considerare la cancellazione del debito come parte di quel già striminzito 0,15 % del Pil che destina all’aiuto allo sviluppo. Questo comporta che più debiti cancella, meno risorse arrivano a progetti di cooperazione nei Paesi in via di sviluppo.Nigeria, fine (forse) della beffa
36 miliardi di dollari. Tanto deve ai suoi creditori la Nigeria, uno dei Paesi per i quali la cancellazione del debito estero -poiché considerato “sostenibile”- non era presa in considerazione.
A fine giugno la promessa: il debito verrà cancellato. Staremo a vedere. La presunta sostenibilità del debito nigeriano veniva affermata dal Club di Parigi (che vanta l’85% dei crediti), Fondo monetario internazionale e Banca mondiale sulla base della grande disponibilità di risorse petrolifere dello Stato. In realtà il petrolio non rende ricco questo Paese: il valore pro-capite che ne deriva è di soli 50 centesimi di dollaro al giorno. Il resto va alle solite multinazionali. Il problema era che la Nigeria non ha sinora rispettato alcune delle condizioni ritenute “indispensabili” per la cancellazione, ovvero programmi economici accordati con il Fondo monetario e la Banca mondiale. Per “sostenere” tale debito la Nigeria (che ripaga in servizio del debito sei volte quello che riceve in aiuti umanitari) sottrae risorse per aiutare una popolazione (un quinto del totale del continente africano) che per il 70% (93 milioni di persone) vive sotto la soglia della povertà, per il 90% “se la cava” con meno di due dollari al giorno e nella quale 79.500 bambini sotto i 5 anni muoiono ogni mese.
La cancellazione (o almeno la riduzione) del debito nigeriano, se confermata, sarà un successo del lavoro di sensibilizzazione della campagna internazionale New Start Nigeria, coordinata dall’organizzazione Advocacy International il cui direttore, Ann Pettifor, ha fondato e diretto Jubilee 2000 in Gran Bretagna. www.newstartnigeria.org (es)