Permesso di monopolio – Ae 81
Il rinnovo dei permessi di soggiorno è stato affidato a Poste italiane. Un affare da 70-80 milioni di euro l’anno, senza gara. Ma, oltre ad avere annullato anni di buone pratiche con i Comuni, il sistema si è incagliato. Com’era…
Il rinnovo dei permessi di soggiorno è stato affidato a Poste italiane. Un affare da 70-80 milioni di euro l’anno, senza gara. Ma, oltre ad avere annullato anni di buone pratiche con i Comuni, il sistema si è incagliato. Com’era prevedibile
Eliminare le file e accorciare i tempi di rilascio del permesso di soggiorno (che diventerà elettronico, come una moderna carta di credito): era questo, in teoria, l’obiettivo da cogliere affidando alle Poste il servizio di rinnovo dei documenti ai cittadini stranieri (3 milioni di persone in tutta Italia). La nuova procedura è partita l’11 dicembre ma la Zecca dello Stato, che dovrebbe emettere i nuovi permessi di soggiorno elettronici, non ne ha stampato neanche uno. Il meccanismo si è inceppato.
A distanza di oltre due mesi dall’avvio, la questura di Milano, uno dei territori a più alta densità di immigrati, ha ricevuto meno di venti pratiche e nessuna è arrivata al termine dell’iter. A metà febbraio non era stato rinnovato nemmeno uno dei 265 mila permessi di soggiorno dei residenti stranieri in provincia di Milano. Si tenga conto che l’anno scorso i permessi rinnovati erano stati 159 mila, l’anno precedente 180 mila.
Del tutto simile la situazione nelle altre questure d’Italia.
Da queste cifre si capisce bene che si rischia la paralisi, con problemi enormi: un immigrato senza permesso di soggiorno non può stipulare un contratto di lavoro, affittare un immobile, iscrivere i figli a scuola, ricevere assistenza sanitaria, tornare al Paese d’origine per le vacanze o per un lutto. Una situazione drammatica e paradossale alle stesso tempo: la procedura messa in piedi per eliminare le file di extracomunitari davanti alle questure d’Italia ha creato un enorme, incredibile ingorgo cartaceo e burocratico.
Intanto gli immigrati pagano conti salati e le Poste sono le uniche a guadagnarci. Per legge.
Dall’11 dicembre scorso gli immigrati per il rinnovo dei loro documenti devono rivolgersi non più alle questure ma agli uffici postali (14 mila quelli abilitati a distribuire il kit con i documenti da compilare, 5 mila quelli abilitati a ritirarli).
Costo dell’operazione per l’immigrato: 30 euro. Una cifra che qualcuno ha definito immorale (spedire un’assicurata di pari peso costa 5,75 euro) ma che non si discute, perché stabilita da un decreto del 2005 firmato dall’allora ministro dell’Interno Pisanu. Complessivamente si stima che la procedura porti a Poste italiane un giro d’affari di circa 75-80 milioni di euro l’anno. Un bell’affare, non c’è dubbio. Perché i costi gravano interamente sugli utenti, e in giro non ci sono concorrenti. Con una convenzione il servizio è stato affidato dal Viminale in esclusiva a Poste italiane spa.
La mancanza di un bando di gara ha suscitato non poche perplessità. Da un lato molti sottolineano l’inutilità di un nuovo soggetto nella catena burocratica; dall’altro ci sarebbero stati buoni motivi per affidare ai Comuni, così come avviene in molti Paesi, le procedure di rinnovo: in questo modo si sarebbero ottenuti efficienza e un legame diretto con i servizi di cittadinanza sul territorio. Così invece si è consegnato a Poste italiane un segmento di mercato, quello degli stranieri, sempre più importante: tutti potenziali clienti per altri prodotti e servizi, alcuni dei quali già messi a punto da Poste italiane, come la concessione del mutuo per la casa e il trasferimento di denaro all’estero che l’azienda fornisce attraverso Banco Poste Money Gram.
Ma come giustificano le Poste i 30 euro fatti pagare a ogni immigrato per la spedizione di una semplice raccomandata, per quanto un po’ più voluminosa del normale? Col fatto che non ci si limita a spedire un plico ma si offre un servizio: gli addetti allo sportello identificano il richiedente, controllano che nella busta ci siano tutti i documenti necessari (senza però fare una valutazione di merito, compito che resta delle questure) e la inviano Centro servizi amministrativi (Csa) delle Poste, a Roma, dove i kit vengono aperti e i moduli scansionati. Il cartaceo viene spedito alle questure, mentre i dati elettronici finiscono nel cervellone del Viminale. Poi, dopo che il contenuto delle buste è stato controllato dalla questura, le Poste inviano al richiedente una raccomandata per invitare lo straniero a presentarsi per il rilievo delle impronte digitali.
Ricapitolando: l’incasso è assicurato, i costi completamente scaricati sugli stranieri e la concorrenza sbaragliata a priori. Un pasticciaccio brutto. Soprattutto perché il servizio non funziona. Gli immigrati pagano e il permesso in tasca non ce l’hanno.
“Al momento -dice Maurizio Crippa della Cgil di Milano- in tutta Italia sono state presentate circa 110 mila domande e ne sono state lavorate appena 40 mila. Quando le buste arrivano al Csa si fermano: le Poste sono enormemente in ritardo nella spedizione, ma fin quando la Questura non ha in mano il cartaceo e non può effettuare il controllo dei dati, non avvia la procedura per il rilascio del permesso elettronico. Calcolando che occorrono minimo 21 giorni alla Zecca per emettere il permesso, se la situazione non si sblocca ci vorranno anni”.
