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Popolazione depressa – Ae 76
Nei prossimi vent’anni la popolazione italiana tra i 20 e i 40 anni diminuirà di oltre 5 milioni di persone. Chi nasce oggi dovrà forse sgomitare di meno per trovare un lavoro e per fare carriera, ma sicuramente dovrà inventarsi…
Nei prossimi vent’anni la popolazione italiana tra i 20 e i 40 anni diminuirà di oltre 5 milioni di persone. Chi nasce oggi dovrà forse sgomitare di meno per trovare un lavoro e per fare carriera, ma sicuramente dovrà inventarsi altri modi per sostenere diritti e welfare
Giochiamo con i numeri e proviamo a prevedere il futuro. Esercizio delicato in generale, ma c’è un futuro che è già inscritto nel presente, e quindi non troppo a rischio di smentite: è quello che riguarda l’andamento demografico della popolazione, il “quanti saremo” tra vent’anni. A meno di pandemie (la temuta influenza aviaria per esempio), sconvolgimenti climatici o drammatici eventi bellici che cambino il corso della storia, possiamo prevedere “come saremo” nel breve-medio periodo con sufficiente precisione. Nei prossimi venti anni gli italiani tra i 20 e i 40 anni diminuiranno di oltre 5 milioni e mezzo di persone: passeremo da quasi 17 a poco più di 11 milioni di persone. Un “tracollo” nella popolazione in età produttiva, quella più dinamica e aperta al futuro. Nel 2014, cioè tra 7 anni, praticamente domani, l’Italia avrà raggiunto il picco di questa sua fase storica e incomincerà a decrescere: oggi siamo 58,6 milioni di residenti (cittadini italiani e stranieri); diventeremo 59,2 milioni nel 2014 (anno di maggior picco) e scenderemo a 55,8 nel 2050. E questo nonostante i rilevanti flussi di immigrazione. Se non ci fossero immigrati il declino sarebbe iniziato molto prima, attorno al 1993, l’anno in cui il saldo naturale tra decessi e nascite è diventato negativo; da allora la forbice si è andata sempre più divaricando. Il Paese più vecchio del mondo, che è l’Italia, cambierà ancora volto. E sarà (anzi lo è già) “depressione demografica”, come la definisce Massimo Livi Bacci, uno dei massimi esperti italiani di demografia, cioè le generazioni non saranno più in grado di “sostituirsi” aritmeticamente l’una all’altra. E questo nonostante il fatto che le coppie abbiano ripreso a fare figli (dal 1995, anno di minimo storico per la fecondità nazionale, si è passati da 1,19 a 1,33 figli per donna) e ci sia la tendenza a non rimandare ulteriormente la prima maternità. “Stiamo passando -scriveva tempo fa Massimo Livi Bacci- da una società con abbondanza di risorse umane ad una, quella dei prossimi decenni, che dovrà sopravvivere e prosperare nella scarsità di queste risorse. Un mutamento che, a cascata, ne indurrà altri di notevole rilevanza”.
Questa è la situazione, e per i prossimi vent’anni non cambierà più di tanto. A meno di ricorrere a massicci flussi di immigrazione (oggi gli immigrati regolari sono 3 milioni e secondo le previsioni raddoppieranno nel giro di 10 anni grazie a nuovi ingressi, ricongiungimenti familiari e, soprattutto, nuove nascite) o di immaginare incredibili successi delle politiche di sostegno della famiglia (che in Italia però ancora latitano: nei Paesi scandinavi e in Francia il 12 per cento della spesa sociale va al sostegno a “famiglia e bimbi”; nei Paesi mediterranei la media è del 5 per cento, e di appena il 3,8 per cento in Italia).
Fare figli infatti costa: un bimbo assorbe in media il 10 per cento del reddito familiare quando ha un anno, il 20 per cento fino agli 11 anni, e anche il 35 per cento tra i 16 e i 18 anni, quando incomincia ad avere bisogni da età adulta.
Saremo di meno dunque, e potrebbe anche essere un’opportunità: forse i bimbi che nascono oggi dovranno sgomitare meno per trovare un lavoro, una casa, un parcheggio. Ma i cambiamenti demografici in atto ci mettono in grado di pensare a nuovi scenari molto più ampi rispetto a quelli legati solo al mercato del lavoro: l’ininterrotta crescita della popolazione italiana dall’unità a oggi (nel 1861 eravamo 26 milioni) ha messo a dura prova l’ambiente, ha in qualche misura esaurito il territorio e “stressato” le risorse; meno popolazione potrebbe quindi voler dire meno pressione sull’ambiente e meno inquinamento, nuovi usi del territorio (potremmo avere ampie zone del Paese che si spopolano), un’edilizia meno invasiva e più di riqualificazione, una scuola con un rapporto insegnati/alunni migliore.
