Obiettivo rifiuti zero – Ae 75
Produrre elettricità bruciando immondizia è un’idea ridicola: col riciclo il saldo energetico è quattro volte migliore. Parola di Paul Connett, esperto di fama internazionale. Puntiamo piuttosto a produrre gli oggetti quotidiani con materiali recuperabili. E al bando gli imballaggi Dopo…
Produrre elettricità bruciando immondizia è un’idea ridicola: col riciclo il saldo energetico è quattro volte migliore. Parola di Paul Connett, esperto di fama internazionale. Puntiamo piuttosto a produrre gli oggetti quotidiani con materiali recuperabili. E al bando gli imballaggi
Dopo cinque anni di governo affezionato agli inceneritori, chi si aspettava una virata di sinistra è rimasto deluso: il ministro Bersani ha fatto intendere che laddove ci sono resistenze popolari contro inceneritori e altri mega-impianti lo Stato potrebbe intervenire mediante agevolazioni fiscali mirate sul territorio.
Iniziative legislative del genere sono deleterie. Pensare di cavarsela con qualche prebenda alle popolazioni scettiche credo sia, tra l’altro, una spia dello scarso investimento intellettuale che si riserva alla questione rifiuti. Con leggerezza inaccettabile si affronta un problema ingigantendolo invece di risolverlo. Si pensa che costruire nuovi impianti sia la via dello “sviluppo” per l’Italia, si liquidano con quattro soldi le comunità recalcitranti e si mistifica il quadro veicolando l’idea ridicola che dai rifiuti abbia senso produrre energia tramite processi di combustione, quando è noto che con il riciclaggio il saldo energetico è di quattro volte migliore. Tutto ciò indica la scarsa profondità di pensiero che spesso ispira le scelte in questa materia. E dunque, la necessità di introdurre analisi e argomenti più seri che ci porterebbero a risposte intelligenti, razionali e compatibili con il rispetto della vita.
Nel caso del nuovo governo italiano, bisognerà convincerlo della necessità di inserire la questione rifiuti fra le priorità politiche tenendo conto di tutte le implicazioni sui fronti dell’inquinamento ambientale, del sistema produttivo, del modello dei consumi. Occuparsi seriamente di spazzatura significa fare un enorme salto di qualità nella gestione della cosa pubblica, imprimendo un’accelerazione delle buone pratiche ormai indifferibili sia dal lato delle industrie sia da quello dei cittadini.
Le buone pratiche, appunto: raccolta differenziata, riciclaggio, riuso ma anche (o soprattutto) riduzione della massa di rifiuti generati dalle nostre società. In particolare, che cosa ci suggerisce “Zero Waste”?
La necessità di far crescere industrie e comunità consapevoli insieme con leadership politiche intelligenti. Parlando della comunità, il nucleo della sua responsabilità è dar corso a una seria separazione dei rifiuti e alla loro raccolta differenziata porta a porta. E qui l’Italia può già vantare esempi eccellenti di territori che nel giro di un anno sono arrivati a riciclare oltre il sessanta per cento dei loro rifiuti e continuano a migliorare.
Il fronte delle imprese richiede più tempo. Dobbiamo chiederci come si può persuaderle a smetterla di produrre merci e imballaggi non gestibili nel ciclo della differenziata (come i materiali multicomposti). La risposta la troviamo nella frazione di rifiuti residui che, a seconda dei casi, si ritiene di poter bruciare oppure di conferire in discarica; in entrambi i casi non si affronta il problema, lo si differisce creando, tra l’altro, molti danni. Zero Waste, al contrario, significa operare su più fronti per una decrescita progressiva del residuo e nel frattempo per una sua ulteriore separazione, a valle del ciclo di raccolta, fra materiali potenzialmente contaminanti e non (per i primi si elaborano processi di inertizzazione, per i secondi bastano piccolissime discariche; in Nuova Scozia esiste già un sistema simile). Evidentemente si tratta di una prospettiva che apre un vasto orizzonte per la ricerca sui materiali e sul design: le università e altri soggetti dovranno concentrarsi sull’analisi del residuo e verificare se e come possa a sua volta essere riciclato e, per la parte che risulterà comunque non recuperabile, individuare soluzioni alternative da suggerire all’industria. Si tratta di una vera e propria sfida tecnologica che può creare anche molta occupazione.Oggi in effetti l’industria sembra guardare altrove, le stesse modalità di stoccaggio delle merci (con i Tir usati come magazzini viaggianti per minimizzare le immobilizzazioni finanziarie) provoca l’esplosione degli imballaggi, pensiamo al latte “economico” che dalla Germania arriva sui camion in Calabria dentro contenitori di multicomposto (carta, plastica, alluminio)…
Il nostro messaggio all’industria è che non vanno realizzati prodotti con materiali che non possiamo riusare, riciclare, avviare al biocompostaggio. Ed è su questo punto che la responsabilità dei cittadini e quella delle imprese si incrociano. Con l’incenerimento si trasformano tre tonnellate di spazzatura in una di ceneri tossiche che nessuno vuole. Con Zero Waste si convertono in una tonnellata di materiale compostabile, una di riciclabile e una di… educazione.
