La "notte delle stragi" sconvolge e sorprende, ma possiamo davvero stupirci per gli attentati? Abbiamo vissuto l’illusione di poter combattere una guerra tenendo la violenza lontano dai nostri confini. Oggi la risposta sembra essere: più bombe, più raid, più repressione. Ma non è vero -non è mai vero- che non c’è alternativa. Va ripreso il discorso rifiutato dopo l’11 settembre, con le sue parole d’ordine: dialogo, convivenza, giustizia, diritti
Come a gennaio, con l’assalto a Charlie Hebdo; come nei giorni scorsi, con l’esplosione sull’areo russo in volo sul Sinai, così la notte delle stragi a Parigi, oltre all’orrore per tante persone innocenti trucidate, sembra suscitare una certa sorpresa nella popolazione, o almeno in gran parte di essa. Ci scopriamo fragili, vulnerabili e sale quindi un senso di smarrimento, ma davvero possiamo sorprenderci per gli attentati nel cuore dell’Europa? Non siamo forse in guerra, noi Europa, noi Nato, nel Vicino Oriente e non da oggi? Abbiamo dimenticato anche le stragi di Madrid e Londra?
Da un quindicennio ormai combattiamo una guerra che ha causato centinaia di migliaia di vittime e generato un caos geopolitico senza precedenti. L’Isis è solo la più recente, e forse la più attrezzata, fra le molte milizie contro le quali stiamo combattendo. Spesso si tratta di ex alleati, che si è pensato di sostenere e utilizzare contro temporanei nemici comuni, salvo poi trovarseli contro; altre volte si tratta di formazioni che pescano miliziani e trovano consenso sull’onda di sentimenti antioccidentali alimentati dalla guerra incessante che conduciamo fra l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria, uno spicchio di mondo nel quale si condensano troppi interessi economici e politici e troppi rancori storici.
Gli attentati ci ricordano che siamo in guerra; sono un brusco risveglio dall’illusione che si possa fare la guerra per procura e senza pagarne conseguenze sul proprio territorio. Lo Stato islamico sta portando la guerra in Europa con gli strumenti tipici di tutte le guerre asimmetriche: l’azione terroristica.
Oggi i dirigenti politici europei assecondano lo stupore delle popolazioni – uno stupore dai piedi d’argilla – e promettono di incrudelire la strategia seguita finora: più bombe, più raid, più repressione. E’ la via di una guerra di distruzione che pare avere come obiettivo finale l’eliminazione fisica dell’Isis.
Se questa è la scelta, diventerà impossibile, di fronte alla prossima strage in Europa, reagire con stupore. Ma già la carneficina di Parigi dovrebbe farci aprire gli occhi sulla nostra condizione di belligeranti e sul vicolo cieco nel quale ci siamo infilati.
Oggi la via della guerra totale all’Isis viene presentata come ovvia e senza alternative e si accompagna a una promessa di sicurezza che non potrà essere garantita, ma che dovrebbe bastare a mantenere sotto controllo l’opinione pubblica europea, che è sotto choc, frastornata e bisognosa di rassicurazioni. Nella realtà siamo probabilmente agli esordi di una fase molto cruenta della guerra in corso, vista la capacità dell’Isis di ribattere colpo su colpo alle azioni militari degli stati nemici, colpendoli là dove sono più vulnerabili, cioè al livello della popolazione civile: è toccato ai turisti russi di ritorno dal mar Rosso dopo i raid in Siria dell’aviazione di Mosca; ai cittadini francesi al ristorante, allo stadio e nella sala da concerto dopo i raid dell’aviazione francese annunciati in pompa magna quest’estate.
Ma non è vero -non è mai vero- che non esistono alternative. C’è la via lunga indicata già all’indomani dell’11 settembre da quelle che furono bollate come "anime belle": è la via della convivenza e del dialogo in situazioni di conflitto; la via del freno alla depredazione delle risorse; la via del riconoscimento dei diritti delle persone, compreso quello di emigrare dal proprio paese; la via del rafforzamento di istituzioni sovranazionali –rifondando l’Onu– e del ridimensionamento delle alleanze politico-militari che hanno occupato gli spazi della democrazia.
Lungo questa via, un futuro c’è. E c’è anche la materia prima per affrontare lo status quo, ossia l’espansione militare dell’Isis o anche il fascino che esso esercita su tanti giovani che vi vedono uno strumento di ribellione e di riscatto dalle umiliazioni subite per mano delle potenze belliche occidentali. Certo, è una via impervia, non foss’altro perché nuova e da mettere in pratica in un contesto infuocato. Forse non darebbe risultati immediati, ma avrebbe il grande merito di far intravedere una via d’uscita accettabile e – soprattutto – desiderabile.
I nostri governi dicono che la via giusta è la radicalizzazione dello scontro militare, ma abbiamo alle spalle almeno un decennio di fallimenti e non vi è ragione di pensare che stavolta l’esito sarebbe diverso.
Abbiamo perso molti anni, denigrando la cultura del pacifismo e sgretolando dall’interno l’autorità e il potenziale degli istituti sovranazionali, a cominciare dall’Onu.
Oggi vediamo i risultati raccolti nel Vicino Oriente: un’impressionante quantità di morti; paesi ridotti in macerie e trasformati in ribollenti fucine di movimenti armati; azioni terroristiche contro gli stati in guerra; un caos geopolitico che non lascia intravedere soluzioni possibili.
Il tutto con un corollario che sta già diventando realtà, ossia il degrado delle democrazie europee: stiamo innalzando muri (anche fisici!) contro persone in fuga dal caos generato – anche, se non soprattutto – dalle nostre guerra e ci apprestiamo a vivere in uno stato d’emergenza quotidiano, con tutto ciò che ne consegue.
Solo i cittadini europei, in una fase storica che sembra ormai segnata da un destino di guerra, potrebbero cambiare il corso delle cose, ma dovrebbero ribellarsi ai loro governanti e alle loro fallimentari politiche di potenza e così ridare senso a ciò che intendiamo per democrazia.
Sarebbe la premessa per affrontare le sfide del nostro tempo su basi nuove.