Esteri / Reportage
Il monito kazako: lasciamoci il nucleare alle spalle
Viaggio nello Stato un tempo teatro di test militari sovietici. Là dove venivano sganciate bombe in grado di distruggere intere città -le cui radiazioni fanno ancora danni- oggi si punta sulle rinnovabili
Percorsi una cinquantina di chilometri nella scabra steppa kazaka, coperta per lo più da pianticelle graminacee di festuca valesiaca e artemisia frigida, la jeep militare frena di colpo. L’autista intima d’indossare la mascherina a carboni attivi, il suo assistente si tampona velocemente il sudore e accende l’Atomtex, il misuratore di radiazioni dell’omonimo colosso tecnologico bielorusso. Fuori tutti: la piccola squadra distaccatasi dal Centro nucleare nazionale di Kurchatov mette piede sul terreno dove, alle 7 del mattino del 29 agosto 1949, l’Unione Sovietica esplose la sua prima bomba atomica. Si chiamava “Piervaja molnija”, Primo Raggio, e con i suoi 22 kilotoni di energia al plutonio polverizzò ogni cosa nel raggio di chilometri e chilometri, lasciando giusto in piedi qualche scheletro in cemento armato. “Cos’è quella faccia terrorizzata? -ridacchia Vadim, passandosi ancora una volta la mano fra i capelli rossicci- ora non c’è più pericolo. Basta non sollevare polvere e non camminare sopra le zone umide. In questa stagione la vera minaccia sono solo le zecche encefaliche. Guarda: stiamo assorbendo appena 6 microSievert all’ora. Molto meno di quanto accadrebbe se ti sottoponessi a una scintigrafia. Con quella ne ricevi almeno 10. Insomma, non dico potremmo fare un picnic con vodka e cetrioli, ma non è bellissimo camminare di nuovo su questo suolo?”.
Il suo entusiasmo è sincero. Come lo è quello della maggior parte dei cittadini kazaki, che non solo stanno salvando dalla contaminazione fette sempre più ampie di terreni nell’ex Poligono nucleare di Semipalatinsk -al confine fra Cina e Mongolia- ma preparano già una nuova rivoluzione ecologica: l’Expo al via dal 10 giugno ad Astana, la futuristica capitale del Kazakhstan subentrata ad Almaty nel 1997, si è infatti posta come obiettivo il 50% di produzione nazionale di energia green entro il 2050. “Pensiamo di raggiungere il 3% entro il 2020 -puntualizza con orgoglio Sergey Kuyanov, direttore del Dipartimento Expo per le Pubbliche relazioni e la Comunicazione- dal momento che abbiamo già concluso 48 dei 106 eco-progetti previsti nella “Kazakhstan 2050 Strategy”. Il suo primo finanziamento ammonta a oltre 7 miliardi di euro. Abbiamo così avviato i lavori di costruzione di 28 centrali a energia solare per una capacità di 713 MegaWatt, incrementando del 32% la produzione di energia rinnovabile nel 2017. Chiunque si aggiri per Astana, in ogni caso, può intuire facilmente dove stia andando il nostro Paese: oltre al nuovo polo Expo creato a ridosso dell’aeroporto, completamente alimentato da fonti rinnovabili, la metropoli è già diventata un esempio nazionale per progetti di green-housing, nella diffusione di bus e taxi elettrici dotati di wi-fi, così come nel rinnovo di tutto il sistema d’illuminazione pubblico con bulbi a basso consumo. La vera svolta verrà però dai potenti venti della steppa. Il Kazakhstan sarà presto costellato di pale eoliche”.
