Panela e pappagalli. La scommessa andina – Ae 23
Numero 23, dicembre 2001El Paraiso, Ecuador: qui, a due ore e mezza da Quito, sull'altopiano andino ricoperto di piantagioni di canna da zucchero, ci arrivi solo con un buon pick-up a trazione integrale, gli ultimi 35 chilometri sono di strada…
El Paraiso, Ecuador: qui, a due ore e mezza da Quito, sull'altopiano andino ricoperto di piantagioni di canna da zucchero, ci arrivi solo con un buon pick-up a trazione integrale, gli ultimi 35 chilometri sono di strada sterrata e buche.
“E immaginati quando piove, è tutto fango”, sottolinea Paulina Rodriguéz, la mia guida. Lavora per Mcch, fondazione ecuadoriana che da 16 anni collabora con piccoli produttori locali (artigiani e agricoltori), aiutandoli a trovare uno sbocco migliore sul mercato e pagandoli un prezzo giusto. Tra gli altri ci sono anche i contadini della Copropap, cooperativa di produttori di zucchero di canna (la panela) di El Paraiso, municipalità di Pacto.
Quando arriviamo è già buio. Ad aspettarci troviamo il gerente della Copropap, Ruben Tufiño, e una decina di compañeros soci della cooperativa. Alcuni di loro si sono fatti 15 chilometri a piedi per incontrarci.
La panela è la vita di Ruben Tufiño da 15 anni, ma altri soci, ti racconta, la producono da 50 anni, quando si passò dalla distillazione clandestina di alcool di canna alla produzione di zucchero.
E anche la cooperativa è molto giovane, fondata nel 1992. “Prima di organizzarci -racconta- lavoravamo in forma individuale, ognuno lottando per conto proprio, ognuno con i suoi problemi. Solo dopo anni abbiamo capito che per risolverli dovevamo unirci”. Perché qui un anello fondamentale della catena dello zucchero sono gli intermediarios, gli intermediari che acquistano i sacchi di zucchero grezzo e lo rivendono sul mercato locale o ai traders.
La produzione mondiale di zucchero (sia di canna che di barbabietola) nel 1999-2000 ha superato i 135 milioni di tonnellate. L'Ecuador è al cinquantaseiesimo posto nell'elenco dei produttori, con 466 mila tonnellate, 57 mila quelle destinate all'esportazione. Il settore dello zucchero rappresenta l'1,4% del Prodotto interno lordo nazionale.
“Prima di fondare la cooperativa eravamo costretti ad accettare il prezzo che l'intermediario decideva di pagarci -dice Tufiño- ma vendevamo solo quando lui ne aveva bisogno. Era una situazione davvero dura, perché non riuscivamo a ottenere prezzi giusti per il nostro lavoro, che comunque si svolgeva in condizioni precarie, con mezzi elementari”. Ma perché la cooperativa? “Perché crediamo in questa forma associativa: abbiamo necessità comuni, i diritti sono gli stessi per tutti, tutti i soci godono delle stesse condizioni, senza preferenze anche se produciamo quantità differenti di zucchero”.
Il giorno dopo, alle 7 del mattino, ci portano a visitare le fincas, le aziende agricole della cooperativa. In piedi sul cassone del pick-up con altri lavoratori arrivo all'”impianto”: tettoie di legno che riparano le varie fasi di produzione. Le canne da zucchero, a terra in mucchi, sembrano dei grossi bambù gialli, lunghe dita scheletriche. Il sole è già caldissimo, come fosse mezzogiorno. Siamo vicini all'Equatore, del resto, anche se a mille metri di altezza.
Dal 1995 la Copropap vende quasi tutta la panela prodotta a Mcch, che la esporta poi attraverso le organizzazioni di commercio equo e solidale, in Italia Ctm Altromercato e Commercio Alternativo. Il primo vantaggio del fair trade è il prezzo, Mcch assicura acquisti regolari e una cifra fissa: i produttori di zucchero ricevono, a seconda della qualità, tra i 24 e i 26 dollari (tra le 53 e le 57 mila lire) per un sacco da 45,5 chili. Il mercato locale -per esempio il negozio o l'intermediario- può pagare anche 20 dollari a sacco, ma il prezzo oscilla molto a seconda del periodo.
