Esteri / Reportage
Tra i nuovi schiavi del Benin, vittime della miseria e del vodoun
Dal Paese sul Golfo di Guinea oltre 2 milioni di persone si sono imbarcate verso le Americhe fino all’Ottocento. Oggi, invece, bambini e uomini finiscono nelle miniere d’oro del Ghana, mentre le ragazze diventano prostitute, anche in Italia. L’8 febbraio si celebra la Giornata mondiale contro la tratta di persone
Avanzano a gruppetti di cinque o sei, lungo una pista di sabbia argillosa. Tutti in fila. La testa bassa sotto il sole cocente. Stesso passo. Lento, cadenzato, quasi fossero incatenati l’uno all’altro. La loro marcia proseguirà per quattro chilometri: l’esatta distanza che separa l’Albero degli Schiavi al centro di Ouidah, l’ex capitale della tratta negriera in Benin, dalla “Porta del non ritorno” sul Golfo di Guinea. Fra il XVI e il XIX secolo le sue acque hanno visto imbarcarsi per le Americhe oltre 2 milioni di anime dannate, ma il rito di commemorazione che va in scena ogni 10 gennaio, culmine del Festival internazionale della religione Vodoun, nasconde oggi una verità altrettanto tragica: bimbi, donne e uomini indifesi, continuano a essere oggetto di una schiavitù divenuta semplicemente invisibile.
Sulla stampa locale si auspica spesso un incremento dei circa 200mila visitatori annui della “Route des Esclaves”, ma il costo di un bambino-schiavo resta un mistero. Un giorno può valere 70 euro, un altro 130, o magari un paio di bottiglie di gin: e poi via con le strette di mano fra trafficanti, corruttori e genitori sul lastrico. Moltiplicata la compravendita per 50mila teste all’anno, stando alle stime dell’Organizzazione locale per i diritti umani Reta, le cifre iniziano a tingersi di un nero senso d’orrore. Lo stesso che contrae il volto delle ragazze di Benin City, quando riaprono gli occhi nella capitale nigeriana della prostituzione, dopo esser state trasportate semi incoscienti sulle piroghe celate nei canneti di Avrankou, Seme Krake, o di uno degli altri misconosciuti e illegali punti d’attraversamento della frontiera orientale del Benin. Da qui, sempre secondo Reta, arriva l’8% delle ragazze costrette a vendersi sul mercato italiano: spesso tradotte con la forza, talvolta suggestionate dalla magia nera del Vodoun, o attraverso il mero ricatto delle famiglie. Per restituirle ai luoghi d’origine sono infatti richieste cifre che arrivano sino a 60mila euro, ma una volta messo da parte il denaro, questo viene utilizzato dagli aguzzini per spedirle verso il Belpaese, dove saranno sfruttate per affari ben più redditizi.
“Non vado mai sola al mercato di Dantokpa -confessa Akwabi, studentessa della città più importante ma anche meno sicura del Benin, Cotonou-. Io e le mie amiche ci teniamo d’occhio: a volte basta una distrazione, un momento d’indugio a una delle bancarelle e di te non resta più traccia. In quel labirinto di vicoli e pozzanghere, di umori e fumi, la gente spinge, urla, si muove a fatica: basta poco per allungare una mano e trascinarti dentro qualche baracca, soprattutto se ti aggiri fra i banchi dei feticheurs. Con le loro piume di pappagallo e le teste mozzate di serpente, alcuni hanno gioco facile nello spaventare le più giovani e inesperte”.
45,8 milioni è il numero degli schiavi moderni, secondo le stime del Global Slavery Index; Free the Slaves ne stima invece 21 milioni
Sarebbero non meno di 21 milioni gli esseri umani ridotti oggi in schiavitù, il 25% dei quali minorenni. Persone che, negli studi condotti dall’associazione Free the Slaves, vengono costrette a lavorare senza paga, sotto la costante minaccia di violenza, impossibilitate a fuggire o semplicemente vittime della loro povertà, della marginalizzazione nella società, della loro incolpevole ignoranza. Invisibili, ma capaci di generare ricavi per 150 miliardi di dollari ogni anno, nel 78% dei casi attraverso lo sfruttamento del lavoro, mentre per il restante 22% imponendo la schiavitù sessuale.
Come ha ricordato il professor Kevin Bales, autore dell’epocale saggio “Blood&Earth” (2016), “oggi l’Africa non è più il primo mercato della schiavizzazione, dal momento che conta circa 3,7 milioni di persone completamente private dei loro diritti fondamentali, a fronte degli 11,7 milioni stimati solo in Asia e nel Pacifico: al di là di cifre asettiche, sono gli effetti della schiavitù sull’ambiente a poter far breccia, forse, nell’indifferenza generale. Il 40% della deforestazione della Terra, ad esempio, ha luogo proprio perché risulta possibile sfruttare una forza lavoro privata di ogni diritto. Schiavitù significa perciò ecocidio: combatterla è una questione di difesa dei diritti di tutti noi”.
Due sono le principali strade imboccate dagli schiavi del Benin in Africa: i più robusti vengono indirizzati verso le miniere d’oro del Ghana, dove da orpailleurs (lavatori di sabbie aurifere) cominciano a essere conosciuti come galamsey (sta per “raccolti e venduti”).
