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Ambiente

Parchi, una risorsa per l’Italia

L’economia delle aree protette vale fino a 20 miliardi di euro. Ma siamo incapaci di vederlo, come dimostra il Parco geominerario sardo —

Tratto da Altreconomia 144 — Dicembre 2012

La Sardegna è seduta su un’autentica “miniera d’oro”. Il più delle volte, poggiata sul mare o persa nei ginepri. Un luogo dove natura e tradizioni locali si mescolano con gallerie scavate nella roccia, giacimenti metalliferi, argentiere, pozzi. Con una caratteristica: è una ricchezza ereditata che non può prestarsi alla delocalizzazione. Di più. La leva che aziona tra quel che lì s’investe e quel che si raccoglie non è paragonabile ad alcun parco eolico, autostrada, aeroporto, residence o mega struttura ricettiva. Si tratta di un’area protetta, quel segmento che ogni anno pesa per il 35% circa sul fatturato del cosiddetto “turismo natura”, pari a oltre 10 miliardi di euro nel 2010. È il Parco geominerario storico ambientale (www.parcogeominerario.eu). “Il più grande del mondo” secondo Maurizio Burlando, coordinatore nazionale del Forum dei Geoparchi. Splendore riconosciuto dall’Unesco, data la segnalazione del Parco sardo nella rete mondiale dei Geositi e dei Geoparchi per l’eccezionalità rappresentata dai “500 milioni di anni di storia geologica e gli 8mila di attività mineraria”. 4mila chilometri quadrati di estensione, suddivisi in otto aree ed 81 comuni. Ed è la triste e splendida vicenda comune a tutto il territorio italiano: c’è, si vede, s’ignora.

Allo scalo di Cagliari-Elmas i maxischermi trasmettono uno spot del parco. Pochi minuti ed ecco Fanny Cao, insegnante di Monserrato (Ca) e attivista dell’associazione Italia Nostra (www.italianostra.org). A lei il compito di accompagnarci presso la più grande area del Geominerario, quella del Sulcis Iglesiente. Nel giro di un’ora raggiungiamo l’insediamento minerario di Monteponi, a pochi chilometri da Iglesias. Dove si estraeva argento, piombo e zinco resta un complesso di edifici -taluni abbandonati, altri bonificati- in buona parte circondato da reti metalliche che mettono in guardia circa la stabilità (“edificio pericolante” è il cartello che s’incontra di frequente). Tra i vicoli incontriamo un lavoratore della società pubblica Igea Spa, che per conto della Regione Sardegna impiega 235 dipendenti per effettuare bonifiche e messa in sicurezza dell’esistente. Sceso da uno dei numerosi pick-up incrociati lungo la rampa d’accesso al sito, ci illustra il calendario delle visite ai (soli) otto punti d’interesse: “È necessario prenotare, in un numero minimo di venti persone”. Ripresa la Ss 130 affianchiamo i suggestivi fanghi rossi -prodotti dell’estrazione- fino a Grotta Santa Barbara. Non incroceremo nessuno sulla costa, risalendo verso Nord, a Nebida. Dietro ad un cartellone pubblicitario due metri per cinque che propina “dimore esclusive”, inizia il sentiero che conduce alla laveria Lamarmora, posata sul mare dal 1897. Intorno, si nota una rete metallica e un cartello: “Pericolo di crollo”. “Piuttosto che sfruttare le meraviglie ereditate costruiscono senza senno tante piccole Positano” si lamenta Fanny mentre ci lasciamo alle spalle i piani rialzati delle villette, percorrendo i ripidi gradini che portano giù dalla litoranea. E poi la torre sabauda di Cala Domestica a Buggerru, che raggiungiamo da Pranu Sartu. I cartelli informativi sono presenti, un po’ meno la manutenzione dei sentieri che s’infilano tra oleandri e corbezzoli.
Il punto è che -pur avendo compiuto dieci anni- il Parco fatica a decollare. Tanto che l’ex presidente dell’Ente minerario sardo (Emsa), Giampiero Pinna, ha deciso a metà novembre di iniziare lo sciopero della fame. E lo fa a ragion veduta, dato che si è speso prima per la sua istituzione -avvenuta nell’ottobre 2001, da parte del ministero dell’Ambiente-, poi per il suo miglior funzionamento -in qualità di commissario dal 2007 al 2009, quando gli succede Antonio Granara, tuttora in ruolo grazie a rinnovi semestrali dell’incarico messi a punto dalla Giunta regionale guidata da Ugo Cappellacci-. Il motivo della protesta di Pinna è semplice: il Parco, che per legge avrebbe dovuto “conservare e valorizzare anche per finalità sociali e produttive, i siti e i beni dell’attività mineraria con rilevante valore”,  non rispetta le consegne. “La promozione e il sostegno di attività agrituristiche, agroalimentari o di artigianato avrebbe potuto generare come minimo 500 o 600 posti di lavoro”, sostiene Pinna. Inadempienze che son costate al Parco geominerario sardo l’ammonimento dell’Unesco (www.unesco.org): soluzioni rapide e svolta nella gestione, le richieste formulate nell’agosto 2011, e due anni di tempo per mettere a registro l’efficienza del Parco, in linea con la proposta commissariale del 2007 stilata proprio da Pinna. Pena, l’espulsione del sito dal prestigioso network internazionale. Un paradosso che è valso al parco sardo l’etichetta di “paesaggio sensibile italiano che versa in condizione di pericolo”, che Italia Nostra ha “appiccicato” anche alla laveria di Nebida. Paradosso analogo a quel che circonda le aree naturali protette del Paese: ricchezza potenziale -made in Italy, per i cultori della materia- nei fatti ignorata.

