Ambiente / Opinioni
Se non iniziamo la transizione energetica non resterà che affidarsi alla magia
L’unico “antidoto” al climate change è l’abbandono delle fonti fossili entro i prossimi quarant’anni. “Il clima è (già) cambiato”, la rubrica a cura di Stefano Caserini di Climalteranti.it
A Parigi nel dicembre 2015 i governi di tutto il mondo si sono messi d’accordo di limitare l’aumento medio della temperatura globale “ben al di sotto dei 2° C”. L’Accordo di Parigi è entrato in vigore, ed è già stato ratificato da 142 Stati, che rappresentano più dell’80% della popolazione mondiale.
Per rispettare l’impegno i governi hanno quindi tre possibilità. La prima è quella di cambiare molto rapidamente il sistema energetico che provoca l’emissione di CO2, e produrre nel giro di tre-quattro decenni tutta l’energia in modo diverso, senza combustibili fossili. La seconda è quella di trovare un modo per catturare la CO2 emessa (quella nei fumi o quella già dispersa nell’aria), e metterla da qualche parte: si studia come metterla sottoterra, o imbottigliata sul fondo dei mari.
La terza è la magia: affidarsi a qualche entità soprannaturale (ammesso che esista) in grado di risolvere il problema, facendo scomparire d’incanto la CO2 in eccesso oppure cambiando le leggi della fisica dell’atmosfera.
350.000 sono le persone che nel 2016 hanno lavorato negli Stati Uniti nella produzione di energia solare, più di quanti sono impiegati nella produzione di energia da carbone, gas, e petrolio -sommati-. (Fonte: https://cleantechnica.com)
Una mente razionale (ma sappiamo che nelle decisioni degli esseri umani la razionalità non sempre ha il sopravvento) sarebbe portata a non considerare la terza possibilità; e a non affidarsi completamente alla seconda, fino a quando non sarà sicuro che possa davvero funzionare.
Di conseguenza, si tratta “solo” di organizzare la fuoriuscita dal mondo dei combustibili fossili: gestire la transizione, le conseguenze economiche e sociali, sui lavoratori e sul sistema produttivo, di questa svolta epocale.
Ad esempio, è necessario affrontare il problema della perdita di lavoro nei settori dell’estrazione di carbone, petrolio e gas, e nel loro indotto. Alcune miniere -soprattutto nei Paesi ricchi- andranno chiuse prima che sia stato estratto tutto il carbone; idem per molti pozzi di petrolio e gas. Compito dei governi dovrebbe essere di occuparsi dei lavoratori, delle persone e delle comunità che traggono il loro sostentamento dal lavoro in questo settore.
Guidare il declino dell’industria dei combustibili fossili significa anche promuovere le alternative: molti lavoratori potranno essere occupati nel nuovo sistema energetico (e moltissimi già lo sono), altri andranno protetti in modo diverso. Nelle regioni in cui l’industria fossile è la prima fonte di occupazione, si dovrà pensare a un nuovo modello di sviluppo del territorio, si dovrà offrire una diversa prospettiva ai i lavoratori, in grado di far sopravvivere loro e le loro famiglie. Servono investimenti, che hanno un senso anche dal punto di vista economico, e non solo perché si eviteranno danni dei cambiamenti climatici: ci sono tanti co-benefici per la società, se si rinuncia a un sistema energetico che causa l’inquinamento dell’aria e tensioni geopolitiche.
È un cambiamento che non avverrà da un giorno all’altro, ma non si può aspettare: deve iniziare oggi e concludersi in qualche decennio. L’industria del carbone è in declino nei Paesi occidentali, un declino inevitabile che neppure Donald Trump potrà impedire. Se si prende sul serio l’Accordo di Parigi, la transizione deve iniziare ora. Più si aspetta, più aumenta il rischio che la crisi del mondo dei combustibili fossili provochi uno shock sociale, e indebolisca il consenso per le politiche sul clima. I governi e i sindacati dovrebbero capire che l’attesa non è un’opzione.
Altrimenti, sempre meglio sperare nella magia…
Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2016)
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