Sotto lo slogan “Future Energy” e a fronte del ritorno in patria del personale russo qualificato, il presidente Nursultan Nazarbaiev intende lasciarsi definitivamente alle spalle gli incubi di un nucleare ormai ingestibile, limitare l’uso d’idrocarburi -nonostante la sua Repubblica ne sia ricchissima- e divenire uno Stato modello per l’intera area centroasiatica. È l’ennesimo “sogno” che ha voluto accendere nel proprio popolo e che, verosimilmente, gli consentirà di governare sul Paese ancora a lungo, così come accade dal 1989 con puntuale continuità. Padre fondatore del Kazakhstan indipendente, è stato abilissimo nel gestire la transizione da presidente della vecchia Repubblica socialista sovietica all’attuale Stato sovrano, alzando di volta in volta l’asticella del benessere economico. E non rendendo affatto facile la vita alle opposizioni.
Raggiungere l’epicentro della prima esplosione atomica sovietica non è però una passeggiata. Innanzitutto occorrono permessi speciali da richiedere al Centro nucleare nazionale di Kurchatov, una delle città segrete che Stalin creò per evitare si ripetessero tragedie ancor peggiori di Hiroshima o Nagasaki. Se tutto in ordine, l’accompagnamento al Poligono viene curato da un’agenzia convenzionata -come la Togas Servis della giovanissima Olga Perik- che mette a disposizione tute anti-radiazioni, dossier scientifici, mezzi di trasporto d’avvicinamento dalla città di Semey (la Semipalatinsk di sovietica memoria) e l’entusiasmo di chi sta aspettando l’arrivo degli emissari Unesco.
“Erlan Batyrbekov, il direttore del Centro nazionale nucleare, lo ha ribadito di recente”, conferma Mereinur, studente universitario assoldato come traduttore ufficiale di Expo Astana2017. “Il Poligono ha avuto un ruolo fondamentale per creare condizioni di pace stabili nel mondo: dapprima ripristinando l’equilibrio strategico con gli Stati Uniti, dove sino al 1949 era forte la spinta a riprendere le ostilità belliche contro l’Unione Sovietica e il mondo socialista; quindi, a partire dal 1991, collaborando con i principali organismi internazionali legati all’energia atomica, insieme ai quali sono state compiute importanti bonifiche e avviati programmi di ricerca fondamentali. Qui vengono studiati sul campo gli effetti di lungo termine delle radiazioni.
Proprio per questo costante contributo al miglioramento delle condizioni di vita e alla salvaguardia dell’ambiente, il governo ha deciso d’intraprendere il cammino di riconoscimento del Poligono come Sito Unesco”. Per ragazzi come Mereinur e Olga, nati dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica, gli spettri del passato sono solo memorie ascoltate nei racconti dei loro nonni. Distante 143 chilometri da Kurchatov, la città di Semipalatinsk non ha mai visto funghi atomici all’orizzonte. Tutt’al più i suoi abitanti avvertivano strane scosse sotto terra, o potenti detonazioni quando si tentava di creare bacini idrici utili all’agricoltura. Niente più che “laghi atomici”. Con i suoi 18mila chilometri quadrati d’estensione, ritagliati nel cuore arido delle steppe, il Poligono è un mondo a sé: fra i più grandi siti di sperimentazione mai creati dall’uomo, ha ospitato 456 test nucleari, con ben 616 esplosioni, di cui il 19% in atmosfera e il 7% in superficie. Dopo il 1962, le ricerche sono state condotte all’interno di perforazioni sotterranee e tunnel creati nelle montagne Degelen, limitando relativamente la contaminazione delle aree abitate. Indizi che si stesse verificando qualcosa di mostruoso nell’ambiente, tuttavia, furono presto colti anche dai cittadini meno attenti.
Con i suoi 18mila chilometri quadrati d’estensione, il Poligono è un mondo a sé: ha ospitato 456 test nucleari, con ben 616 esplosioni, di cui il 19% in atmosfera e il 7% in superficie
“Bimbi malformati nascono ancor oggi -osserva Irina, custode del Museo di anatomia dell’Università di Medicina di Semey- ma gli studi sui feti e i corpi conservati in formaldeide hanno perlomeno aiutato a prevenire tragiche sorprese. Mettere al mondo una creatura ciclopica e senza volto, oppure con gli organi fuori dal corpo, ma anche completamente deforme, è un’esperienza profondamente scioccante. Per fortuna le nubi tossiche hanno smesso di spandersi sul territorio sin dagli anni 60, ma le conseguenze della contaminazione da cesio, plutonio o trizio sopravviveranno per anni. Oggi ospitiamo spesso studenti indiani e pakistani, ma anche cinesi, affinché possano rendersi conto dei rischi che corrono i loro stessi Paesi, dove l’energia nucleare continua a essere usata per fini militari”.
