Economia
Pericolo verde
L’olio di palma è dappertutto, dalle merendine alle centrali elettriche. Ma le piantagioni tolgono terra all’agricoltura e provocano la deforestazione Potete anche non crederci, ma quella che sta mangiando vostro figlio non è una merendina, è un pericolo per il…
L’olio di palma è dappertutto, dalle merendine alle centrali elettriche. Ma le piantagioni tolgono terra all’agricoltura e provocano la deforestazione
Potete anche non crederci, ma quella che sta mangiando vostro figlio non è una merendina, è un pericolo per il pianeta. Perché dentro la briosche c’è olio di palma. Sugli ingredienti c’è scritto “oli vegetali”, ma, potete scommetterci, è olio estratto dai semi di una palma coltivata con ogni probabilità in Indonesia, o Malesia, o Papua Nuova Guinea.
Il consumo dell’olio di palma aumenta esponenzialmente, il mercato tira, i palmeti vengono piantati al posto delle foreste pluviali di mezzo Sud-est asiatico. Risultato: tonnellate di anidride carbonica e altri gas serra liberati nell’atmosfera. Ma non solo: piantagioni di palma stanno degradando la zona delle torbiere indonesiane, uno straordinario magazzino naturale di CO2. Col rischio che miliardi di tonnellate custodite nel sottosuolo si riversino nell’aria. Già oggi quasi la metà dei 22 milioni di ettari di torbiere indonesiane è stata eliminata e prosciugata: è la terza causa di emissioni di gas serra del pianeta, dopo gli Usa e la Cina. La situazione è destinata a peggiorare: oltre che a fare merendine e altri prodotti alimentari, l’olio di palma è particolarmente indicato per l’utilizzo energetico, per diventare biodiesel o combustibile per centrali elettriche.
Le stime dicono che la domanda raddoppierà entro 20 anni, e triplicherà entro il 2050. Intanto nuove piantagioni sorgono dall’Africa all’America Latina.
In tutto questo l’Italia gioca un ruolo di primo piano. Con oltre 40mila tonnellate (10mila in più rispetto al 2006) il nostro Paese si è confermato nel 2007 terzo importatore europeo di olio di palma, soprattutto da Papua Nuova Guinea e Indonesia, un po’ meno dalla Malesia (dati Istat). L’85% è finito all’industria alimentare, e infatti la palma è dappertutto. C’è olio di palma in tutte le bottiglie rosse di olio per friggere, nella “croissanteria” e nelle margarine, nel Kitkat e nelle Pringles. Usano olio di palma la maggior parte delle friggitorie che vendono patatine e fritti vari e tutta la panificazione pronta, quella da scaldare tipica dei bar. Il più grande importatore (e raffinatore) di olio di palma è la Unigrà di Conselice (Ra), che oggi raffina oli e grassi e conto terzi produce margarine, semilavorati in polvere, cioccolato e surrogato, creme vegetali (www.unigra.it).
Al secondo posto, la Ferrero, quella della Nutella. Altri grandi consumatori sono Barilla e Bauli, questa specie dopo l’acquisizione della Casalini, uno dei maggiori produttori italiani di merendine (www.fbfspa.it/casalini.html).
Ma è nel campo energetico che le cose si muovono di più. Oggi in Italia esistono poche centrali elettriche che bruciano olio di palma, ma le previsioni sulla crisi petrolifera e l’aumento dei consumi hanno spinto in molti a investire sulle impianti di questo tipo. In progetto ci sono non meno di 25 centrali in tutta Italia, e alcune sono già in corso di realizzazione. Sul business si sono lanciati in molti, a partire dalla Unigrà, che ha in progetto una centrale a Conselice.
Un altro impianto è quello di Monopoli, progetto della Casa olearia italiana, oleificio del gruppo Marseglia, già grande importatore alimentare (www.marsegliagroup.com).
Tra i vari nomi spunta quello della Fri-el, azienda che appartiene ai tre fratelli altoatesini Ghostner (www.fri-el.it).
È nata investendo nell’idroelettrico, per passare poi all’eolico. Cinque anni fa l’intuizione: buttarsi sull’olio. Una prima centrale è in via di realizzazione ad Acerra (sì, quella dell’inceneritore), avrà una potenza di 70 MW -non poco per essere una centrale a biomassa- e dovrebbe essere operativa entro un anno e mezzo. È solo il primo di una decina di impianti in progettazione, la cui convenienza è strettamente legata al meccanismo italiano di incentivazione delle fonti rinnovabili. Perché l’olio di palma è una fonte rinnovabile e da noi i cosiddetti “certificati verdi”, cioè i soldi che lo Stato versa a un’azienda in funzione dell’energia pulita prodotta, valgono il triplo della media europea. Per questo un impianto, che costa circa un milione di euro a MW, si ripaga velocemente e fa guadagnare molto. Nessuna distinzione viene fatta sulla provenienza del combustibile: anche se l’olio di palma arriva dall’altra parte del mondo, e contribuisce alla distruzione delle foreste indonesiane, è una fonte rinnovabile da premiare. Non importa se le palme sottraggono terra all’agricoltura destinata all’alimentazione umana.
