Interni / Opinioni
Meno bambini al nido? Perché sono troppo cari
Sono i costi a scoraggiare le famiglie dall’iscrizione agli asili. Eppure, lo Stato li considera “servizi sociali di interesse pubblico” sin dal 1971
Nel 2015, per la prima volta, il numero di nuovi nati in Italia è sceso sotto la soglia di 500mila, un dato che assieme alle proiezioni per i prossimi anni ha portato la ministra Lorenzin a parlare di rischio di “crac demografico” per il nostro Paese. Il recente Rapporto Istat 2016 segnala un secondo dato sui minori in Italia: circa uno su dieci, oltre un milione, vive in condizioni di povertà assoluta.
Accanto a questi due dati allarmanti, ripresi in varie occasioni nel dibattito pubblico, un terzo fenomeno forse meno noto merita di essere richiamato con riferimento all’infanzia. Negli ultimi anni, dopo una fase di crescita, gli utenti dei nidi, il pilastro centrale dei servizi educativi e di cura per la prima infanzia, hanno iniziato a diminuire. Una tendenza manifestatasi già nel 2011/2012 e proseguita negli anni. Questo accade nonostante il nostro Paese abbia nel complesso una quota sensibilmente inferiore alla media europea di bambini con meno di tre anni che fruiscono di servizi educativi e di cura per la prima infanzia (23% contro 33% per l’Ue 27 secondo gli ultimi dati OCSE).
Gli asili nido sono stati introdotti nel 1971 come “servizi sociali di interesse pubblico”: oggi notiamo che i posti disponibili sono notevolmente aumentati nel corso degli ultimi due decenni. Se ad inizio anni 90 i posti coprivano meno del 5% dell’utenza potenziale, nel 2014 la copertura ha raggiunto il 20,1% (una crescita notevole sebbene il dato sia ancora molto distante da quello dei Paesi europei più avanzati). Tale incremento, che in parte dipende dalla contrazione del numero dei bambini, deriva in larga misura da un aumento significativo dei posti disponibili nei servizi a titolarità diretta dei Comuni e in quelli a titolarità privata o in convenzione. Il dato nazionale, come spesso accade, cela però importanti differenze a livello territoriale, dal 33,5% dell’Emilia-Romagna al 3,8% della Campania. La contrazione degli utenti è avvenuta pertanto in uno scenario in cui la fruizione di servizi socio-educativi per questa fascia di età e la disponibilità risultavano già limitati. Una recente indagine Istat mette in luce come circa il 30% delle madri che non hanno fruito degli asili nido in realtà avrebbero voluto. Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, il motivo principale del mancato accesso è “la retta troppo cara” (il 50,2%) e solo in percentuale più ridotta la “mancanza di posti” (il 11.8%). L’istituto degli Innocenti di Firenze ha documentato come “il 12% circa dei bambini che trova posto al nido rinuncia prima di iniziare la frequenza, mentre, di quelli che iniziano, il 9% circa si dimette dopo qualche mese e un altro 16% circa prosegue senza pagare la retta”. La questione dei costi degli asili è centrale nell’accesso ai servizi pubblici per la prima infanzia, che incide soprattutto sui nuclei familiari a reddito medio-basso. È utile ricordare che i servizi educativi per la prima infanzia non sono rilevanti solo per consentire la conciliazione fra lavoro e responsabilità di cura. Come segnala la Commissione europea, quelli di qualità hanno un valore strategico in termini di “investimento sociale”, sia per i risvolti etici connessi alla promozione delle opportunità e dei talenti dei bambini e delle bambine, sia per il ritorno economico potenziale che questi servizi hanno per la collettività, specie quando coinvolgono minori che provengono da condizioni di svantaggio economico, sociale o culturale.
Ilaria Madama insegna Sistema politico e modello sociale europeo presso l’Università di Milano. È membro dell’Osservatorio per la coesione sociale, www.socialcohesiondays.com