La cooperativa vende tra i 150 e i 170 quintali di zucchero ogni settimana, per un ricavo di circa 20 mila dollari al mese. Sufficienti per vivere? “Sì, anche se speriamo sempre di poter aumentare il prezzo di vendita, per investire di più e migliorare la qualità del prodotto. Abbiamo abbastanza soldi per vivere, ma non per grandi investimenti: quindi spesso ricorriamo a dei prestiti”.
Per poter esportare, gli agricoltori della Copropap devono rispettare precisi standard qualitativi. Le vasche per la cottura del succo di canna, per esempio, devono essere in acciaio inox e non in legno o ferro com'è normale in questa zona. Oppure la costruzione di tettoie per coprire le vasche di cottura e le diverse fasi di produzione: “Prima il prodotto era esposto alle intemperie, all'aperto, dove esiste un forte pericolo di contaminazione”.
La panela di questa zona è biologica, perché per la coltivazione non vengono usati prodotti chimici, e così lo zucchero Copropap ha ottenuto la certificazione “bio” per la vendita sul mercato europeo.
“Mcch offre assistenza tecnica ai produttori -spiega Paulina Rodriguéz- proponendo loro questi cambiamenti tecnologici: non sono obbligati a farli ma sono necessari per la certificazione. Tutte le fattorie che vogliono produrre per Mcch devono ottenerla, perché è una caratteristica richiesta dal mercato in cui si inseriscono i nostri prodotti”.
Uno dei compañeros scortica un pezzo di canna e inizia a masticarlo. Ne offre anche a me, il succo è fresco e dolcissimo. Per estrarlo e farne zucchero le canne vengono fatte passare nel “motore” e spremute. Ruben ce lo mostra con un certo orgoglio. Capisco perché alla finca successiva (“Questi non sono nella cooperativa”): la lavorazione delle canne è ancora tradizionale e il torchio per la spremitura viene azionato da due cavalli.
Per poter vendere a Mcch -e nel circuito del commercio equo- bisogna rispettare anche degli standard sociali. Alcuni vengono stabiliti da Flo, la Fairtrade labelling organizations. Come il lavoro minorile, che è proibito, mentre in Ecuador è normale. “Non è sempre facile far capire e rispettare questa regola ai produttori”, conferma Paulina.
Ma qual è la situazione alla Copropap? “Di solito non ci sono bambini che lavorano da noi, per una questione di sicurezza -dice Tufiño-, però a volte collaborano con incarichi che possono svolgere in modo sicuro, che non comporti alcun rischio per la loro salute. In realtà tutta la famiglia è coinvolta nella produzione”. E in effetti è quello che vedo da un altro compañero, al villaggio di Buenos Aires: due ragazzini aiutano a setacciare la panela. Ma oggi è venerdì, ci spiegano, e non c'è scuola perché il maestro se ne torna a Quito per il fine settimana.
Mcch lavora anche per l'ultimo anello della catena, i salariati delle fincas. Per i 16 soci della Copropap lavorano 200 persone, alcuni familiari ma la maggior parte occasionali, nei giorni del raccolto e della produzione dello zucchero. Prima dell'arrivo di Mcch guadagnavano 3 dollari al giorno, oggi tra i 5 e i 6 più il pasto.
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Il progetto Fileras guarda all'Europa
L'obiettivo di Fileras è migliorare la vita dei produttori. È il nuovo progetto di Cric, ong di Reggio Calabria, Ctm Altromercato, e l'ong Cospe. Finanziato in parte da Unione Europea e dalla Provincia di Bolzano, Fileras è partito da quattro mesi con base operativa presso la sede ecuadoriana del Cric a Quito. A seguirlo Francesca Callegarin, una giovane tecnologa alimentare: “L'idea è quella di migliorare le condizioni dei produttori aumentandone le esportazioni verso l'Europa -spiega Francesca-. Ma per far questo bisogna migliorare la filiera produttiva, da qui il nome del progetto”. Le organizzazioni promotrici si sono date tre anni di tempo e hanno contattato associazioni locali, tra cui Mcch. Vengono coinvolti produttori alimentari di marmellate, zucchero, cereali e leguminose, funghi secchi e leguminose. Prodotti già presenti nelle botteghe del commercio equo europee.
Il primo passo è un corso di formazione per i produttori, incentrato sul rispetto delle norme igieniche e sull'importanza di mantenere una qualità costante dei prodotti. Per alcune strutture verranno acquistate macchinari che ne facilitino il lavoro. Il secondo anno del progetto prevede la realizzazione di un centro servizi con un laboratorio attrezzato per il controllo della qualità. “Ma bisognerà verificare la sostenibilità di questo centro -ammette Francesca-: cosa accadrà quando finirà il progetto e quindi i finanziamenti?”. Per il terzo anno i produttori dovrebbero essere formati e riuscire a mantenere gli standard raggiunti.