Eppure l’esperienza di Maurizio Burlando alla guida del Parco naturale del Beigua (www.parcobeigua.it), tra le province di Genova e Savona, è diversa. “Non è minimamente paragonabile a quello sardo -ammette Burlando-, e non voglio entrare nel merito delle loro questioni, anche se è da una vita che hanno la gestione commissariale”. Il “Beigua” è dieci volte più piccolo (390 chilometri quadrati, dieci comuni interessati) ma riceve 400mila visite all’anno. Inoltre, ed è il punto, ha improntato la gestione dell’area su una rete di cooperative locali per il mantenimento degli habitat, delle sorgenti e della foresta. “A livello internazionale la rete dei geoparchi sta avviando una seria analisi delle ricadute economico-sociali prodotte da queste aree -racconta Burlando-: ad oggi mi limito a dire che per noi affidare la tutela di un prato significa apicoltura e miele, preservare un habitat pascolativo si traduce in valore aggiunto per aziende agricole, difendere e mantenere la foresta significa filiera del legno. Per non dimenticare il comparto turistico: anche se non dipende unicamente dal Parco, in dieci anni qui sono triplicati bed&breakfast e aziende agrituristiche”.
Italia Nostra sostiene che in Sardegna, con una gestione diversa rispetto all’attuale, si possa raggiungere quota 2 milioni di visitatori all’anno. “La cifra, pur consistente, è ragionevole” conclude Burlando. Ragionevole come la tesi di Giampiero Sammuri, presidente nazionale di Federparchi (www.federparchi.it): “I parchi, e le aree protette in generale, non sono un costo ma sono un investimento, capaci di moltiplicare le risorse investite. Prendiamo le aree marine protette (27 siti, 228mila ettari di mare, 700 chilometri di costa, ndr). Secondo l’Unep, organismo delle Nazioni Unite che si occupa di ambiente, lo scorso anno l’Italia ha investito 3,5 milioni di euro a fronte di una performance delle stesse -in buona parte per flussi turistici- pari a 38 milioni di euro, dieci volte di più”.

