Ambiente / Opinioni
Il Piano di ripresa deve imparare dai muretti a secco
Le ricette preziose di resistenza e resilienza per il Paese risiedono nei tessuti dimenticati. Invece siamo ancora in balia dell’illusione metropolitana. La rubrica del prof. Paolo Pileri
Ci sono cose, a volte piccole cose, che riteniamo poco utili al futuro solo perché le abbiamo perse di vista o non appartengono più alla nostra vicenda quotidiana, sempre più urbana e standardizzata. Sono le cose che hanno ricamato l’intimità del nostro Paese più interno: pietre, sentieri, portici, vicoli, travi, mattoni, cascine, filari, prati, piazzette, campi, boschi, tornanti, colline, muretti a secco. Un ricamo delicato dal quale proveniamo, storicamente parlando, e che ci ha insegnato adattamento, resistenza e resilienza. Ma il nostro sguardo si è accorciato, segregato sempre più in una vita urbana dove l’abitare tende a coincidere con l’abitazione e l’abitazione con i suoi metri quadrati, la sua connessione wi-fi e il posto auto sotto casa. Un anno passato “dentro” potrebbe aver ancor più scolorito l’attualità di quel ricamo che sta là “fuori”.
Nel suo bel libro “Montagne di mezzo” Mauro Varotto (vedi Altreconomia 229) ci propone di leggere il disfacimento del nostro paesaggio attraverso l’incuria dei muretti in pietra che orlano da secoli balze e versanti del Paese, un tutt’uno con le copiose genti che vi abitavano e le poche ancora che restano. Ne parla come fossero figli smarriti di tutti noi. Anche di noi lontani residenti metropolitani. Se infatti quelle pietre oggi sono a pezzi è perché le città, con il loro modello di sviluppo e un fare da incuranti colonizzatrici, gli hanno voltato le spalle. Messi in fila, quei muretti fanno 300mila chilometri: 7,5 volte il giro attorno alla Terra. Depositi di fatica di generazioni, oggi la più parte è abbandonata di un abbandono non solo fisico ma culturale: abbiamo smesso di conoscerli e riconoscerli. Abbiamo lasciato che il bosco li soffocasse togliendoceli dalla vista e dalla coscienza civile. Di loro non ci sentiamo più responsabili e quindi, va da sé, non riteniamo di includerli a dovere nelle nostre politiche territoriali. Eppure basterebbe poco per ricordare che nell’alluvione del 2010 “l’85% delle grandi frane rilevate (nelle Cinque Terre) è avvenuto su terrazzamenti abbandonati ricoperti dal bosco”. A furia di stare “dentro”, non si è più capaci di trasformare quei gioielli là “fuori” in racconto pubblico, in visione politica.
Il 6,6% è il rapporto tra le risorse che il Piano di ripresa e resilienza destina alla riduzione del rischio idrogeologico per i prossimi cinque anni e la spesa che oggi dovremmo sostenere per realizzare i 300mila chilometri di muretti a secco che tengono sui versanti d’Italia (60 miliardi di euro). Non ci sono paragoni
Nessuno si scandalizza, quindi, se il Piano di ripresa e resilienza, che usa i soldi dei nostri nipoti, ricalca un’idea di futuro sul bordo dei bisogni delle città metropolitane. Senza dirlo, l’Italia è ridotta alle sue grandi città. Se rimane qualcosa, ci si occupa anche del resto. Ai residenti metropolitani andranno tanti milioni, altri andranno a chi, fuori dalle città, deve servirle, approvvigionarle e garantire che i metropolitani si spostino velocemente e comodamente tra due o più grandi città. Una rivoluzione verde non può generare nuovi divari e nel nostro Paese ha pure il dovere di essere a trazione locale e sito-specifica, prendendosi cura pragmaticamente di quella biodiversa intimità naturale e sociale -fatta di DNA resistente, resiliente e adattativo- senza la quale saremmo già crollati da tempo. Per questo se una rivoluzione verde dimentica la biodiversità o cita l’artigianato solo come merce per il turismo o non riconosce in un muretto a secco lo spunto per ripartire, è quantomeno una rivoluzione zoppa.
“Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione”, scrive Franco Arminio. Un’attenzione da riservare proprio a quell’intimità fragile che viene sostituita -e non se ne può più- da una premura amministrativa per la crescita. Beato il Paese che ascolta i suoi poeti.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)
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