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Economia

Pagati due volte – Ae 68

Gli inceneritori smaltiscono rifiuti e vengono remunerati per questo; poi vendono l’energia prodotta e noi la ricompriamo a tre volte i prezzi di mercato. Perché i rifiuti sono considerati (solo in Italia) “energia rinnovabile”. Ma il gioco conviene se si…

Tratto da Altreconomia 68 — Gennaio 2006

Gli inceneritori smaltiscono rifiuti e vengono remunerati per questo; poi vendono l’energia prodotta e noi la ricompriamo a tre volte i prezzi di mercato. Perché i rifiuti sono considerati (solo in Italia) “energia rinnovabile”. Ma il gioco conviene se si brucia tanta carta e tanta plastica, e così si finisce col disincentivare la raccolta differenziata. Senza contare la diossina

Dopo quasi trent’anni torno a Figino, alle porte di Milano. Io qui ci ho fatto l’asilo. Per arrivarci seguo un camion della nettezza urbana. Gli sto dietro fino alla fine del suo viaggio, l’inceneritore di rifiuti di via Silla (infatti si chiama Silla 2), gestito dall’Amsa (l’ex municipalizzata). A vederlo da fuori è un impianto imponente e bello: nel 2003 è stato premiato dalla Triennale di Milano con la medaglia d’oro per l’architettura. L’unica cosa che non rassicura è il fumo che esce dalla ciminiera.

Il Silla 2 ha sostituito dal 2000 il vecchio impianto di incenerimento (il Silla 1) che funzionava quando andavo all’asilo. Sta a qualche decina di metri, e oggi è utilizzato come deposito. Quello di Figino è uno dei 48 impianti di incenerimento di rifiuti operanti in Italia. Li chiamano “termovalorizzatori”: metà stanno al Nord, soprattutto in Lombardia (13). La Lombardia, senza eguali nel Paese, brucia quasi la metà dei suoi rifiuti, il doppio rispetto al 2000.

Lo scorso anno in Italia abbiamo bruciato 3,5 milioni di rifiuti urbani (circa il 12% del totale), più un altro mezzo milione tra rifiuti speciali, sanitari e “pericolosi”. I dati sono del rapporto annuale pubblicato dall’Osservatorio nazionale dei rifiuti e dall’Apat (l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici del ministero dell’Ambiente), secondo il quale la media europea di incenerimento di rifiuti è attorno al 20%, con punte ben più alte nel Nord Europa. Ma stiamo arrivando: rispetto al 2003 da noi il ricorso all’incenerimento è cresciuto del 16%.

Qui a Figino arriva il 70-75% dell’immondizia di Milano, dopo la raccolta differenziata. Sono 200 mezzi al giorno; 450 mila tonnellate l’anno è l’ammontare concordato con la Regione Lombardia, spiega l’ingegner Giorgio Costa, responsabile dell’impianto. I camion scaricano i rifiuti in due enormi fosse da 5 mila tonnellate. Due gigantesche benne pescano l’immondizia, e l’infilano in un circuito di preselezione che separa la parte umida e quella ferrosa. Il resto finisce nei tre grandi forni che raggiungono la temperatura di 1.500 gradi centigradi. Il vapore che si ottiene (225 tonnellate l’ora) mette in moto la turbina che genera energia elettrica. L’elettricità prodotta basta per 80 mila famiglie e viene venduta all’Enel. D’inverno parte del vapore viene utilizzato per il riscaldamento delle case del quartiere Gallaratese, e in futuro sarà utilizzato per il nuovo polo fieristico di Rho-Pero.

Più che un impianto di smaltimento di rifiuti, quindi, questa è una centrale termoelettrica da 59 megawatt che invece di usare metano o carbone brucia l’immondizia prodotta dalla città. E infatti l’ingegner Costa prima lavorava in una centrale a carbone dell’Enel, in Liguria.

La differenza è che, per la legge italiana (e solo per noi), i rifiuti sono considerati una fonte rinnovabile di energia! Una serie di leggi (dal Provvedimento 6 del Comitato interministeriale prezzi -Cip6- al decreto Ronchi del 1999, passando per il decreto legislativo 387 del 2003 e il meccanismo dei “certificati verdi”) fa sì che l’energia elettrica prodotta dal Silla 2, come da tutti gli altri inceneritori, sia incentivata, e quindi pagata il triplo rispetto al normale, così come avviene per l’idroelettrico o il solare. Lo scorso anno in media ogni inceneritore ha ricevuto così quasi tre milioni di euro in contributi. Ma non è tutto.

