Economia / Opinioni
Chi ci perde se il mondo si chiude
“Chiudersi entro i propri confini e rendersi conto di non poter mantenere il proprio livello di vita spinge ad ampliare quei confini a danno di altri”. Tra Brexit e Donald Trump, i rischi per il nostro Paese dalla fine dell’economia “aperta”. L’analisi di Alessandro Volpi
In questi giorni è emersa l’ipotesi che la Gran Bretagna abbia intenzione di introdurre pesanti restrizioni all’ingresso dei cittadini europei all’interno dei propri confini e pensi di adottare un severo regime di visti. La motivazione di una tale scelta deriva dalla paura, diffusa nell’opinione pubblica del Paese, che possano giungere nell’isola, provenendo dall’Europa, lavoratori destinati a far concorrenza alla manodopera nazionale e rifugiati in possesso di un passaporto europeo. In estrema sintesi, dopo la Brexit pare prendere corpo, ad opera del governo britannico, la prospettiva di riservare solo agli inglesi il “territorio inglese”. Si tratta dell’ultimo esempio di un fenomeno più generale che tende a trasformare il tema dei rifugiati e quello della tutela dell’occupazione “autoctona” in una più complessiva condanna di qualsiasi libertà di circolazione delle persone. Per essere ancora più chiari, sembra sempre più forte l’idea che la sovranità dei singoli Stati si debba ricostruire a partire dal varo di una serie molteplice di divieti di cui quello relativo alla circolazione delle persone è forse il più eclatante, ma al quale si aggiungono il divieto di circolazione delle merci, contenuto nei nuovi protezionismi, il divieto di circolazione dei capitali, sotto forma di vincoli stringenti alle operazioni finanziarie transazionali, il rifiuto di monete comuni. Se queste tendenze si consolidassero, la geografie politiche ed economiche del futuro risulterebbero allora disegnate non più in base alle interrelazioni e agli scambi, quanto in riferimento alle reciproche chiusure e all’affermarsi di aspirazioni nazionali all’autosufficienza.
Per il nostro Paese un simile scenario non sarebbe però certamente positivo per diverse ragioni. L’Italia non possiede materie prime in quantità sufficiente per sostenere le proprie produzioni; deve infatti importarle per un valore che ogni anno si aggira intorno ai 150-160 miliardi di euro su un totale di merci importate per circa 400 miliardi. Possiede invece un gigantesco debito pubblico che è nelle mani dei residenti italiani soltanto per il 40% e dunque, ogni anno, necessita di compratori internazionali in grado di sostenerlo. Ha bisogno di importazioni costanti di beni agricoli perché non è certamente in grado di autoalimentarsi e i numeri sono in tal senso molto chiari; dal 1970 ad oggi gli ettari di superficie coltivabile sono scesi da 18 a 13 milioni mentre la popolazione è cresciuta del 10%. Il nostro Paese necessita poi dei mercati internazionali perché il peso delle esportazioni italiane sul totale del Pil appare assai rilevante, attestandosi fra il 25 e il 30% della produzione nazionale, e ancora più significativa è la dipendenza dell’Italia dall’estero per quanto concerne il fabbisogno energetico, raggiungendo una percentuale superiore al 75%.
In estrema sintesi, già da questi dati assai generali emerge bene che l’Italia ha bisogno di un’economia aperta, rispetto alla quale i protezionismi e i divieti costituiscono una seria minaccia. Se poi si scende nello specifico della questione della circolazione delle persone, affiorano con chiarezza due altri dati. Il primo è rappresentato dal fatto che approdano entro i confini italiani flussi enormi di turisti; in media si registrano circa 60 milioni di arrivi l’anno, che sarebbero sicuramente penalizzati da misure destinate e limitare la circolazione delle persone. Il secondo è costituito dal contributo, importante, che gli immigrati danno all’equilibrio del sistema pensionistico italiano; secondo le stime dell’Inps, nel 2040 senza il contributo dei lavoratori stranieri l’Istituto non incasserebbe 72,6 miliardi di euro, contabilizzando un saldo negativo rispetto alle prestazioni erogate di 37,5 miliardi di euro che dovrebbero essere quindi finanziati dai cittadini italiani, con un aggravio molto pesante. Alla luce di tutto ciò, è evidente che non sarebbe auspicabile in alcun modo un ritorno ad un mondo chiuso e “autarchico” perché una simile prospettiva ci riporterebbe ai tempi in cui la forza degli Stati dipendeva dalla demografia, dall’autosufficienza economica e dalle dimensioni, condizioni certo non favorevoli all’Italia, ma, più in generale, molto pericolose in quanto inevitabilmente conflittuali. Chiudersi entro i propri confini e rendersi conto di non poter mantenere il proprio livello di vita induce, come ha dimostrato più volte la storia, a cercare di ampliare quei confini a danno di altri.
Università di Pisa
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