Difendere la natura, però, non è soltanto ragioneria. “Il saldo economico positivo è un rafforzativo ma non è vincolante -sottolinea Antonio Nicoletti, responsabile aree protette per Legambiente-. Ci sono dei servizi svolti dai parchi che sfuggono a logiche meramente economiche. Penso alla CO2 assorbita dagli alberi, ad esempio. O alle persone che ogni anno transitano per le aree protette: 100 milioni!”. Chi ha provato a quantificare le ricadute sociali di progetti di tutela rispetto al territorio interessato è stato il Parco della Majella (www.parcomajella.it), in Abruzzo, uno dei 24 parchi nazionali italiani che quest’anno hanno ricevuto complessivamente dallo Stato contributi per 63 milioni di euro. Quello della Majella si estende per 74mila e 900 ettari. “Dal 2005 abbiamo iniziato un percorso di valutazione economica finalizzato a dimostrare che la conservazione paga -ci spiega il direttore Nicola Cimini-. Il Centro regionale di studi e ricerche economico e sociali (Cresa) ha stimato in oltre 6 milioni le presenze turistiche annuali nel parco. A seconda della tipologia dell’utenza (stranieri, italiani, abruzzesi stessi), è stato calcolato un valore economico del turismo solo nel Parco della Majella per oltre 420milioni di euro. Il solo incremento della spesa turistica dovuta all’effetto-parco (ecoturismo) e l’occupazione diretta e indotta dal Parco, hanno generato un aumento della spesa complessiva soggetta a tassazione di oltre 130 milioni di euro. 
Non solo: se consideriamo i servizi eco-sistemici, l’artigianato, la promozione del territorio, le attività di agricoltura biologica, abbiamo calcolato che i parchi d’Abruzzo contribuiscono alla produzione di un Pil ambientale che si attesta ad 1 miliardo e 100 milioni di euro. All’anno. Considerando poi i parchi e le aree protette regionali, si tocca quota 4 miliardi e mezzo di euro. Il Pil dell’Abruzzo è di 28 miliardi di euro. Significa che un settimo della cosiddetta ricchezza regionale dipende dalla tutela dell’ambiente. Sembra poco?”. Se si considera che il Paese riconosce a questo ente 2 milioni di euro l’anno -incassandone 26 milioni per le tasse- il dato è evidente. Il rapporto costi e benefici della tutela naturale è sbilanciato. Lo è a favore della tenuta idrogeologica del territorio: “Quando metti un freno allo sfruttamento boschivo, all’agricoltura intensiva, all’erosione della terra -prosegue Cimini-, inizi a prevenire allagamenti come quelli verificatisi in novembre nel centro Italia”. Dunque, tenendo ferma la cifra media di spesa giornaliera a 70 euro per visitatore, moltiplicando questo dato per 100 milioni, il risultato è 7 miliardi di euro. Solo alla voce turismo. Dato che triplica se consideriamo il Pil ambientale, superando i 20 miliardi di euro. I parchi nazionali vi contribuiscono, e non poco. A fronte di una spesa pubblica di 63 milioni di euro.
Dall’Abruzzo spostiamoci in Piemonte e in Valle d’Aosta. Verso il Parco nazionale del Gran Paradiso (www.pngp.it), 71mila ettari e 13 comuni coinvolti. 88 persone in pianta organica, tra guardie e amministrativi. “Come visitatori annui siamo il secondo o terzo parco in Italia, con 1 milione e 900mila presenze -ci racconta Italo Cerise che ne è il presidente-. Secondo una stima prudente, il valore di una giornata media di quei visitatori ammonta a 70 o 80 euro. Fate voi i calcoli”. Se il finanziamento pubblico ammonta a 6 milioni di euro l’anno, il Parco è al centro di un sistema di economia locale e virtuosa che spazia dall’agricoltura biologica, all’artigianato tipico, dalla ristorazione alla ricettività. Sistema che si serve -in taluni casi- di cooperative sociali capaci sia di stilare progetti, sia di metterli in campo. “Dallo sviluppo rurale, al mantenimento dei corsi d’acqua, dalla biodiversità alla ricerca scientifica”. Quante persone hanno un’occupazione indiretta grazie al parco? “Le confesso che non mi sono mai messo a contarle, effettivamente è interessante. Posso però stimarle intorno al centinaio”.
La tutela è rilancio del territorio e la natura è volano dell’economia. Un binomio noto anche al Parco naturale Adamello Brenta (www.pnab.it) -uno degli otto geoparchi italiani, insieme a quello sardo-. Qui le presenze annue si attestano intorno a 7 milioni, a fronte di una crescita del 25% degli arrivi. Il direttore, Roberto Zoanetti, ci racconta i risultati dell’analisi condotta sui “valori del Parco oltre il Parco”. “La valutazione economica che abbiamo messo a punto si basa su vari indicatori, tra cui i benefici dipendenti da dieci servizi ecosistemici (fornitura d’acqua, protezione da eventi dannosi come il dissesto idrogeologico, mantenimento di habitat per la biodiversità, assorbimento della CO2), che erogano all’anno 140 milioni di euro”. Valori che si affiancano a politiche di promozione dell’educazione ambientale e di quello che Zoanetti chiama “sviluppo economico qualitativo”, come il turismo. “I dati in nostro possesso certificano che il 50% delle persone che frequentano il parco lo fanno perché lì c’è il parco. Nel senso: la tutela e la valorizzazione incidono sulle motivazioni stesse. Il movimento turistico classico -che ignorava l’elemento natura- ora inizia a capire il valore dell’area protetta”. E il fattore natura ritorna anche in materia di qualità: “Abbiamo avviato due ‘progetti qualità’ sul miele e il formaggio, garantendo supporto ai piccoli produttori locali che garantiscono standard definiti a monte”.

