Economia / Opinioni
Progressività e sostenibilità del sistema fiscale sono a rischio
Oggi il carico fiscale grava su fasce ristrette di contribuenti, occorre intervenire per mantenere in futuro il gettito necessario al Paese. La rubrica di Alessandro Volpi
Esistono due questioni chiare rispetto al tema delle tasse in Italia: progressività e sostenibilità. Il sistema fiscale ha una base imponibile talmente ridotta da rendere la progressività inapplicabile se non a danno dei redditi da lavoro e da pensione. Attualmente le entrate tributarie dipendono troppo dall’Irpef che viene pagata praticamente solo da lavoratori dipendenti e pensionati.
L’evoluzione storica delle imposte è molto chiara in tal senso. Nel corso del tempo dall’Irpef -che già non contemplava i redditi da capitale e da fabbricati- sono state escluse numerose fonti di reddito, così come è avvenuto per l’Irap che ha finito per gravare come l’Irpef, di fatto, sugli stessi soggetti, peraltro con aliquote ridotte. Considerazioni analoghe valgono per le addizionali comunali dell’Irpef. Al di fuori dei redditi da lavoro e da pensione sono moltiplicate le cedolari secche e le flat tax e continua la pressoché totale esenzione fiscale per le piattaforme digitali.
Nel contempo, i redditi da lavoro e da pensione sono penalizzati sul versante della spesa sociale perché l’applicazione di una progressività distorta fa sì che paghino spesso per prestazioni che non ricevono, mentre tutte le altre forme di reddito ricevono prestazioni che, in larghissima parte, non pagano. In sintesi, se non si cambia la base imponibile ampliandola a tutti i redditi (non solo a quelli da lavoro) la progressività è lo strumento per impoverire la platea sociale che oggi regge la gran parte della spesa pubblica finanziata con le imposte.
Sono 23 milioni gli occupati in Italia. Di questi, cinque milioni sono lavoratori autonomi e 3,2 sono dipendenti a termine
In merito alla sostenibilità i dati sono altrettanto chiari. Gli occupati sono scesi sotto i 23 milioni, un dato decisamente inferiore a quello di altri Paesi europei. Di questi 23 milioni, i lavoratori autonomi sono circa cinque milioni, mentre tra i dipendenti hanno un contratto a termine in 3,2 milioni; inoltre più della metà dei nuovi occupati rientra in quest’ultimo gruppo. Se questi dati si traducono in simulazioni fiscali emergono tutte le difficoltà a mantenere il gettito fiscale necessario alla vita del Paese.
Secondo gli ultimi dati dei circa 40 milioni di contribuenti, una ventina sono lavoratori dipendenti che versano in termini di Irpef circa 90 miliardi di euro su un totale di 150. Di questi 90 miliardi, quasi il 40% dei contribuenti, tuttavia, non versa nulla. In altre parole, i redditi più bassi non pagano: se dunque l’occupazione si sposta verso questi ultimi, con retribuzioni insufficienti, il carico fiscale si concentra ancora di più su una fascia troppo limitata di popolazione. E pur alzando l’aliquota massima -come sarebbe auspicabile- la tenuta dell’intero sistema si complica molto.
Ancora più critica è la situazione in relazione al lavoro autonomo. Dei cinque milioni di autonomi quelli che risultano titolari di un reddito attivo sono circa 1,8 milioni, ma in questo caso, ancor più che in quello dei lavoratori dipendenti, il numero dei contribuenti “reali” è concentrato: il 48% dei lavoratori autonomi paga il 95% del gettito dell’intera categoria.
A questo quadro grave si aggiungono due elementi. Il primo riguarda i pensionati: sono circa 16 milioni, di cui i contribuenti sono circa 10 milioni, anche in questo caso con una forte concentrazione per cui il 54% dichiara il 93% di tutta l’Irpef pagata da questa categoria. Il secondo aspetto si riferisce al fatto che i “percettori di altri redditi”, tra cui i titolari di rendite finanziarie, sono circa quattro milioni, ma versano solo poco più di cinque miliardi di euro, pari al 3% circa del totale dell’imposta. Se non si interviene sulla struttura delle retribuzioni e sulla formazione di redditi, migliorandone la qualità e promuovendo una maggiore solidità diffusa, è sempre più difficile far funzionare il sistema fiscale come strumento di redistribuzione.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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