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Partecipare la fantasia – Ae 57

Numero 57, gennaio 2005 In 5 anni di lavoro appassionante il Parco dell’Aspromonte ha trovato una nuova identità. Grazie alla speranza che ha contagiato la comunità intera. Un’esperienza che può diventare anche un modelloLa parola chiave è identità, ed è un…

Tratto da Altreconomia 57 — Gennaio 2005

Numero 57, gennaio 2005

 

In 5 anni di lavoro appassionante il Parco dell’Aspromonte ha trovato una nuova identità. Grazie alla speranza che ha contagiato la comunità intera. Un’esperienza che può diventare anche un modello


La parola chiave è identità, ed è un po’una sorpresa, perché l’esperienza condotta in questi anni nel Parco dell’Aspromonte a prima vista evoca altre cose: buona e innovativa amministrazione, nuove forme di economia, l’idea della moneta locale.

“Attorno al parco è nata una speranza, si è sviluppato un processo d’identità. Non era un obiettivo prioritario ma è nato spontaneamente e oggi possiamo dire che per tutte le aree marginali trovare un’identità è più importante dell’economia”: Tonino Perna il 4 dicembre ha concluso il suo mandato quinquennale e questa è la sintesi di un’esperienza che è stata appassionante, sul piano umano e su quello politico e amministrativo.

 

Qual è la cosa più importante realizzata in questi anni?

“Dal punto di vista dei beni immateriali direi la Comunità del Parco, con la partecipazione convinta dei sindaci e della gente che vive qui. È stata la premessa per il riscatto dell’immagine dell’Aspromonte. Ho in mente la prima pagina della Repubblica del 4 gennaio 1990: c’erano una foto di Cesare Casella, il ragazzino rapito, e un commento di Giorgio Bocca sul Sud irredimibile. È di quegli anni la raccolta delle lettere a San Luca, il paese simbolo dei rapimenti: in quel libro c’era tutto l’odio degli italiani verso la gente dell’Aspromonte. Non è passato moltissimo tempo e se pensiamo che in questo territorio è nato e si è sviluppato il Parco, credo che possiamo ritenerci soddisfatti.

Abbiamo fatto molte cose anche sul piano amministrativo. La lotta agli incendi basata sul principio di responsabilità è diventata un modello replicato in altre zone d’Italia. Abbiamo stabilito rapporti con università e centri di ricerca. Credo che abbiamo cominciato un percorso importante anche sulle energie rinnovabili, nonostante l’opposizione di alcune associazioni ambientaliste nazionali. Il nostro progetto prevede cinque fattorie eoliche, finanziate senza intervento pubblico. Le realizzeremo sugli altipiani, riducendo al minimo l’impatto paesaggistico. È una scelta importante perché significa cominciare a fare sul serio, non limitarsi più a giocare con le energie pulite. Con il solare sono possibili solo piccoli interventi, ad esempio sulle case sparse. Con le fattorie eoliche parliamo di 340 megawatt di energia prodotta, l’equivalente di una centrale termoelettrica. Abbiamo cominciato a sperimentare anche la produzione dell’idrogeno con le biomasse. Il mio sogno è di avere nel parco pulmini alimentati con l’idrogeno: è ancora presto ma non è impossibile”.

 

E qual è il progetto al quale hai dovuto rinunciare con più sofferenza?

“Ce ne sono diversi. Avrei voluto realizzare un centro di accoglienza per i cani randagi, ma il ministero ci ha fermati dicendo che la competenza è delle Asl. E poi mi sarebbe piaciuto costruire un palazzo del ghiaccio a Gambarie, dov’è la sede del Parco. Dal punto di vista turistico siamo ancora deboli: chi viene in montagna cerca anche occasioni di divertimento, qui la sera non c’è niente da fare…”


Il Parco dell’Aspromonte è noto per la sua moneta. È un esperimento che può proseguire?

