Cultura e scienza / Intervista
Paolo Zellini. Una prospettiva matematica
Paolo Zellini insegna Analisi numerica all’Università di Roma Tor Vergata, e nel suo ultimo saggio racconta le origini della materia, spiegando perché non è affatto astratta. Gli algoritmi che governano i computer -spiega- derivano da schemi computazionali usati in india 4 millenni fa
“Gli enti matematici non sono morte composizioni artificiali, ma esseri vivi e reali, con una loro coerenza e intenzionalità in grado di orientare la nostra ricerca”. Paolo Zellini è professore di Analisi numerica all’Università di Roma Tor Vergata. Adelphi ha da poco pubblicato un suo saggio articolato che s’intitola “La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini” (Adelphi, 2016). Un testo divulgativo e complesso che porta il lettore dentro la matematica -attraversandone la storia, la simbologia, i rituali- e fuori la matematica -verso la rivoluzione digitale e il “principio di delega” che muove il rapporto tra l’uomo e la macchina, il calcolatore-. Sembra non avere confini: è un libro “aperto” da una frase interrogativa e chiuso da “smisuratamente”. Si propone di smontare il luogo comune per cui i matematici siano appassionati solo a formalismi astratti, a quella che Zellini definisce un’“aridità pura”. E l’alleato più affascinante dell’autore è la prospettiva storica, che si spinge fino agli altari della civiltà dell’India vedica (II millennio a.C.).
Professor Zellini, perché è importante risalire al passato per comprendere la matematica?
PZ Ricercare le origini del pensiero, anche di natura matematica, è quasi un bisogno dell’anima. Che cosa sono i cerchi, i quadrati, i triangoli? A che cosa sono serviti i numeri, il contare, le operazioni più elementari? Per rispondere tocca risalire all’antichità e cercare lì, se possibile, quali sono le origini. “Origine” è una parola minata: bisogna tener conto di chi, come Nietzsche e Foucault, ha svalutato il progetto della ricerca delle origini del pensiero, una sorta di curiosità oppressiva. Sta di fatto che nella matematica si può rintracciare qualcosa. Ci sono delle testimonianze e fonti che suffragano l’ipotesi dell’origine rituale della matematica. Giungono soprattutto dalla Grecia e dall’India. Prometeo è il padre del numero, per Eschilo. L’oracolo di Apollo per rimediare a una pestilenza consigliò di raddoppiare un altare di forma cubica, evidenziando i problemi più ardui della matematica antica: la duplicazione del cubo, la quadratura del cerchio, la trisezione dell’angolo.
Giunge alla conclusione che la matematica sia una scoperta e non un’invenzione.
PZ Ricordo Palamede, eroe della guerra di Troia non citato da Omero, un semi-dio istruito da Chirone. Fu lui a “inventare” le lettere e i numeri, i pesi e gli ordini delle stelle, e poi scoprire che gli astri rispondono alle leggi. È lui che intuisce che gli eserciti dovessero essere ordinati, anticipando la tassonomia. Palamede non “inventò” qualcosa ma fu lui ad essere trovato dalle cose che scoprì. E le cose che scoprì trovarono in lui il mezzo migliore per essere divulgate.
Dalla Grecia si sposta all’India antica.
PZ Alla civiltà dell’India vedica, dove si ritrovano veri e propri trattati che parlano della costruzione di altari. Avevano forme geometriche di vario tipo -quadrati, rettangoli, cerchi- ed erano costruiti in mattoni, a cinque strati. Venivano chiamati gli altari del fuoco (Agni). I problemi dominanti riguardavano l’equivalenza geometrica, ovvero trovare come un quadrato si potesse ricondurre a un cerchio e viceversa. L’altro tema dominante è quello della crescita delle grandezze. Questi altari dovevano poter essere costruiti in scale diverse, fino ad ingrandimenti di 100 volte, conservando la stessa forma. È un tema identico a quello posto dall’oracolo di Apollo: costruire forme in successione simili tra loro a partire da un seme iniziale. E non è un caso che in uno di questi trattati vedici si parli di altare come di un seme.
Che cosa sono i cerchi, i quadrati, i triangoli? A che cosa sono serviti i numeri, il contare, le operazioni più elementari? Per rispondere tocca risalire all’antichità
Sono testimonianze vive?
PZ Sì, questa non è una ricerca spericolata di simbologie. Le tecniche matematiche attuate per realizzare quei progetti -come si ingrandisce una figura conservandone la forma- hanno gettato le basi per una scienza degli algoritmi. Intendo dire che quegli schemi computazionali usati in India ma anche in Mesopotamia e poi ripresi dalla matematica araba e in qualche modo trapiantati nella tradizione geometrica greca, hanno attuato e dato corpo alla scienza del calcolo moderna. Dal 1600 fino ad oggi. Nella pancia del computer, al netto di complessità scontate, per carità, si trovano schemi di base molto affini a quelli che ho brevemente ricordato. Questo vuol dire che quegli schemi inventati per ragioni e motivazioni rituali poi si sono rivelati di un’efficacia impressionante, potenza pura.
Alla “società dell’algoritmo” si tende ad associare qualcosa di negativo, occulto, rischioso. Come se la macchina potesse spodestare l’uomo. Condivide?
PZ Ricordo a me stesso un concetto banale: gli algoritimi in realtà sono già delle macchine. Non sono delle macchine costruite, non sono robot. Ma la base del fondamento del computer è l’algoritmo. L’informatica è una scienza degli algoritmi. Che poi è la macchina di Alan Turing (matematico britannico, 1912-1954, ndr). L’algoritmo esegue in modo letterale le nostre operazioni. È questa esecuzione che può non rispecchiare un complesso di motivazioni che l’uomo ha concepito e non la macchina. Un complesso che potrebbe essere oscuro anche a noi stessi. Tutto è mosso da un principio di delega, un processo che poi alla fine deve dare un risultato perentorio, in base al quale decidiamo se spedire un missile o no, per dire.
Qual è il primo obiettivo del suo volume?
PZ Ritrovare le motivazioni originarie di certi sviluppi della matematica. Penso che possa essere un elemento di estremo arricchimento culturale, concettuale, e che finalmente si possa far capire qualcosa di quella che altrimenti resta una “sfinge incompresa”, per citare Baudelaire.
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