Il mercato globale è un affare per dieci Paesi
Lo zucchero arriva da 110 Paesi in tutto il mondo. La maggior parte viene consumata dagli stessi produttori e solo il 25% viene commercializzato a livello internazionale.
I maggiori produttori sono Paesi del Sud con 87 milioni di tonnellate prodotte nel 2001 sulle 128 totali. In testa stanno Estremo oriente (39,5 milioni di tonnellate) e America Latina e Caraibi (37,1 milioni di tonnellate). Al Nord si producono 41,8 milioni di tonnellate di zucchero.
I più grandi coltivatori di zucchero sono India, Brasile, Cina, Stati Uniti, Tailandia e Messico. I due maggiori esportatori sono sempre Brasile e Unione Europea.
I primi dieci si accaparrano il 75% delle esportazioni mondiali.
Dopo il raccolto e una prima raffinazione, lo zucchero per l'export passa nelle mani dei traders, aziende che comprano e vendono il prodotto. Tra i nomi più grossi la Cargill Sugar, la divisione zucchero dell'omonima multinazionale Usa. Ogni anno commercia e trasporta 4 milioni di tonnellate di zucchero da 65 Paesi.
Le maggiori multinazionali dello zucchero acquistano il prodotto, si occupano della trasformazione, della raffinazione, dell'impacchettamento. Poi lo vendono al dettaglio. Un colosso è l'inglese Tate & Lyle Plc (e la controllata americana Tate & Lyle North American Sugars Inc.), che nel 2000 ha fatturato 12.900 miliardi di lire. Tra i maggiori concorrenti ci sono Beghin-Say, italo-francese (fa capo a Eridania Beghin-Say, divisione agroalimentare del gruppo Montedison), con un fatturato nel 2000 di oltre 3.800 miliardi di lire; la tedesca Südzucker Ag (9 mila miliardi di lire); British Sugar (fa capo alla Associated British Food Plc che nel 2000 ha fatturato 14.100 miliardi di lire). Negli Stati Uniti hanno sede altre grandi aziende dello zucchero, come la Imperial Sugar Company (4 mila miliardi di fatturato)
Anche l'Italia produce zucchero (di barbabietola): sono 77.600 le aziende bieticole nazionali, 23 gli zuccherifici. 3.100 pezrsone lavorano stabilmente nelle fabbriche, mentre 5.100 sono gli stagionali. Il fatturato industriale (dati del 1998) è stato di 2.300 miliardi di lire, quello agricolo di 1.128 miliardi.
I produttori nazionali più grandi sono Eridania Beghin-Say con il 23,9% della quota di mercato, seguita da Sadam Zuccherifici con l'8,9% e da Inagra con il 7,6%.
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Sedici anni per mano
ll'inizio di questa storia ci sono dei tessuti, una donna di Quito Sur, la zona più povera della città, un missionario italiano, padre Graziano Mason. E una sigla strana, Mcch.
È Mason che la pensa, nel 1985, per dare uno sbocco commerciale a piccoli artigiani e campesinos, pagando i loro prodotti un prezzo giusto.
“Maquita Cushuncich Comercializando como Hermanos” è un mix di lingua indigena quichua e spagnolo che vuol dire “Diamoci la mano commerciando come fratelli”.
In 16 anni di strada se n'è fatta molta e da quella prima donna di Quito Sur si è arrivati agli oltre 250 gruppi di base con cui la fondazione collabora oggi.
Dentro ci sono gli indigeni della “catena della povertà”, come chiamano qui la regione andina, così come i coltivatori di cacao della costa.
Anche la sede di Mcch è a sud di Quito. Una serie di edifici bassi protetti dagli sguardi e da eventuali intrusioni da un muro, un pesante cancello di ferro e una guardia armata.
Qui ci sono gli uffici, il magazzino e i laboratori per impacchettare lo zucchero di canna.
E c'è anche un'esposizione dei diversi prodotti: maglioni, ceramiche, marmellate, funghi. Sembra di entrare in una grande bottega del commercio equo delle nostre. Mcch aveva un altro negozio a Quito, ma ha dovuto chiuderlo, perché, mi dicono, la crisi economica si è portata via molti turisti e quindi gli affari migliori.