“Io credo molto in questo esperimento, che però ha bisogno di essere seguito e assecondato, altrimenti muore.

Le monete locali, in genere, nascono dal basso: penso a quello che avviene a Toronto, o in Giappone, dove ha una funzione di socializzazione. Nelle aree marginali come l’Aspromonte lo scopo è diverso: la moneta serve a promuovere e valorizzare l’economia locale. Gli interventi tradizionali servono a poco: si distribuiscono sussidi che finiscono in consumi ma le merci sono realizzate altrove e i soldi escono subito dall’economia locale. La nostra moneta deve collegarsi a filiere produttive locali, perciò avremmo bisogno di almeno un paio di anni per radicare l’Eco-Aspromonte.

Qui è stato accolto bene, ha portato almeno 60 mila euro, l’equivalente degli Eco-Aspromonte scaduti senza che ne fosse chiesto il cambio in euro, ed è servito per tenere fermi i prezzi grazie a un accordo con i commercianti.


Nel futuro sarà più accentuata la funzione economica. Credo che nasceranno altre esperienze di questo tipo, non appena si capirà che una moneta locale è uno strumento d’intervento economico, come Keynes insegna. In situazioni di carenza di liquidità un ente pubblico può immettere moneta, a quel punto senza convertibilità con la moneta prevalente, e stimolare l’economia locale”.

 

Che altro c’è di ripetibile altrove fra i progetti realizzati in Aspromonte?

“Abbiamo già detto della prevenzione degli incendi. Aggiungerei le porte d’accesso al parco. In genere sono piuttosto banali, quando va bene sono piccoli musei.

Nei Sibillini, per fare un esempio, hanno affidato la gestione delle porte a una cooperativa che occupa trenta giovani, ma i costi sono elevatissimi. Noi abbiamo dato ad ogni porta un tema, offrendo anche una chance per reggersi sotto il profilo economico. A Bagaladi, ad esempio, la porta è dedicata alla storia dell’olio, e c’è una rivendita di prodotti tipici. A Gerace abbiamo recuperato un vecchio convento, puntando sulla storia della Magna Grecia: c’è una ricostruzione interattiva al computer, per la quale si paga un euro. A Cittanova c’è una banca dei semi delle piante originarie del parco, alcune quasi dimenticate: privati cittadini e aziende possono acquistare i semi, sostenendo così la gestione della porta. Sono tutti tentativi, ma servono a rendere il parco qualcosa di aperto, che fa leva sulla partecipazione.

La partecipazione è l’elemento più forte per dare continuità al parco, altrimenti ti perdi in una lotta continua con i cacciatori, con chi vuole spostare il confine, con chi vuole un contributo. Ed è anche un processo che porta identità”.

 

In che modo l’esperienza del Parco si lega alla costruzione di un’altra economia?

“Il legame è forte, su un tema poco esplorato: i rapporti fra enti locali, associazioni, piccoli produttori. Se vogliamo un’economia eticamente orientata, che abbia una direzione di marcia indicata da valori scelti dalla comunità, l’intreccio con l’amministrazione pubblica è indispensabile”.

 

Che cosa ha avuto di speciale la tua presidenza? Perché è stata percepita come un momento di svolta?

“Credo che le componenti siano state tre: la passione per un’area difficile e marginale, il senso della sfida e la fantasia. Quest’ultimo è un concetto che si ritiene incompatibile con la pubblica amministrazione, ma se manca questa la gestione di un Parco finisce per portare al Parco museo, buono per i turisti. Per carità, va benissimo: il Parco nazionale dell’Abruzzo, per dire, è un bellissimo parco. Ma qui eravamo in un’area marginale con un forte bisogno di riscatto, qui c’è anche bisogno di sogni e di speranze”.

 

Con la tua uscita di scena si tornerà all’antico?