La scelta del Kazakhstan di puntare sulle energie rinnovabili non è che la naturale prosecuzione del Trattato di Semey ratificato nel 2008, in virtù del quale tutta l’area centroasiatica è stata dichiarata territorio libero da armi atomiche. Le 1.410 testate lasciate in eredita dall’Unione Sovietica sono rientrate in Russia sin dal 1992, mentre gli Stati Uniti hanno trasferito sotto il loro controllo considerevoli quantitativi di uranio arricchito, un tempo immagazzinato nella città periferica di Ust-Kamenogorsk. Alcune piaghe del territorio non sono però sanabili: lungo la strada che collega Astana a Semey, all’altezza di Pavlodar, è possibile scorgere l’unica foresta di conifere “a strisce” di tutta la steppa kazaka: 870mila ettari che, in condizioni normali, dovrebbero aiutare a regolare il clima, proteggere il suolo dalla desertificazione e preservare l’acqua. Purtroppo sono stati avvelenati dal fall-out dei primi esperimenti atomici e molti pini crescono qui curvi o ritorti. Un’indagine condotta nel 2006 ha confermato la presenza di radionuclidi in più punti del terreno. Scorie che, oggi, rappresentano il maggior pericolo per la zona, dal momento che vengono trasportate dagli agenti atmosferici e possono finire anche in aree non contaminate. Alte concentrazioni di radionuclidi, ad esempio, sono state rilevate nella foce del fiume Shagan, le cui acque sgorgano dalle sinistre montagne Degelen, all’interno del Poligono. Le rocce contaminate e gli spazi dell’atmosfera attraversati da nubi tossiche presentano inoltre anomalie termiche. Queste scoperte sono state fatte solo negli ultimi anni, ma alcuni allevatori di mucche e pecore continuano a portare le proprie mandrie al pascolo lungo il fiume, se non addirittura nei terreni del Poligono non presidiati. L’aspetto del bestiame non è forse impressionante quanto quello degli animali fotografati all’interno del museo del Centro nucleare di Kurchatov, ma ha in sé qualcosa di apocalittico.
“Eccole là”, fa segno Olga, piazzatasi sulla cima di un pilastro di cemento armato sospeso fra i resti della città fantasma di Chagan, a 74 chilometri da Semey. “Le mucche che arrivano dall’epicentro del Poligono hanno spesso il corpo scheletrico e il pelo ispido. Sono le uniche ad aggirarsi qui, insieme alle aquile delle steppe. E pensare che un tempo questo centro militare ospitava quasi 10mila civili e soldati! Disponeva di ogni comfort e persino di un aeroporto segreto, ma è stato abbandonato definitivamente nel 1995. Quant’era utilizzabile dei suoi palazzi, delle sue scuole o della Casa della cultura, è stato piano piano portato via da chi passava di qui. Della città sopravvive giusto il ricordo fra gli ex soldati: dopo l’apertura del sito nostalgico www.chagan.ru, qualcuno di loro torna ogni tanto a riassaporare i ricordi del passato. Ma se il Poligono diventerà sito Unesco e le bonifiche proseguiranno, sono certa avremo molti turisti”. Oro, argento e zinco, sepolti in gran quantità sotto la steppa, potrebbero farne la fortuna in futuro. Ma il tesoro più prezioso, oggi, si chiama podsnezhnik.
Il fiore viola della rinascita che ha vinto il deserto della bomba atomica.
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