I negozi che invece sono stati mantenuti sono le tiendas comunitarias (nella foto).
Ce ne sono 17 in tutto il Paese, nelle zone più povere delle grandi città, e vendono prodotti di base -dai legumi ai detersivi- a prezzi accessibili.
È uno dei progetti dell'area sociale di Mcch, che non nasce come semplice compratore di alimenti e artigianato, anzi: “Il commercio -spiega Onorio Jimenez- è legato a uno sviluppo comunitario, familiare e personale”.
Da qui nascono i percorsi di formazione amministrativa, politica e sociale per i produttori. Con questi si collabora su tutto, dalla determinazione del prezzo, che deve rispecchiare i reali costi di produzione, allo studio dei nuovi prodotti.
L'ufficio design di Mcch è una stanza colorata di stoffe, bozzetti e prove di ceramiche: grafici professionisti studiano i cataloghi fatti arrivare direttamente dall'Europa per preparare forme che piacciano al gusto “occidentale”.
È quello che succede anche a certi alimentari, come le marmellate: troppo zucchero per i nostri palati e i nostri girovita. Si perde un po' di tradizione latinoamericana o indigena nei nuovi prodotti, ma adattarsi è l'unico modo per continuare a vendere.
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I prodotti certificati dal marchio del commercio equo
Lo zucchero equo di canna venduto nelle botteghe del mondo italiane viene importato da due organizzazioni. Dall'Ecuador di Mcch arrivano il “Dulcita” di Ctm Altromercato e “Jarabe” e “Guarapo” di Commercio Alternativo. Dalle Filippine entrambe importano lo stesso prodotto dell'associazione Preda: il “Mascobado” di Ctm e il “Muscovado” di Commercio Alternativo, che vende anche lo zucchero “Kambà-i” prodotto da Coprosa in Paraguay.
Lo zucchero del commercio equo è certificato da Flo, Fairtrade labelling organization, una struttura-ombrello che raggruppa i marchi di garanzia europei del settore. I produttori e gli importatori iscritti ai registri di Flo devono rispettare criteri sociali ed economici per poter vendere i prodotti come “fair trade”.
Flo incentiva l'iscrizione ai propri registri di piccoli produttori riuniti in organizzazioni indipendenti, come una cooperativa o un'associazione, che dev'essere controllata democraticamente dai propri membri. Gestione e amministrazione devono essere trasparenti, con solidarietà e mutuo aiuto come principi di base. Sono bandite discriminazioni di tipo politico, razziale, religioso o sessuale. L'organizzazione dev'essere aperta a nuovi membri e indipendente da partiti politici.
Sostenibilità e qualità sono i concetti chiave a cui i produttori devono ispirarsi. Per questo sono necessari sviluppo sociale, creando migliori condizioni di vita per i produttori; “partecipazione umana”, in particolare delle donne che devono avere un ruolo attivo all'interno del gruppo; sviluppo economico attraverso una diversificazione della produzione; pratiche agricole sostenibili, che rispettino l'ecosistema e le risorse naturali.
Gli importatori devono garantire ai produttori un prezzo superiore a quello di mercato, secondo tabelle definite dalla stessa Flo, e fornire -quando è necessario- un prefinanziamento ai produttori fino al 60% del valore del contratto. In questo modo gli agricoltori possono procurarsi attrezzi e materiali necessari senza indebitarsi.
Tra balsa e zanzare
pappagalli al giorno d'oggi non li vuole più nessuno. E non parliamo dei tucani. Qui, nell'Amazzonia ecuadoriana, la vegetazione lotta con l'uomo per la conquista degli spazi e gli artigiani del legno di balsa sono come le zanzare, ovunque. Ma sono anche tra i più poveri perché il mercato della balsa è in crisi. Ce ne accorgiamo a El Puyo, cittadina della regione amazzonica di Pastaza a un'ora di aereo dalla foresta e a sei d'auto da Quito. Siamo qui in tre per visitare i produttori di Mcch. Il primo che incontriamo sta lavorando a un porta cd, un nuovo prodotto che arriverà anche in Italia l'anno prossimo. Due pappagalli gialloarancio se ne stanno appesi per il becco a un filo steso, ad asciugare i colori vivaci. È il prodotto tipico di questa regione, insieme con la malaria da cui mette in guardia un volantino appeso a una delle pareti della casa.