“Nella comunità del parco ci sono persone eccezionali, sindaci, presidenti di comunità montane, esponenti di associazioni e cooperative. Certo, alcune cose sono legate alle persone: non credo che si trovi un altro pazzo che va alla Zecca dello Stato e ottiene di stampare la moneta dell’Aspromonte. Altre cose però sono radicate e andranno avanti comunque.

A metà dicembre, quando mi sono congedato, abbiamo organizzato una grande assemblea: eravamo più di duecento. Sono stato salutato con dimostrazioni d’affetto che mi hanno sorpreso. Antonio, una delle guide del parco, è intervenuto per raccontare un episodio. Stava camminando in montagna con il figlio e ha incontrato due persone, due stranieri, venuti a fare un’escursione per conto proprio. Richiamati dal Parco dell’Aspromonte. Cinque anni fa, ha detto, sarebbe stato impensabile, ora, ha aggiunto, dobbiamo andare avanti, il percorso è avviato”.

A Gambarie, sede del Parco, probabilmente s’insedierà un commissario, in attesa delle elezioni d’aprile. Il successore di Perna, che dev’essere scelto dal ministro dell’Ambiente di concerto con la Regione Calabria, sarà individuato anche in base all’esito del voto. Se vincesse il centrosinistra potrebbe toccare ancora a lui, il professor Perna, il “pazzo” che ha convinto la Zecca dello Stato.!!pagebreak!!

 

Forestali: non solo clientelismo

160 milioni di euro stanziati per 11 mila operai idraulici forestali in Calabria. È davvero e solo clientelismo? Tonino Perna parte da un dato: “Se non ci fosse stata questa forma d‘impiego, nei paesi dell’interno avremmo avuto un forte spopolamento. Purtroppo la politica ha trasformato tutto in un serbatoio di voti e di clientele. Molti non lavorano come potrebbero, ma quando ci sono capisquadra in gamba il loro lavoro è prezioso, in una regione collinare e montana, con centinaia di torrenti e una storia di alluvioni distastrose”.

 

Il destino incrociato della montagna e della sua gente

Complice il Parco Nazionale dell’Aspromonte, Antonio Barca non ha lasciato le sue montagne. Non se ne è andato dai suoi fiumi che, nei mesi invernali, scorrono con forza terribile verso un Mediterraneo così vicino e, allo stesso tempo, così lontano. Oggi Antonio può salire, ogni giorno, come quando era bambino, ai piani di Carmelia, terrazza geologica sotto la piramide di boschi e la roccia di Montalto, la vetta più elevata, a quasi duemila metri, di questa ultima montagna del continente Italia. Eppure, solo pochi anni fa, Antonio, 40 anni, aveva la valigia già pronta: non poteva più fare, per una schiena a pezzi, il carpentiere. Teresa, sua moglie, era già a Treviso. Tutto era pronto per lasciare il paese, Delianuova, e migrare, come mille altri, verso Nord.  Ma questa, per fortuna, è una delle storie-simbolo del nuovo Aspromonte, uno dei tanti racconti possibili della rinascita di questa montagna: Antonio alla fine, con coraggio e felicità, ha fatto retromarcia, ha deciso che il suo futuro è ancora qui. Ai piani, fra le faggete di alta quota, fra le fiumare di ciottoli lisciati dalle acque, fra i paesi che si abbarbicano alla pietra, fra la neve che, per mesi e mesi, si ribella alla dolcezza del Mediterraneo e imbianca l’Aspromonte. Antonio è diventato una delle guide del Parco. E, con altri giovani (Diego ed Aldo), ha creato un’associazione di turismo naturalistico. Tre ragazzi che, in questa periferia estrema d’Europa, hanno deciso che vale la pena provare a vivere in una terra straordinaria.


