Ambiente / Reportage
Viaggio nel parco delle Alpi Giulie, riserva di biosfera oltre i confini
Lo scorso giugno, la regione a cavallo tra Italia e Slovenia ha ottenuto il riconoscimento “Mab Unesco” grazie al lavoro svolto per la tutela dell’ambiente e il mantenimento delle tradizioni popolari. Come la filiera del “Pan di Sorc”
Una settimana prima che Massimiliano Fedriga, il presidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, accogliesse -a parole- la suggestione di costruire una barriera con il confine sloveno “per fermare gli arrivi” dei migranti, lo scorso giugno, il Consiglio internazionale del Programma Mab (“Man and Biosphėre”) dell’Unesco proclamava le Alpi Giulie friulane riserva mondiale della biosfera. Un riconoscimento dovuto proprio, nelle parole del ministero dell’Ambiente, al fortunato “incrocio di tre zone biogeografiche e aree culturali, che ha prodotto una ricchissima biodiversità e il mantenimento di tradizioni popolari”, su cui fondare percorsi di sviluppo sostenibile “in una logica transfrontaliera”.
In quest’area di confine situata una cinquantina di chilometri a Nord di Udine, che scivola verso la Slovenia Nord-occidentale, la cooperazione transfrontaliera è, infatti, una delle caratteristiche principali di un ambiente naturale unico nel suo genere. Da dieci anni, il Parco naturale regionale delle Prealpi Giulie e il confinante Parco nazionale sloveno del Triglav sono riconosciuti dalla Federazione dei parchi europei, Europarc, area protetta transfrontaliera (l’unica in Italia su 19 europee). È l’Ecoregione Transfrontaliera Alpi Giulie, che comprende anche un’altra area Mab Unesco, riconosciuta fin dal 2003: le Alpi Giulie slovene, sorelle di quelle friulane.
“Con la Slovenia abbiamo contatti quotidiani e un’ottima collaborazione”, racconta Stefano Santi, direttore del Parco delle Prealpi Giulie, che incontriamo nella sede di Resia (UD). “È insieme al Parco del Triglav che, nel 2016, abbiamo ottenuto la ‘Carta europea per il turismo sostenibile’”, dedicata a quei territori dove si tutela la biodiversità, si pratica educazione ambientale e si valorizzano la cultura e i prodotti locali. “E ora speriamo di rafforzare ulteriormente quest’amicizia”. Il prossimo obiettivo, infatti, è arrivare al riconoscimento di una riserva della biosfera transfrontaliera, come il Monviso, che oggi è l’unica che tocca l’Italia su 21 in tutto il mondo.
Per arrivare al riconoscimento Mab Unesco, che testimonia l’equilibrio tra uomo e natura, il Parco ha iniziato nel 2011 a fare rete non solo con il Parco del Triglav, ma anche la Regione autonoma, i Comuni vicini, le associazioni locali e l’Università di Udine. “Abbiamo visitato altre riserve Mab italiane e dialogato con il ministero dell’Ambiente, titolare del procedimento”, fino al viaggio dello scorso giugno, quando un gruppo di persone è partito in furgone da Resia per raggiungere la sede Unesco a Parigi, portando con sé delle forme di Montasio di malga.
Il Parco -un ente pubblico con cinque dipendenti- è il soggetto principale della riserva della biosfera, che copre un’area di 700 chilometri quadrati ed è costituita dai sei Comuni del Parco -Chiusaforte, Lusevera, Moggio Udinese, Resia, Resiutta e Venzone, tutti in provincia di Udine-, più altri cinque: Artegna, Dogna, Gemona del Friuli, Montenars e Taipana. La conservazione della biodiversità è una delle due attività principali del Parco: lo si fa, spiega Santi, “gestendo il bosco e frenandone la crescita che mette a rischio aree naturali dove vivono altre specie animali e vegetali”. L’altra è lo sviluppo, declinato in termini di sostenibilità e turismo, attraverso progetti come il “Paniere del Parco” che sostiene i produttori locali di questo territorio nella valorizzazione delle varietà autoctone e delle ricette della tradizione. Come a Resia, dove si coltiva in minuscole proprietà “polverizzate” sul territorio -come dice Santi- un aglio dai piccoli bulbi aromatici, che da quasi vent’anni è stato riconosciuto da Slow Food come Presidio. Si tratta di una piccola produzione di una tonnellata l’anno, che viene velocemente venduta in valle tra luglio e agosto, subito dopo la raccolta. O come il fagiolo Fiorina di Lusevera, uno dei 30 ecotipi di fagiolo trovati nell’area, oggi coltivato da quattro produttori e usato nello stak, una purea di patate e fagioli, condita con il lardo. O, ancora, come a Moggio, dove l’antica ricetta della brovadâr -un preparato di piccole rape fermentate con le foglie nell’acqua- è stata recuperata dai testi storici e tramandata di generazione in generazione.
Prodotti che suscitano interesse tra i turisti, che sempre più spesso si avventurano nell’area protetta, dove oggi sono presenti una trentina di attività tra aziende, osterie e alberghi che si fregiano del marchio del Parco. Anche l’Ecomuseo Val Resia (ecomuseovalresia.it) è nato su iniziativa del Parco: oggi è gestito dal Comune di Resia in modo diffuso, per valorizzare le peculiarità storico-culturali della valle attraverso i sentieri tematici di diverse lunghezze -come la via della musica, quella degli alpeggi o degli antichi ghiacciai- o usando le mappe di comunità.
