Economia / Opinioni
La macchina dello Stato e le promesse elettorali. È giunta l’ora dei conti
La spesa annuale dei ministeri (92 miliardi di euro), unita agli intessi sul debito (78,5 miliardi), limita la possibilità di immaginare riforme radicali. Ecco perché, chiunque governerà, dovrebbe tornare a parlare di coperture reali piuttosto che di nuove spese finanziate da entrate virtuali. Il commento di Alessandro Volpi
Chiunque governerà nei prossimi mesi dovrà fare i conti, prima ancora che con la realizzazione delle proprie costose promesse elettorali, con l’esigenza di trovare le risorse per finanziare la macchina dello Stato, i cui costi sono rimasti decisamente pesanti nonostante le rilevanti azioni mirate alla spending review, avviate a partire dal governo Monti.
Dovrà, in altre parole, misurarsi con quei vincoli di natura strutturale spesso trascurati in campagna elettorale e ora destinati a riemergere nella loro crudezza.
Lo Stato italiano costa infatti poco meno di 540 miliardi di euro l’anno, di cui, secondo i calcoli della Ragioneria centrale, quasi 350 sono costituiti dai “costi dislocati”, una voce un po’ oscura che comprende soprattutto i trasferimenti dallo Stato centrale ad altri enti; il nocciolo duro di tali trasferimenti è rappresentato da quelli indirizzati alle Regioni, pari a 111 miliardi, in larghissima parte rivolti al finanziamento della sanità pubblica, e quelli destinati agli enti di previdenza, molto vicini ai 122 miliardi annui. Nella sostanza, queste due voci formano l’ossatura portante della cospicua spesa sociale del nostro Paese. Di minore incidenza sul totale risultano i trasferimenti ai Comuni e alle Provincie, peraltro in forte contrazione negli ultimi anni, pari ora a poco più di 11 miliardi, quelli rivolti alle famiglie e alle istituzioni sociali private, che superano appena i 17 miliardi, e quelli alle imprese, ormai fermi a 8 miliardi di euro. Ancora più contenuti sono i trasferimenti alle Università, congelati a 7,3 miliardi. Dopo l’insieme di questi “costi dislocati”, la macchina dello Stato registra un pesante esborso annuo di quasi 92 miliardi di euro per il costo dei ministeri; una spesa davvero significativa che si compone per circa 79 miliardi del costo del personale e per 7,5 miliardi dei costi di gestione, a cui devono essere aggiunti i costi straordinari e gli ammortamenti. È interessante rilevare che tra le sub-voci di questo complesso di spese ministeriali, cresciute dagli 88,48 miliardi del 2014, figurano 1,2 miliardi di euro in consulenze, 836 milioni per noleggi, leasing e locazioni e 149 milioni di euro per gli acquisti di carta e cancelleria.
In ordine di grandezza la terza componente dei costi dello Stato, dopo i trasferimenti e le spese ministeriali, è rintracciabile nella spesa per gli interessi sul debito pubblico che continua a gravare sui conti italiani per 78,5 miliardi, nonostante la grande liquidità fornita dalla Bce e la parziale ristrutturazione del debito che sta avvenendo in maniera indolore grazie alla sostituzione di vecchi titoli più costosi con nuovi titoli a tassi negativi.
Alla luce di simili dati appare evidente che il finanziamento dei costi dello Stato italiano non è affatto banale perché deve coprire diverse voci rigide, come nel caso del costo del personale dei ministeri e degli altri enti, e altre voci che incidono direttamente sulla qualità della vita dei cittadini di questo Paese, a partire dalla sanità e dalla previdenza; si tratta di spese, dunque, che hanno a che fare con la tutela dei diritti. Esiste poi la variabile degli interessi sul debito pubblico che resteranno alti fino a quando il debito non scenderà e che dipendono, nelle loro oscillazioni, dalla credibilità del Paese, dalla politica monetaria della Bce e dalla possibilità per il sistema bancario di continuare a sostenere gli acquisti; tre condizioni attualmente per nulla scontate.
Certo colpisce che, pur in una fase di politica monetaria espansiva, le risorse pubbliche impiegate per pagare gli interessi siano dieci volte maggiori di quelle destinate alle Università e di poco inferiori a tutta la spesa sanitaria nazionale. Come accennato in apertura, i cosiddetti vincoli strutturali della macchina dello Stato sono quindi destinati ad obbligare le forze politiche a rivedere una parte non trascurabile delle loro ipotesi programmatiche per concepire leggi finanziarie in grado di tenere in piedi un sistema ancora molto costoso. Forse bisognerà provare seriamente ad aggredire alla radice la spesa dei ministeri che resta più alta di quella di altri Paesi europei e che, unita agli intessi sul debito, limita la possibilità di immaginare riforme radicali sia sul versante fiscale sia su quello del reddito di cittadinanza. In altre parole, bisognerebbe tornare a parlare di coperture reali piuttosto che di nuove spese finanziate da entrate virtuali. Il primo banco di prova, del resto, è vicino perché un governo scaduto dovrà provare a concepire un Documento di programmazione economica e finanziaria (Def) credibile in Europa. Una situazione davvero complessa.
Università di Pisa
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