Ci devo credere anch’io quando incontro Michele Galimi.  54 anni, il sindaco a Cinquefrondi, settentrione dell’Aspromonte, uno dei 37 comuni che fanno parte di questo parco vasto 78mila ettari. “Qui, in questi anni, vi è stato un vero miracolo -dice con un largo sorriso sotto i baffi. -Il vento è cambiato. Noi tutti, sindaci di paesi un tempo dimenticati, siamo saliti fino al santuario di Polsi, il cuore sacro di queste montagne e lì abbiamo firmato un patto di riconciliazione fra l’uomo e la natura. È come se avessimo ritrovato, dopo anni di sottomissione, la nostra cultura, i nostri valori, i nostri saperi. Grazie al Parco, siamo diventati una comunità orgogliosa della propria identità”.  Cosa è accaduto in questa Calabria? Cosa sta accadendo?

L’Aspromonte non è una montagna ‘aspra’. Tutt’altro. Strade (dissestate e frananti) e mulattiere aggirano i suoi canaloni e corrono sul filo di stretti crinali. È probabile che siano stati gli antichi coloni della Magna Grecia a chiamarlo così: aspros è bianco in greco e qui la neve rimane a lungo sulle cime delle montagne. L’Aspromonte è una grande piramide a terrazze. È terra giovane, questa: una coda inquieta (per terremoti, frane e alluvioni) dell’Appennino. Qui tutto è instabile: 45 terremoti in una manciata di secoli. Alcuni sono durati anni: hanno seminato il terrore e cambiato, crollo dopo crollo, la geografia dei valloni. La stessa Calabria, ogni cinque anni, si piega verso Nord di un centimetro. Le fiumare, corsi d’acqua senza sorgenti, gonfiati dalle piogge, a volte, in inverno, diventano oceani rabbiosi: strappano terra alla terra e provocano tempeste di alluvioni. Le acque, allora, accerchiano i paesi dei pastori e lo Stato, nei decenni, non ha saputo far altro che trascinare via la gente dalla montagna: Africo, Roghudi, Amendolea, Pentidattilo si sono trasformati in borghi-fantasmi. I montanari della Calabria, fra il 1951 e il 1972, vennero trasferiti, con la forza, sulla costa. Solo Canolo, paese dell’alto Aspromonte, si rifiutò di essere deportato: fu ricostruito, ma quattrocento metri più in alto, ai piani, là dove c’era buona terra da coltivare e pascoli da sfruttare. “E fu una scelta di grande saggezza”, dice oggi il sindaco Silvio La Rosa. Guardare lo scempio di Roghudi trasportato sul mare per credere.


Il popolo di questa Calabria è contadino e pastore, cacciatore e montanaro. Sono uomini e donne che hanno sempre vissuto lontano dal mare, chiusi fra gole inaccessibili e pietre puntate verso il cielo.

Dico che vado in Aspromonte e il caporedattore di un importante giornale mi grida dietro:”Attento a non farti rapire”. Lo dice oggi, anno 2004, a quindici anni dall’ultimo sequestro. Ma questo ancora si pensa, nel Nord d’Italia, di questa terra: l’Aspromonte è la regione dei rapimenti. Qui, trent’anni fa, saltarono tutti i codici dei vecchi, degli anziani, dell’antico potere: negli anni ’70 e ’80, la nuova ‘ndrangheta scatenò la sua offensiva, l’Aspromonte divenne il simbolo della criminalità organizzata, dello sfascio urbanistico, del degrado inarrestabile, di ogni malsviluppo. Questa è terra sfregiata dai traffici di droga, dall’abusivismo edilizio, da mille e mille case che restano scheletri di cemento, da discariche di rifiuti (sono state censite, negli anni scorsi, solo nel territorio del parco, 380 carcasse di auto scaraventate giù nei burroni), da un bracconaggio impietoso, da pesca di frodo fatta con calce e corrente elettrica. “Ha senso costruire un parco in questa realtà?”, si chiese Tonino Perna, calabrese, sociologo all’università di Messina, quando, cinque anni fa, il ministro dell’ambiente Edo Ronchi, lo volle presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte. Allora, 1999, questo dimenticato ente pubblico aveva solo due dipendenti. La gente dei paesi vedeva il Parco come il nuovo abuso di uno Stato che sapeva solo imporre divieti e mettere la gente in galera.