Il ruolo della politica è fondamentale; ma oggi sembrano pesare di più le concentrazioni di potere economico. Si può ragionevolmente ritenere che le imprese siano “educabili”?
Bisogna creare le condizioni affinché per loro sia più conveniente occuparsi del destino dei materiali che utilizzano: che producano un’automobile o un televisore, devono sapere che dovranno occuparsi anche del suo smaltimento. I casi concreti, in proposito, sono parecchi.
Per esempio, una multinazionale come la Xerox in Europa, raccoglie in un grande centro di lavorazione in Olanda le vecchie fotocopiatrici e recupera il 95 per cento del materiale, con un risparmio annuo di circa 76 milioni di dollari.
Per gli imballlagi voglio menzionare il caso dei produttori di birra dell’Ontario (Canada) che hanno internalizzato questo costo: da oltre cinquant’anni utilizzano bottiglie di vetro che vengono recuperate, pulite, rietichettate e riusate. Un sistema che salva il 98 per cento delle bottiglie, dà lavoro a duemila persone e rende il singolo articolo più conveniente per il consumatore rispetto ai contenitori usa e getta (circa undici centesimi di dollari in meno). Questo è solo uno dei numerosi esempi concretiche mostrano la possibilità di un’alternativa alla produzione di rifiuti. In una città della Tasmania, per citare un altro caso, si è deciso di mettere al bando i sacchetti di plastica e ora altri centri australiani seguono quel modello. In Irlanda si è introdotta invece una tassa di 50 centesimi per ogni sacchetto di plastica: la loro quantità in un anno è crollata del 92 per cento e la percentuale rimanente ha finanziato i piani di riduzione dei rifiuti. Anche in Italia abbiamo esempi interessanti, come i negozi che vendono sfusi detersivi per la casa e prodotti per l’igiene personale. Il messaggio all’industria è che con uno sforzo di creatività all’origine si risparmiano fatiche immense nelle fasi successive: basta usare l’intelligenza. Quanto ai governi, hanno molti strumenti: possono proibire o tassare gli imballaggi sbagliati ma anche incoraggiare con incentivi le buone pratiche.
L’Italia, in particolare, con la sua tradizione, potrebbe dotarsi di un istituto nazionale del design sostenibile allo scopo di coordinare le ricerche svolte sul territorio per la riduzione dei rifiuti. Che cosa manca per arrivare a questi risultati?
Tutto ciò ha bisogno di leadership capaci di futuro, di politici che abbiano una visione forte e proiettata ben oltre il loro breve mandato elettorale. Purtroppo l’attuale classe dirigente spesso non è all’altezza di questa grande sfida che richiede la collaborazione stretta fra istituzioni pubbliche, mondo scientifico e popolazione. Ed è qui che si fa strada la forza delle comunità che si oppongono agli inceneritori: si dimostrerà che esse sono le vere portatrici di progresso e che i politici e le lobby degli impiantisti appartengono al passato dell’irrazionalità. Il successo della strategia zero rifiuti dipende proprio dal suo radicamento nella popolazione, dalla capacità della base di orientare la classe politica verso soluzioni sostenibili per noi e peri nostri figli. Nel mondo, dalla Nuova Zelanda al Canada, aumentano le esperienze che dimostrano che tutto ciò è possibile. Basta usare un po’ il cervello. Altrimenti, costruite i vostri inceneritori e respiratene le diossine ma non veniteci a raccontare che avete a cuore la vita di noi tutti e il futuro dei nostri figli…
Paul Connett è docente di chimica alla St. Lawrence University di Canton, New York. Ha ottenuto la laurea in Scienze naturali all’università di Cambridge e un dottorato in chimica all’università di Dartmouth negli Stati Uniti. Negli ultimi 14 anni ha studiato le problematiche della gestione dei rifiuti, con un’attenzione particolare ai pericoli derivanti dall’incenerimento ed alle alternative di non combustione più sicure e più sostenibili. http://www.zerowaste.org/