Ma tutto questo non sarà automatico, anzi. Scrive ancora Livi Bacci: “È oramai opinione largamente condivisa che la bassa natalità costituisca ‘un problema’, perché rappresenta un freno alla produttività, un gravame sulle spalle delle future generazioni, una condizione generatrice di diseconomie esterne”.
Non sappiamo se crescita della popolazione e crescita dell’economia siano collegate. Quello che però possiamo osservare è che, nel corso degli ultimi due secoli, dopo la rivoluzione industriale, la crescita demografica in Occidente “non ha intralciato lo sviluppo economico, anzi qualche prova esiste che lo abbia favorito. Ci si potrebbe per esempio chiedere: gli Stati Uniti sarebbero leader del mondo se la loro crescita demografica fosse stata più modesta?”
Se saremo in meno a lavorare chi pagherà lo Stato sociale, a cominciare dalla salute (una popolazione che invecchia ha sempre più bisogno di cure e di farmaci), dalla scuola, dalle pensioni?
Faticheremo di più per mantenere i pensionati.
Questa è forse la parte più nota della vicenda demografica nel nostro Paese, l’invecchiamento della popolazione e lo squilibrio nella piramide delle età (per ogni quattordicenne ci sono già oggi 2,4 persone sopra i 65 anni e saranno 3 tra qualche anno), perché se ne parla continuamente soprattutto in relazione alla riforma del sistema pensionistico: pochi giovani attivi non potranno continuare a pagare le pensioni a tanti anziani usciti dal mondo del lavoro.
In Italia il rapporto tra giovani e anziani si è invertito negli anni Novanta; per avere un’idea di quanto il processo da noi sia stato rapido si pensi che in Francia questa inversione avverrà solo verso il 2015. Il che significa che l’Italia si trova immersa prima di molti altri Paesi, anche vicini, nei problemi di una società “nuova”.
I cambiamenti demografici in atto ci impongono di misurarci con il futuro: il welfare, ma forse anche il mercato (meno popolazione vuol dire anche meno consumatori), così come li abbiamo conosciuti dagli anni Settanta ad oggi, potrebbero cambiare e di molto. Se vorremo mantenere gli attuali diritti sociali, dovremo trovare un altro modo per finanziarli che non siano solo le tasse e le imposte.
Pensare il futuro è compito politico che presuppone la capacità di progettare sul medio-lungo periodo, e non soltanto in base agli interessi di una singola legislatura.
Eppure è proprio di questo che c’è bisogno: se per mettere mano alle pensioni non avessimo aspettato che il sistema fosse vicino all’implosione, all’inizio degli anni Novanta, forse oggi la soluzione sarebbe più vicina; l’innalzamento della vita media e l’invecchiamento della popolazione italiana erano trend già chiari a partire dalla fine degli anni Sessanta.
La depressione demografica non riguarda solo l’Italia (semmai noi ci siamo arrivati più rapidamente degli altri, e così facciamo anche un po’ da laboratorio); vale anche per l’Europa centrale e mediterranea (un po’ meno per quella del Nord) e rischia di essere devastante per le popolazioni dell’ex Urss e dell’ex blocco sovietico (dove, dopo il 1989, la durata media della vita è addirittura regredita). [pagebreak]
L’europa che decresce
Dopo oltre 200 anni di crescita ininterrotta, dal 2025 anche la popolazione dell’Europa dei 25 comincerà a diminuire. Anzi, se non fosse per i forti flussi migratori, l’inversione sarebbe più vicina, nel 2010, anno in cui il numero dei decessi supererà il numero delle nascite. Oggi la popolazione dell’Unione Europea è di 457 milioni di abitanti, sarà di 470 milioni nel 2025 ma di 450 milioni nel 2050. La popolazione attiva in età di lavoro (dai 14 ai 65 anni) diminuirà di 52 milioni di unità. Nonostante l’immigrazione l’Europa potrebbe andare incontro a una drastica mancanza di mano d’opera. Le più forti diminuzioni demografiche riguarderanno gli Stati della nuova Europa: nel 2004 la popolazione è già diminuita (per saldo naturale e per i flussi migratori) in Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia e Slovacchia. Nei prossimi anni comincerà a diminuire in Italia, Germania e Slovenia (2014), Portogallo (2018), Grecia (2020) e Spagna (2022) e, più in là, Regno Unito (2040) e Francia (2042). Continuerà a crescere solo in Irlanda, Cipro, Lussemburgo, Malta e Svezia. In termini assoluti i cambiamenti più forti riguarderanno la Germania (che nel 2050 perderà qualcosa come 8 milioni di abitanti), l’Italia (- 5,2 milioni) e la Polonia (- 4,5); cresceranno invece Francia (+ 5,8 milioni), Regno Unito (+ 4,7 milioni) e Irlanda (+ 1,5 milioni). Se oggi abbiamo due persone che lavorano per ogni persona inattiva (giovane o pensionato) nel 2050 avremo 4 persone in età di lavoro ogni 3 inattive.