La balsa è un legno chiaro, facile da lavorare e leggerissimo. Ottimo per farne soprammobili da piazzare ai turisti. Ma il mercato è saturo e i produttori spesso fanno la fame. Tanto che anche Mcch non riesce a pagare prezzi diversi dagli intermediarios. La fondazione punta piuttosto allo sviluppo di nuove linee di oggetti che attirino il consumatore. Da qui sono nate le farfalle rosa o rosse grandi come due mani, o i fiori di legno e i mobili per bambini.
“Il futuro? Non so se continuerò con la balsa -mi dice Luis Nuñez- forse tenterò con il turismo”. La parte più difficile del lavoro è far capire agli artigiani che dopo tanti anni di volatili multicolore, per sopravvivere bisogna aggiornarsi, cambiare forme e tecniche.
“Proprio come per il forno”, sottolinea Augusto Estrella di Mcch. Il forno? La fondazione ha deciso di regalarne uno a Sacha Huarmi, associazione di donne indigene che produce ceramiche, qui a El Puyo. “È stato difficile far capire che questo avrebbe migliorato la qualità dei loro oggetti e quindi le vendite”. Le donne di Sacha Huarmi vivono in povertà non diverse da quelle dei produttori di balsa. La baracca in cui ci ospitano ti chiedi come faccia a stare in piedi e come faccia le gente a passarci la vita, così appollaiata su un cumulo di terra e fango, un telo di plastica a riparare il tetto dalle piogge, il pavimento in terra battuta. Ma vendendo le ceramiche, le donne di Sacha Huarmi hanno comprato un terreno dove costruiranno la sede dell'associazione e un'esposizione dei loro prodotti. Alla fine siamo in sei a trasportare dal pick-up questo benedetto forno che pesa qualche quintale, per piazzarlo dove verrà utilizzato: “Ma ci abbiamo messo un anno a convincerle”.
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Viaggio nel Paese da un dollaro
L'Ecuador è un Paese da un dollaro. Sono le banconote più sporche, rovinate e usate. Come spesso al Sud, anche qui si vive di piccolo commercio, di piccolissime spese. Lo capisco quando il tassista che mi porta in aeroporto dice di non avere il resto per 20 dollari: la corsa ne costa cinque ma lui si accontenta di prenderne solo tre.
“E sai qual è la seconda fonte delle entrate dopo il petrolio?”, mi chiede Margarita. Le banane, penso, ma sbaglio: “Sono le rimesse degli immigrati”.
Il 15% degli ecuadoriani lavora all'estero, in Italia, Spagna e Usa (Miami) in particolare. È uno degli effetti della precaria economia del Paese, che affonda le radici negli anni '70, quando l'Ecuador inizia a indebitarsi con l'estero, per arrivare al giugno del 2000 con un debito di quasi 16 miliardi di dollari (oltre 35 mila miliardi di lire). È del 1983 il primo accordo con il Fondo monetario internazionale e l'inizio delle politiche di aggiustamento strutturale. Da allora il Prodotto interno lordo (Pil) è diminuito, mentre è aumentata l'inflazione, con oscillazioni tra il 30% e il 90% annui. L'inflazione accumulata tra luglio 1999 e luglio 2000 era del 102%. Per rallentare questo processo, l'anno scorso la moneta locale, il sucre, è stata sostituita con il dollaro statunitense. “Così l'inflazione è diminuita, ma il costo della vita è triplicato -spiega Margarita-. E se prima il 20% della popolazione era povera, oggi la cifra ha raggiunto il 70%. È sparita la classe media”. Il 20% più povero vive con il 2,16% del Pil, mentre il 20% più ricco possiede il 64,57% del Pil. L'Ecuador è un Paese in cui per sopravvivere si spendono 118 dollari al mese, quando i salari minimi sono di 100 dollari. Il tasso di disoccupazione è del 10% e il 65% della popolazione è “sottoimpiegata”, cioè lavora nel settore informale, lucidando le scarpe per strada, per esempio, o vendendo qualsiasi cosa, dai giornali ai gelati alla frutta sui marciapiedi o ai semafori delle grandi città.
L'analfabetismo è al 19%, il 59,4% delle case non ha l'acqua potabile, il 22,3% è senza luce elettrica e l'84,3% senza il telefono. Il 48% della popolazione è denutrita, e la cifra sale a 64% nelle regioni a maggioranza indigena.