Nella regione dell’Ashanti sono costretti a scavare con le sole mani, utilizzando sostanze tossiche come il mercurio. Se hanno corpi minuti, sono impiegati in vecchi tunnel di scavo, sotto il costante rischio di crolli. “Quando inizi a respirare male o a essere troppo debole -spiega Béhanzin- finisci per essere rivenduto ai trafficanti dell’alto Volta. Lì ti riciclano come aiuto sulle piroghe da pesca”. Abbassa la visiera del suo cappellino smunto, cercando di nascondere le profonde cicatrici. È uno di quei pochi ragazzi-schiavi riscattati dalle operazioni congiunte della polizia di frontiera che, in collaborazione con Ong per i diritti umani, puntano a recuperare mano d’opera per lo Stato. In tutto il mondo, nel 2015, ne sono stati liberati appena un migliaio. “Un destino migliore di quello di altri conoscenti: a loro la buona salute non ha portato fortuna, visto che sono stati caricati su camion stipati all’inverosimile, per raggiungere come ‘mano d’opera specializzata’ le miniere d’oro della Repubblica Democratica del Congo. Alcuni sostengono siano almeno 40 o 50mila gli schiavi della ‘rotta dell’oro’, mentre per altrettante bimbe o donne funziona meglio il traffico sulla piazza nigeriana. Oltre agli affari con l’Europa, là gestiscono pure il mercato per gli sceicchi del Golfo” racconta Béhanzin. Nelle sue parole sembrano prendere vita le installazioni immaginifiche della Fondation Zinsou di Cotonou, dove pezzi di camion carichi di taniche a forma d’uomini, al pari di scheletri di latta vaganti per i corridoi, denunciano atroci realtà di un mondo che gli Occidentali considerano sepolto nella storia. “Non esiste alcuna distinzione fra i due piani” sentenzia dietro i suoi occhiali scuri Daagbo Hounon Mètogbokandji II, l’undicesimo re del Vodoun che ogni anno presiede il grande festival di Ouidah. Siede tronfio sul suo seggio: alle spalle ha le raffigurazioni dei predecessori reali che, a sua detta, sarebbero anch’essi lì, accomodati sugli altri scranni allineati alla parete ma invisibili all’occhio profano. Sopra il tavolino di cortesia, un paio di bottiglie: tributo minimo imposto a chi sottrae tempo prezioso e da presentare sotto forma di gin o rum, con un pizzico aromatico di polvere da sparo. “Gli alberi della foresta, il lago dove abitano gli esseri del profondo, l’immenso oceano spumeggiante: tutto incarna le forze divine che noi chiamiamo Vodoun! Sono loro gli unici intermediari con cui l’uomo può rapportarsi per ottenere favori dall’Ineguagliabile; e, naturalmente, c’è chi sa farlo meglio e chi peggio”. Sorride con aria di sfida.
Come ogni realtà fortemente verticalizzata, la religione del dio serpente Dan, del cornuto Legba e delle decine e decine di personificazioni degli elementi naturali, non è certo immune dalla cupidigia: maggiore è il tributo all’intermediario, più alta la probabilità di ottenere un aiuto. “Se l’offerta all’intermediario non soddisfa i suoi rappresentanti in terra -chiariscono al Centre Songhai di Porto Novo, dove l’insegnamento di tecniche d’agricoltura sostenibile viene spesso indirizzato al recupero delle vittime di schiavizzazione fisica o psicologica- allora cominciano i problemi: ricatti, minacce, talvolta sacrifici. Si fanno trovare in casa feticci impastati con elementi del proprio corpo, a mo’ di avvertimento. Non dovesse bastare, ci si accorda con membri della comunità per recapitare messaggi emblematici dall’oltretomba, quando nei villaggi irrompe il revenant: un parente morto che parla da sotto un ampio mantello di perline. Altri usano invece tecniche più brutali, come la decapitazione delle testuggini: qui si sconfina però nella magia nera. Eppure la schiavitù nasce anche da suggestioni simili”.
Fondato nel 1985 da un padre domenicano di origine nigeriana, il Centre Songhai fa leva su principi semplici: restituire agli studenti la capacità di osservare le leggi e i cicli della natura, imparare a gestirli in autonomia impiegando energie rinnovabili, guadagnarsi un’indipendenza economica mediante la coltivazione della terra, di cui il Benin resta pur sempre ricco, nonostante gli sforzi governativi di urbanizzare la popolazione. Suo punto di forza, grazie al quale si è imposto nel Paese come simbolo del riscatto africano, è proprio la completa gestione delle attività da parte di personale d’etnia locale Fon e Yoruba. Oggi l’indice di schiavitù globale (globalslaveryindex.org) riconosce al Benin una situazione apparentemente meno drammatica di Paesi africani vicini, assegnandogli un livello di vulnerabilità di 34,52 punti su 100 (con un tasso di schiavizzazione dello 0,295% sul totale della popolazione). Sarebbe al 37° posto su 167 Paesi a livello mondiale, ma statistiche simili sono sempre indicative e necessariamente poco accurate. Impossibile distinguere quanti siano i beninoise privati di ogni diritto anche nelle destinazioni di deportazione. Dall’altra è sintomatica l’oscillazione dei dati globali che si riscontra fra enti e associazioni anti-schiavitù, come provano i 45,8 milioni di senza diritti denunciati dal Global Slavery Index (più del doppio rispetto alle cifre di Free The Slaves). Oppure l’incremento del 28% dei casi d’assoggettamento rispetto al 2015; ma non sono certo i numeri a far breccia nel cuore dell’opinione pubblica. Forse spetta alle parole di un poeta beninoise, Noumenii Tidjani-Serpos: “Il peso dei miei morti è la strada che io vado tracciando in questo cimitero dove dormono i miei/Il peso dell’avvenire è il prezzo del sangue perché cessi l’apologia della miseria/Il peso dei miei morti è il cambiamento che io posso controllare, modellare, non arrestare/Oh morti, l’ultimo rispetto che io avrò per voi è di rinnegarvi perché sorgano le soluzioni del mio tempo”.
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