Economia / Opinioni
Perché il 2024 fa paura al “club” dei Paesi ricchi, i veri paradisi fiscali
Quest’anno si potrebbero trasformare radicalmente le regole fiscali a livello di Nazioni Unite, contrastando l’evasione dei Paesi più ricchi responsabili del 75% della perdita di risorse. Nel momento chiave il governo italiano si è schierato con chi difende lo status quo. Altro che “Piano Mattei”. L’editoriale del direttore, Duccio Facchini
Il 2024 fa paura ai Paesi ricchi. Il motivo è semplice: a metà novembre dell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle la maggioranza dei Paesi membri delle Nazioni Unite ha adottato una storica risoluzione per avviare finalmente il processo che porterà a una convenzione quadro globale sulla fiscalità, riappropriandosi e trasformando radicalmente il modo in cui vengono scritte e governate le regole internazionali delle “tasse”. Un gioco impari che da sessant’anni almeno è saldamente nelle mani (e perciò tutto sbilanciato a favore) del “club” dei Paesi più ricchi, riuniti sotto il cappello dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), sia in termini di evasione fiscale delle imprese multinazionali sia di occultamento delle ricchezze di individui e di famiglie facoltose.
Un dato fa comprendere gravità e iniquità della situazione: ogni anno i Paesi del mondo perdono complessivamente almeno 480 miliardi di euro di tasse per colpa di paradisi fiscali, segreti bancari, giurisdizioni “agevolate”. Il 75% di questo ammanco è imputabile proprio ai membri dell’Ocse, con buona pace di chi ancora associa al paradiso fiscale un che di esotico e non invece i grandi centri finanziari occidentali. La rete indipendente Tax justice network ha parlato giustamente di “vittoria epocale” per giustizia, democrazia e libertà, non soltanto del mal detto “Sud globale” ma di tutta la popolazione del Pianeta. “I paradisi fiscali e le lobby hanno esercitato troppa influenza sulla politica fiscale dell’Ocse. Con questa decisione iniziamo a riprenderci il potere su regole e dinamiche che riguardano ciascuno”, ha spiegato a caldo Alex Cobham, che dirige il Tjn.
Il risultato raggiunto all’Assemblea generale è straordinario, soprattutto se si pensa che l’ultimo tentativo di sottrarre la materia fiscale all’Ocse e riportarla in sede Onu risaliva agli anni Settanta. Non è stata una passeggiata. L’opposizione dei Paesi più ricchi è stata fortissima, soprattutto di Stati Uniti, Regno Unito e, duole ricordarlo, Unione europea. I negoziatori Onu nelle settimane precedenti al voto di novembre hanno stigmatizzato il comportamento di inglesi ed europei, contestandogli di voler “uccidere” in “malafede” il processo negoziale. Il Regno Unito sul più bello è arrivato addirittura a proporre di eliminare ogni riferimento allo strumento della “convenzione”.
Un delitto perfetto che è stato sventato da 107 Paesi contro 55. La vittoria al voto finale sulla bozza rivista dalla Nigeria è stata ancor più schiacciante: 125 voti a favore, 48 contrari (inclusi Stati Uniti, Regno Unito e membri dell’Ue), nove astenuti. L’Unione africana ha salutato con favore una “lotta decennale” -quella per una reale cooperazione fiscale internazionale- che dopo decenni si è “fatta realtà”. Il comitato intergovernativo istituito ad hoc dalla risoluzione per giungere a una bozza di convenzione dovrà ultimare il suo lavoro entro agosto 2024.
L’Italia, naturalmente, è accodata ai Paesi che hanno votato contro la risoluzione, dimostrando ancora una volta quanto fumo e propaganda ammantino l’annunciato “Piano Mattei” con il quale il Governo Meloni vorrebbe liberare le potenzialità dell’Africa (in modo un po’ cialtrone e un po’ coloniale). L’immagine del blocco dei Paesi ricchi -quel 15% della popolazione mondiale che pesa per il 75% della sottrazione del “malloppo”- che vota contro un processo volto a raggiungere l’equità fiscale rimane emblematica e racconta bene i nostri tempi. Altro che scontro di civiltà, democrazie versus autocrazie. Lo scenario è più complesso. Cobham è stato durissimo: “I governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione europea dovrebbero vergognarsi delle loro azioni e dovrebbero dimostrare di aver imparato la lezione, raccogliendo il magnanimo invito che il resto del mondo gli ha rivolto, anche dopo il voto, per cooperare in modo inclusivo a livello di Nazioni Unite”. Le azioni a cui si riferisce il direttore di Tax justice network sono anche le pressioni esercitate sui membri del G77 (principalmente a basso e medio reddito) e dell’Ocse stessa. Ma in diversi hanno “rotto i ranghi”. Perché gli equilibri, quest’anno, possono cambiare.
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