Se guardiamo all’Europa continentale (e non soltanto all’Ue) le previsioni non sono diverse: da una popolazione odierna di 728 milioni di abitanti si scenderà nel 2050 a una popolazione di 653 milioni. Si configura così una definitiva perdita di centralità dell’Europa dal punto di vista demografico: alla vigilia della prima guerra mondiale, nonostante la forte emigrazione di quegli anni, si calcola che il 28 per cento della popolazione mondiale viveva nel nostro continente; questa percentuale nel 1950 era ancora del 23 per cento; nel 2000 però era scesa al 13 per cento e, in base alle previsioni della Nazioni Unite, sarà di appena il 7 per cento nel 2050. D’altra parte il continente europeo è andato velocemente verso una crescita zero e, per il futuro, come abbiamo visto, addirittura verso una crescita negativa. I Paesi extraeuropei invece hanno accelerato la crescita demografica. Dal 1950 al 2000 la popolazione mondiale è passata da poco più di 2,5 miliardi a 6 miliardi, e continua a crescere, anche se a ritmi sensibilmente rallentati (oggi siamo circa 6,5 miliardi). Attorno al 2070, quando la popolazione sarà di circa 9,5 miliardi, la curva dovrebbe invertirsi e anche la popolazione mondiale diminuire. E questo non per carestie o guerre (paventate da Malthus e dai neomalthusiani per ristabilire l’equilibrio tra popolazione e risorse) ma per le scelte riproduttive degli abitanti del pianeta.
La velocità del cambiamento dipenderà soprattutto dal Sud Est asiatico: se anche l’India avesse una flessione delle nascite pari a quella della Cina degli ultimi decenni, la diminuzione sarebbe più veloce.
Fino ad allora il pianeta ce la farà? Riuscirà a fornire le risorse e a sopportare l’impatto ambientale di una popolazione così ampia?
Già oggi il pianeta è in grado di produrre alimenti per soddisfare i bisogni alimentari del doppio della sua popolazione: la fame (come scriviamo anche nelle pagine precedenti) non dipende tanto dalla popolazione quanto dalla distribuzione della ricchezza. Restano invece le preoccupazioni per le conseguenze ambientali, le stesse che nel 1968 aveva indicato Paul Ehrlich, ecologo e studioso della popolazione, nel suo The population bomb che fece il giro del mondo e anticipò le tesi del Club di Roma.
Ma, da questo punto di vista, il problema principale non è la popolazione. È quanto consumano gli uomini, quanto inquinano e come distribuiscono le ricchezze. Come ha recentemente ricordato Francesco Billari, docente di Demografia e direttore del Centro per la ricerca sulle dinamiche sociali alla Bocconi di Milano, “se, a parità di popolazione, il reddito della Cina crescesse del 9 per cento l’anno ma le tecnologie produttive diventassero del 9 per cento meno inquinanti l’impatto ambientale non aumenterebbe”
Altro che Cina, occhio all’India
Nel 1950 (grafico a sinistra), tra i dieci Paesi più popolosi del mondo quattro erano europei: Urss, Germania, Regno Unito e Italia.
In mezzo secolo la situazione è molto cambiata (grafico qui accanto) e l’Italia è al 23° posto.
Di tutti questi, nel 2050, solo gli Stati Uniti rimarranno nel gruppo di testa (a conferma del declino demografico dell’Occidente).
Nel 1950 non c’erano Paesi africani tra i primi dieci, dopo un secolo potrebbero essercene tre: Nigeria, Repubblica Democratica del Congo ed Etiopia. L’India sarà in cima alla classifica, sorpassando la Cina, e il Pakistan potrebbe essere al 4° posto (era 13° nel 1950). L’Italia sarà al 34° posto.
Alcuni siti sulla popolazione: Il sito dell’Istituto di ricerca del Cnr: www.irpps.cnr.it
Le statistiche delle Nazioni Unite: www.esa.un.org/unpp/
Un’animazione molto bella è nel sito dell’Istituto francese sugli studi demografici da cui sono tratti i grafici di queste pagine: www.ined.fr/fr/tout_savoir_population/atlas_population/
In www.europa.eu la sezione di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea.
In www.ds.unifi.it/livi/ alcune pubblicazioni recenti di Massimo Livi Bacci