“In un termovalorizzatore di rifiuti si incontrano due filiere, quella dello smaltimento dei rifiuti, e quella della produzione di energia” spiega Arturo Lorenzoni, docente e ricercatore all’Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente dell’università Bocconi di Milano. “Calcolare l’economia di un impianto vuol dire tracciare un confine. Il fatto è che un inceneritore non acquista il combustibile, anzi prende soldi per bruciarlo. Le amministrazioni locali pagano per portare all’inceneritore i rifiuti in media 110-120 euro a tonnellata”. Oggi un megawattora di energia prodotta da metano costa 50 euro, da carbone 40, da un impianto eolico 60, da una centrale idroelettrica anche 20 euro. Solo se i Comuni pagano per conferire i propri rifiuti gli inceneritori diventano concorrenziali sul mercato elettrico. Se così non fosse, chi gestisce l’impianto non rientrerebbe dei costi a meno di vendere energia a prezzi spropositati. Incentivi e conferimento rendono convenienti dal punto di vista economico i “termovalorizzatori”, specie se si tiene conto del costante aumento dei combustibili fossili di solito utilizzati per produrre energia elettrica. Anche per questo assistiamo a una corsa all’inceneritore. Già nel 2006 entreranno in funzione quattro nuovi impianti, e praticamente c’è in progetto un termovalorizzatore per ogni provincia d’Italia. Ma chi paga?

“Ciascuno di noi paga una tassa sui rifiuti, che finanzia quindi anche il conferimento all’inceneritore” spiega Federico Valerio, referente per Italia Nostra del progetto “Cittadini in rete per il riciclo” (
www.italianostra.org). “A questa va aggiunta la ‘tassa occulta’ sui rifiuti che paghiamo nelle bollette elettriche, dalle quali arrivano le risorse per incentivare le fonti rinnovabili”. Tutto questo va a vantaggio di chi gestisce gli inceneritori: ex municipalizzate e multiutility (come Amsa di Milano, Asm di Brescia, Hera di Bologna) e privati (tra questi il Gruppo Falck, Waste Italia spa, Fibe).

Costi sociali e benefici privati. Senza contare che gli inceneritori non inducono alla riduzione dei rifiuti, né al riciclo: per rientrare dell’investimento, un inceneritore ha bisogno di almeno 20 anni di attività a pieno regime. Un vincolo che all’estero è costato caro, come in Germania, dove i numerosi impianti costruiti negli anni scorsi oggi sono costretti a funzionare anche con rifiuti importati dall’estero. Questo perché riduzione dei rifiuti, raccolta differenziata e riciclaggio hanno sottratto plastica e carta dall’immondizia, abbassando notevolmente il “potere calorifico” dei rifiuti e rendendo antieconomico il loro incenerimento.

L’alternativa che consente, a parità di costi sociali, benefici diffusi è la raccolta differenziata. Chi è a favore della “termovalorizzazione” sostiene che non si può riciclare tutto e che quindi gli inceneritori servono. Ma da noi c’è ancora parecchio margine: la raccolta differenziata in Italia è ferma al 22,7%, ben al di sotto dell’obiettivo del 35% fissato per il 2003. Metà della differenziata poi non viene realmente recuperata, ma finisce comunque in discarica o bruciata. Al Sud (dove sono in progetto numerosi impianti, quattro nella sola Sicilia con capacità che supera il totale dei rifiuti prodotti nella regione) la percentuale di raccolta differenziata è ferma all’8%. È facile capire che bruciare un oggetto è la forma meno conveniente per assorbirne il valore “latente”. Infatti riciclare i rifiuti fa recuperare il triplo dell’energia rispetto al loro incenerimento, e oltretutto costa e inquina meno.

L’apparato per l’abbattimento degli inquinanti occupa buona parte dell’impianto di Figino. Le scorie prodotte (il 14% del bruciato) finiscono in Germania. Le ceneri (l’1% del bruciato) raccolte e mandate a discarica. I fumi vengo filtrati accuratamente, prima di essere sputati dalla ciminiera. L’ingegner Costa mi mostra il monitoraggio delle emissioni, costante sulle 24 ore: acido cloridrico, ossido di carbonio, polveri, ossidi di azoto, ammoniaca, ossidi di zolfo e mercurio sono al di sotto dei limiti consentiti.