Torniamo nel Sulcis. Poco dopo la nostra partenza si recano sul posto i ministri Corrado Passera e Fabrizio Barca. La destinazione è Serbariu, a Carbonia. Non porteranno con sé una credibile proposta di riforma del più grande Parco geominerario del mondo, ed è il motivo per cui Pinna inizia lo sciopero della fame. Poco prima di decollare a bordo di un elicottero, mentre i minatori esausti dai rinvii rovesciano le transenne, i due ministri mettono la firma su un protocollo d’intesa che prevede oltre quattrocento milioni di euro in favore del “carbone pulito”, delle energie rinnovabili (l’eolico) e del turismo -anche se non è specificato sotto quale forma-. Ed è proprio all’eolico che fa riferimento un ritaglio della stampa locale di qualche mese fa. Fanny lo tiene nella borsa di tela dove ha accumulato carte relative al Parco. Si parla di P3, faccendieri e interessi. Un’ipotesi che Alberto Monteverde, capo ufficio stampa del Parco, respinge al mittente. Problemi non ve ne sono, l’ente si occupa per lo più di promozione, e non della gestione -demandata di fatto all’Igea-, e le “osservazioni” dell’Unesco si riferiscono “principalmente” alla scarsa dotazione dell’organico, undici persone con contratto interinale. Pensate che l’immobilismo sia collegato a logiche speculative?, chiediamo a Fanny. “Non lo sappiamo. L’unica cosa certa è che un Parco debole, mal gestito e mortificato è molto più attaccabile rispetto a un Parco che funzioni”. Anche Tiziana e Marco condividono. Gestiscono un b&b nel centro di Cagliari. “Ho vissuto 10anni a Bologna, poi ho scelto di tornare. Volevo trasferirmi ad Iglesias, per sfruttare l’indotto del Parco -racconta Tiziana-, ma ho cambiato idea. Nonostante le potenzialità, quell’area non esiste ancora. Ci penserò più avanti. Forse, tra vent’anni”. —
 

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