I fratelli Ghostner hanno anche investito in piantagioni: Congo, Malesia, Indonesia; in Romania hanno già piantato 10mila ettari di palme, in Etiopia sono pronti i primi 2mila (e hanno una concessione per 60mila); in Gabon c’è un progetto da 100mila ettari.
Un’altra grande centrale da 90 MW della Fri-el dovrebbe sorgere a Grosseto, ma tardano le autorizzazioni. Anche perché lo scorso anno la Regione Toscana ha approvato una mozione che pone una moratoria su impianti di questo genere. L’unico che di sicuro si farà sarà a Piombino: 22 MW, l’azienda è la Seca dell’imprenditore Bruno Pietrini. Il panorama si completa con la Miro Radici (www.miroradicifinance.it), che ha invece in programma la costruzione di un impianto (il primo di quattro) a Martignana Po, mentre la famiglia Clivati di Bergamo, che fa tubi a Suisio e a Oliveto Citra (Sa), vuole realizzare un impianto a olio a Ottana, nel nuorese. Il futuro dell’olio di palma è scritto. La crescita della domanda ne ha fatto impennare i prezzi, raddoppiati in un anno. Solo chi si è assicurato negli scorsi anni la fornitura, o produce in proprio, è però sicuro dell’investimento. Il clima non è una voce del conto.
Una lobby che gioca ad essere sostenibile
Unilever, Nestlé, Kraft e Procter&Gamble: i colossi dell’industria alimentare sono responsabili della conversione di oltre il 1,4 milioni di ettari della foresta di Riau, nell’isola
di Sumatra, in palmeti per la produzione di olio da cucina. Da sola, Unilever ne usa 1,2 milioni di tonnellate l’anno, il 4% della produzione mondiale (28 milioni di tonnellate: è l’olio più prodotto dopo quello di soia). Finisce nella margarina Flora, nel formaggio Philadelphia o nelle Pringles. Il mercato dell’olio di palma è controllato da una manciata di aziende: Cargill, Adm-Kuok-Wilmar e Synergy Drive. Per far fronte alle critiche hanno dato vita al Roundtable on Sustainable Palm Oil (rspo.org): ne fanno parte 219 membri, che rappresentano il 40% del mercato. Per l’Italia sono presenti Ferrero e Unigrà. Anche se al tavolo partecipano anche 18 ong, nella pratica si tratta di un organismo di autocertificazione, dove controllore e controllato coincidono.
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Il clima è fritto
di Chiara Campione*
Il rapporto di Greenpeace “Come ti friggo il clima” (www.greenpeace.org/italy) dimostra che, a causa della crescente domanda sul mercato internazionale di olio di palma, le più grandi industrie alimentari, cosmetiche e di biocarburanti distruggono le torbiere e foreste pluviali indonesiane, mandando il clima del pianeta a farsi friggere. Alle stesse conclusioni sono arrivati gli scienziati del Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) dell’Onu. Le piantagioni di olio di palma indonesiane soddisfano le richieste del mercato globale di olio vegetale a poco prezzo da utilizzare nella produzione di cibo, cosmetici e carburanti.
Dal 2000 le esportazioni dall’Indonesia sono cresciute del 244%. Le multinazionali si riparano dalle accuse di Greenpeace dietro il debole scudo della Rspo (Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile), presieduta da Jan Kees Vi di Unilever e creata con l’obiettivo di “promuovere lo sviluppo e l’uso sostenibile dell’olio di palma”.
Ma non è abbastanza. Le ricerche sul campo, infatti, rivelano che gli affari dei membri della Rspo dipendono da fornitori attivamente implicati nella deforestazione e conversione agricola delle foreste torbiere, e fino a quando la Rspo non inserirà tra i propri standard il divieto ai propri membri di convertire aree di foreste e torbiere in piantagioni la loro certificazione non potrà essere considerata in alcun modo sostenibile.
Per disinnescare l’ecobomba Indonesia Greenpeace si pone l’obiettivo di una moratoria sulla conversione delle ultime torbiere indonesiane e dell’elaborazione di standard per la coltivazione di palma da olio che possano davvero essere considerati sostenibili sia da un punto di vista ambientale sia da un punto di vista sociale.
* responsabile campagna Foreste di Greenpeace Italia