E le diossine? “A norma di legge le rilevazioni vengono effettuate alla ciminiera ogni quattro mesi” mi spiega Costa. Una volta ogni quattro mesi! Ma mia madre sapeva dove mi mandava all’asilo?

Occhio al Nord

Sono 48 gli impianti di incenerimento di rifiuti in Italia (nella cartina), e quasi tutti producono energia. Per la maggior parte sono al Nord, 13 nella sola Lombardia. Nel 2004 sono stati bruciati 3,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani (il 12% circa del totale) più altro mezzo milione tra rifiuti speciali, sanitari e pericolosi, il 16,4% in più rispetto all’anno precedente.

Contro il mostro a colpi di fame

Adesso tocca agli insegnanti. Prima c’erano stati i religiosi. Tutti in sciopero della fame, contro un inceneritore.

Sono quasi due anni che, a turno, varie categorie di cittadini di Trento smettono di mangiare, per protestare contro il progetto dell’inceneritore Ischia Podetti-Trento, previsto dal piano provinciale. L’iniziativa, una delle più clamorose tra le tante in tutta Italia, è di Nimby Trentino, una onlus nata nel 2004. “Nimby” sta per “not in my backyard”, non nel mio giardino, ed è la “sindrome” che spesso si evoca per indicare in maniera riduttiva le istanze di protesta della società civile di fronte all’installazione di qualche impianto problematico. Però Nimby Trentino di ragioni ne ha molte. Quello di Trento sarebbe il secondo inceneritore del Trentino, dopo quello di Bolzano.

Anche se col crescere delle proteste (nel 2003 si è anche arrivati a un referendum popolare, fallito) la potenza del progetto è gradualmente scesa (oggi si parla di un termovalorizzatore da 110 mila tonnellate l’anno, in funzione a partire dal 2009, o al più tardi, dal 2010).

I rifiuti arriverebbero da tutta la regione (dove la raccolta differenziata è del 37%), diretti verso l’impianto che è situato a soli 5 chilometri in linea d’aria da piazza Duomo.

Il progetto sarà realizzato da Trentino Servizi, con la consulenza dell’Asm, che a Brescia ha realizzato il più grande inceneritore d’Europa. Per altre informazioni:
www.ecceterra.org

Troppi rischi da diossina

Dal punto di vista ambientale, il problema più grave relativo agli inceneritori sono proprio le sue emissioni, che si possono raggruppare in macro-inquinanti (anidride solforosa e carbonica, ossidi di azoto e di carbonio, acido cloridrico, fosforico e altri), particolati (polveri di varia dimensione, ceneri volanti e altri), micro-inquinanti (organici, diossine, metalli pesanti). Di queste le diossine sono le più pericolose.

La maggior parte delle persone ne hanno scoperto l’esistenza a partire dal 1976, quando un incidente all’Icmesa di Seveso, a Nord di Milano, ne fece fuoriuscire una quantità tale da determinare l’evacuazione permanente di migliaia di persone.

Nel 1990 l’Oms, Organizzazione mondiale della sanità, in un documento sulla pericolosità dell’esposizione alle diossine per la salute umana, ha indicato un livello di assunzione tollerabile pari a 10 picogrammi (cioè miliardesimi di milligrammo) per chilogrammo di peso corporeo, livello adottato da molti Paesi europei e dal Canada. Questo vuol dire che la dose massima per un uomo di 70 chili è di 700 picogrammi al giorno. Nel 1991 l’Epa, Ente protezione ambientale federale degli Usa, ha classificato le diossine come “probabili cancerogeni per l’uomo” e ha fissato un livello giornaliero di assunzione accettabile di 0,006 picogrammi per chilo, cioè circa 1.670 volte inferiore a quello indicato dall’Oms. Nel 1997 lo Iarc, Agenzia internazionale di ricerca sul cancro delle Nazioni Unite, ha classificato la Tcdd (la diossina di Seveso) come “cancerogena per l’uomo”, ma con molti altri possibili effetti sulla salute umana: danni genetici, al sistema riproduttivo e immunitario.

L’Unione Europea ha fissato un limite di emissione di diossine dagli inceneritori di 0,1 nanogrammi (milionesimi di milligrammo) per metro cubo di fumo.