Il sistema è viziato all’origine, come spiega Mohamed Zitoun, rappresentante della comunità straniera al consiglio comunale di Mazara del Vallo: “Gli operatori delle poste devono controllare la completezza dei documenti inseriti nella busta prima di spedirla. Il problema è che sono incompetenti e non sanno distinguere un permesso da una carta di soggiorno. Quindi, quando le buste arrivano alle questure si creano enormi disagi perché la documentazione risulta incompleta o scorretta”.
Non va meglio a coloro che optano per l’invio telematico: rivolgendosi ai patronati, infatti, si può evitare di ritirare il kit alle Poste e avviare la procedura per il rinnovo del permesso via internet (a proposito: una parte dei 30 euro servono anche per coprire i costi sostenuti dalle Poste per attivare www.portaleimmigrazione.it).
Il guaio è che il software messo a punto dalle Poste è incompleto: ad esempio non contempla le categorie del lavoro a progetto (una delle più diffuse ormai!) e svariate attività autonome. Quindi pure i patronati devono far ricorso al cartaceo. Con sprechi enormi.
In teoria c’è la possibilità di seguire il cammino della propria pratica attraverso il portale: basta inserire i codici che si trovano sulla ricevuta rilasciata al momento della spedizione del kit. Peccato che il portale funzioni a singhiozzo, con interruzioni del collegamento anche di quaranta minuti.
“Quello delle Poste è un anello in più, inutile e costoso -dice Maurizio Bove della Cisl di Milano-. Non solo non si è colto l’obiettivo fondamentale, accorciare i tempi di rilascio del permesso, ma si è ottenuto l’effetto contrario”.
L’accordo fra ministero e Poste aveva esautorato i Comuni, mandando su tutte le furie chi da anni era impegnato sul fronte immigrazione. A guidare la rivolta degli enti locali è stato Andrea Frattani, assessore del Comune di Prato. Il nuovo governo ha cercato di mettere una pezza avviando un percorso triennale di sperimentazione che ha come scopo il trasferimento delle competenze ai Comuni. Prato è il capofila della sperimentazione: con oltre il 15% di stranieri residenti, è da anni all’avanguardia nei servizi agli immigrati: “Abbiamo formato 43 operatori, evaso gratuitamente 16 mila pratiche in due anni e offerto un efficace servizio di mediazione linguistica che alle Poste manca completamente -dice Frattani-. Grazie ad anni di collaborazione con le questure, eravamo arrivati a rilasciare il permesso in 15 giorni. Con il nuovo sistema non è ancora stato fissato neppure il primo appuntamento. La convenzione con le Poste ha annullato anni di buone pratiche”. Allungamento dei tempi, aumento dei costi per gli stranieri, incompetenza e inefficacia del sistema, ma quel che è ancora più grave secondo Frattani è “la completa privatizzazione del rapporto con gli immigrati. La Bossi-Fini aveva privatizzato la condizione lavorativa dei migranti, lasciandoli in balia del mercato. Adesso si è privatizzato anche il rapporto con la burocrazia: è il contrario di quanto si dovrebbe fare per favorire l’integrazione dei nuovi cittadini”. Sulla stessa linea Giuseppe Carovani, coordinatore della consulta immigrazione dell’Anci Toscana, che aggiunge: “L’accordo con il Viminale ha dato alle Poste una sorta di monopolio senza alcun percorso di evidenza pubblica e scaricando sugli immigrati tutti i costi. A fronte di quale servizio?”. Se fosse stata indetta una gara d’appalto, altri sarebbero stati in grado di offrire
un servizio migliore a costi inferiori?
Un affare senza gara
Un ente pubblico può affidare un servizio a privati senza indire una gara quando si ravvisi il carattere di urgenza oppure se il privato ha competenze specifiche non riscontrabili altrove. È vero che le Poste avevano già collaborato con il ministero per la sanatoria del 2002 e per il decreto flussi, ma sul territorio ci sono altri soggetti che hanno sviluppato le competenze per offrire un servizio simile: basta pensare a patronati e Comuni.
La convenzione è stata stipulata fra il Viminale e le Poste in base alla legge 3/2003 (servizi finalizzati ad incrementare la sicurezza pubblica). Ma poiché le file davanti alle questure non sono esattamente una questione di sicurezza, per non andare a gara c’è stato bisogno di una modifica: si possono stipulare convenzioni con i privati per semplificare le procedure e ridurre gli oneri amministrativi negli uffici di pubblica sicurezza. Questo l’obiettivo. Finora totalmente mancato. Non ci si poteva organizzare meglio?
Costi immorali
Prima delle nuove disposizioni, quindi fino all’11 dicembre dello scorso anno, rinnovare il permesso di soggiorno costava 14,62 euro, ovvero il costo della marca da bollo.
Adesso vanno aggiunti 30 euro per la spedizione, 27,50 per il rilascio del permesso elettronico, 1 euro di bollettino postale. In totale fanno oltre 73 euro a persona. Un costo che Maurizio Bove del Cesil-Cisl di Milano non esita a definire “immorale”. Va poi considerato che in molti casi il permesso si rinnova anche più di una volta l’anno. Esemplare il caso di un bracciante agricolo del trapanese: guadagna 30 euro al giorno per sei mesi l’anno e va avanti a forza di rinnovi perché non potendo contare su un rapporto di lavoro continuativo non ha diritto alla carta di soggiorno. Con quattro figli a carico spende 430 euro a rinnovo, e deve farne due l’anno. Un salasso.