Sentite oggi i sindaci. “Il Parco ha aperto cuore e mentalità. Ci ha reso orgogliosi della nostra montagna”, dice Francesco Morano, sindaco di Cittanova, il comune più grande di questa terra. “Cinque anni fa, sul mio tavolo c’erano 560 firme contro il Parco, ricorda Silvio La Rosa a Canolo, oggi una simile petizione ne raccoglierebbe meno della metà”. “La provvidenza ci ha dato il nuovo parco” dice Carmelo Siciliano, responsabile dell’associazione Ekoclub di Molochio, ex-cacciatore. “La gente ha capito che queste montagne sono un dono, un patrimonio nostro”. Davvero è successo qualcosa in questi cinque anni in Aspromonte: è come se i figli dei vecchi briganti e degli emigranti si siano ribellati al destino e se ne siano riappropriati. Nel 1999, le prime carte che Tonino Perna vide sul suo tavolo erano venti richieste di comuni che pretendevano la riduzione dei confini del Parco. Oggi sono dodici i nuovi paesi che chiedono di farvi parte e solo cinque insistono per tagliare queste frontiere naturalistiche.


Dice Tonino Perna: “Volevo capire se era possibile uscire da una situazione di degrado e marginalità grazie allo strumento di una istituzione pubblica”. Un parco ha obiettivi ambiziosi: tutelare l’ambiente, migliorare la qualità della vita, promuovere un territorio. “Ma su questa terra ci devono rimanere gli uomini e le donne, ricorda Perna, e devono viverci bene”.I meccanismi di una rinascita si sono messi in moto: nei paesi sono cresciute storie su storie. L’università Bocconi di Milano è scesa fino a Bova, paese-aquila della Grecanica, per metter su un master sullo ‘sviluppo locale’. Musicisti sono arrivati fino a Gerace, borgo medioevale della Jonica, per insegnare violino. Cacciatori (un esercito da queste parti) hanno seguito corsi per la gestione del capriolo (che verrà reintrodotto nei boschi) e del cinghiale. Scrittori perseguitati nei loro Paesi verranno a vivere nei paesi di questa montagna. Finanziamenti del parco hanno consentito il restauro dei forni comunitari a Canolo: qui le famiglie si fanno, da sole, il pane di segale. Una carovana di sindaci dell’Aspromonte ha girato l’Italia dei parchi: partivano in un autobus dalla Calabria per salire fino alla Toscana, al Piemonte, al Trentino per incontrare altri amministratori. Ne è nata l’associazione dei comuni nei parchi (e presidente ne è il calabrese Galimi). A Samo e a Bagaladi sono venuti allievi di istituti d’arte di Reggio Calabria, Genova, Trento e Firenze ad affrescare, con trompe-d’ oeil, le facciate di cemento delle case. Cooperative di giovani (a Riace, a Gerace) hanno cominciato a comprare da pastori increduli la lana che loro sapevano solo bruciare o buttar via. Ragazze hanno ripreso a lavorare la ginestra e sono venuti stilisti a comprare le nuove-antiche stoffe. A Cittanova, ogni anno, trenta giovani europei, per due mesi, studiano ‘giornalismo ambientale’.


Queste montagne non sono disabitate. Sono terra viva e bella. Con mille fragilità e almeno due facce: la determinazione dei suoi ragazzi e la minaccia della nuova ‘ndragheta’. Del resto qui il vallone della Madonna scorre parallelo alla valle Infernale. Due facce, come i suoi ecosistemi: le foreste dello Zomaro e le arsure dei versanti jonici, la segale che, in estate, cresce ai piani e il tappeto di olivi della piana di Gioia Tauro. Lo capite? Il Parco dell’Aspromonte sta cercando di farci sapere che ‘un altro Sud è possibile’.


                                                                           Andrea Semplici

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