I sostenitori dell’incenerimento sostengono che, essendo questo valore da 10 a 100 volte più basso delle emissioni riscontrabili nei “vecchi” inceneritori (quelli senza camera di post-combustione, dove i fumi sono trattati a temperature superiori agli 800 gradi per scomporre la molecola della diossina), questa misura riduce praticamente a zero il rischio sanitario da emissione di diossine. È falso.

Per dimostrarlo basta un calcolo: un inceneritore da 800 tonnellate di rifiuti al giorno emette ogni ora 210 mila metri cubi di fumi, che moltiplicati per 24 ore sono pari a 5 milioni di metri cubi al giorno.

Se rispetta il limite di 0,1 nanogrammi per metro cubo di fumi emessi, sono 500 mila nanogrammi di diossina al giorno. Trasformati i nano in picogrammi (cioè moltiplicati per 1.000), risulta che l’inceneritore emette 500 milioni di picogrammi di diossine al giorno. Prendendo per buona la dose massima consigliata dall’Oms di 700 picogrammi di diossina al giorno (per una persona di corporatura media di 70 chili), ciò significa che emette l’equivalente della dose massima giornaliera di 720 mila adulti. Perciò si spiega come mai nel gennaio del 1998, dopo aver riscontrato una abnorme presenza di diossina nel latte prodotto dalle fattorie vicine agli impianti (15 picogrammi per litro a fronte di un limite massimo consentito di 3), il sindaco di Lille, nel Nord della Francia, ha decretato la chiusura di tre inceneritori, oltre il divieto di vendita di quel latte. A queste si è aggiunta nel 2001 in Savoia (sempre Francia), la chiusura di un quarto inceneritore, per motivi analoghi: la contaminazione ha riguardato 216 aziende agricole e (fino a marzo 2002) si sono dovuti abbattere 2.187 capi di bestiame.

Nel luglio 2002 Greenpeace ha divulgato i risultati delle analisi su campioni di latte di fattorie in prossimità di inceneritori riscontrando dati molto allarmanti a Como, Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Pisa, Vicenza e Milano.

In 100 grammi di latte prelevato a Como erano presenti 700 picogrammi di diossina: limite massimo secondo l’Oms per una persona di 70 chili, ma più del triplo del limite assumibile da un bambino di 20 chili.

Più che incenerire meglio sarebbe riciclare

A chi sostiene che la raccolta differenziata non possa superare il 35, 40% del totale dei rifiuti, basta ricordare intere province, come Treviso, Vicenza e Bergamo, che, al contrario, hanno superato il 50%. Il record spetta al Consorzio Priula, che copre un terzo della Provincia di Treviso (23 Comuni con circa 200 mila abitanti): nel 2004 ha differenziato il 73,8% dei rifiuti, con una decina di paesi che stanno attorno all’80%. Lo stesso Consorzio solo nel 2002 differenziava la metà (circa il 35%), a dimostrazione che basta un po’ di impegno, organizzazione e tecniche adeguate (come la raccolta “porta a porta” con la tariffa legata al numero dei conferimenti di materiale non riciclabile) per fare il “miracolo” della (quasi) scomparsa dei rifiuti.

Il passo successivo alla raccolta differenziata è la riduzione. Il dato che rende merito ai comuni virtuosi è quello relativo alla quantità di rifiuti prodotta da ogni singola famiglia. Esiste una disparità fra i comuni che raccolgono i rifiuti con sistemi domiciliari rispetto a quelli che utilizzano i cassonetti in strada. Nella maggior parte dei casi i comuni che raccolgono porta a porta i rifiuti, e che magari incentivano il compostaggio domestico, producono meno di un chilo per abitante al giorno (la media italiana è un chilo e mezzo). Questo perché, oltre al maggior controllo dei conferimenti “impropri”, si può applicare una tariffa legata alla reale quantità di rifiuti prodotta da ciascuno.

Fino al 2003 il dato sulla produzione era inserito nel dossier “Comuni ricicloni” di Legambiente. Emergeva ad esempio che Torre Boldone (Bg), il comune italiano più riciclone (80,1%), produceva 1,1 chili per abitante al giorno, mentre Padula (Sa) 0,5. Differenze territoriali? Non sembrerebbe dato che anche Barzana, comune in provincia di Bergamo fra i più ricicloni (75,9%) aveva una media di 0,6 chili. Barzana, Padula con Sommacampagna (provincia di Verona) sono stati i comuni italiani con la minor produzione di rifiuti: 0,8 chili di rifiuti al giorno per abitante.

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