Quest’ultime sono delle vere e proprie cartografie partecipate, usate per coinvolgere gli abitanti dei piccoli Comuni nell’immaginare il futuro delle loro comunità. “Le mappe sono solo il risultato finale di un percorso di mesi, fatto di incontri con i cittadini, di raccolta di materiali e ascolto delle storie personali e collettive”, spiega Maurizio Tondolo, coordinatore dell’Ecomuseo delle acque del gemonese, il secondo ecomuseo del territorio della riserva Mab Unesco. Lo incontriamo al mulino Cocconi, l’unico ad acqua -su nove che c’erano un tempo- recuperato a Gemona dopo il terremoto del 1976. “L’ecomuseo lavora sull’ambiente in modo diffuso e mira al coinvolgimento della comunità, intervenendo da un punto di vista culturale e di ricerca storica, per tenere vivo il patrimonio anziché musealizzarlo”, spiega. Per farci capire cosa intende, ci mostra la mappa di comunità del Comune di Montenars (UD), 500 abitanti, dove gli antichi roccoli -una sessantina di suggestive strutture vegetali un tempo usate per la cattura dei volatili migratori (oggi messa al bando) e poi abbandonati- sono stati trasformati in teatri all’aperto e punti d’osservazione della fauna selvatica, coinvolgendo i giovani e insegnando loro come potarli correttamente e prendersene cura.
“L’ecomuseo mira al coinvolgimento della comunità, intervenendo da un punto di vista culturale e di ricerca storica, per tenere vivo il patrimonio anziché musealizzarlo” – Maurizio Tondolo
Accanto a Maurizio, Etelca Ridolfo tiene tra le mani tre piccole pannocchie: quelle del dolce mais cinquantino, usato nella ricetta dello storico “Pan di Sorc” si riconoscono dal colore bianco del tutolo. “La mia bisnonna preparava questo pane per le feste, anche se le nonne preferivano fare la polenta: era più facile”, racconta la presidente dell’associazione produttori Pan di Sorc, custode del seme del cinquantino e collaboratrice dell’ecomuseo fin dalla sua apertura nel 1999. La lievitazione naturale, invece, comportava che un fornaio ti donasse della pasta madre “e per tenerla fresca in casa dovevi sprecare un poco di farina, che era preziosa”. A giugno, raccolto l’orzo, i contadini piantavano il cinquantino, un mais precoce che lavoravano a mano, e con quella farina, mischiata a segale e frumento, preparavano il pane. Il progetto di recupero di questa filiera è iniziato nel 2006 da una ricerca dell’ecomuseo sul cibo locale e dai racconti di un anziano che faceva il fornaio da quando aveva 13 anni (oggi ne ha 92). “Due famiglie di Gemona avevano tenuto un po’ di seme, perché il cinquantino profumava la polenta: da quelle pannocchie custodite abbiamo ripreso a coltivarlo”, racconta Etelca. In 13 anni la filiera ha riunito sei custodi di semi e quattro aziende biologiche, un mugnaio che macina a pietra e un fornaio a legna, il “Forno Arcano” dell’omonimo paese, Rive d’Arcano. “Senza agricoltori custodi questo seme sarebbe scomparso: nessuna ditta sementiera lo ha conservato”, sottolinea Etelca, raccontando che per fare il pane lo coltivano su piccoli fazzoletti di terra, a rotazione.
È, insomma, un pane “turnario”, proprio come il formaggio della latteria sociale di Campolessi (latteriacampolessi.it, vedi Ae 156), fondata nel 1908 da 120 soci, un vero e proprio presidio sociale di sostegno alla comunità e ai piccoli allevatori. “Erano 652 le latterie turnarie in Friuli, oggi ne restano solo sei”, dice Maurizio Tondolo. Solo a Gemona, fino agli anni 60, ce n’erano nove: una in ciascuna delle frazioni principali. Oggi sono 15 i soci della cooperativa di Campolessi, tutti raggiungibili nell’arco di 20 chilometri, e tengono poche vacche -“da una a 15, tranne il presidente che ne ha 60”, dicono-, che alimentano solo con fieno ed erba. Qui ogni giorno si lavorano circa 20 quintali di latte e il prodotto -a seconda della quantità di latte conferita- appartiene al socio che può decidere se venderlo in proprio o nella bottega accanto al caseificio.
Sono stati questi progetti di filiera e tutela del territorio dell’ecomuseo di Gemona ad attirare l’attenzione del Parco delle Prealpi Giulie quando si stava costruendo il progetto di riserva Mab Unesco. Secondo Tondolo si tratta di “un’occasione per creare sinergie tra i progetti del territorio e svilupparli, coinvolgendo le comunità locali in una visione del territorio orientata alla sostenibilità”. La sua speranza è che, in questo percorso, l’ecomuseo possa essere riconosciuto come “un luogo di mediazione nel dialogo con le persone, per trasmettere l’importanza di prendersi cura del territorio”. C’è già stata una grossa “cesura” -come la chiama lui- in questi luoghi nel 1976, l’anno del terremoto. Ora c’è solo da tessere per unire.
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