Ambiente / Intervista
Memorie dalla barriera corallina: dobbiamo proteggere la vita nascosta dei fondali marini per salvare noi stessi
Intervista all’oceanografo Callum Roberts, professore di Conservazione marina a York, autore di “Reef life” e tra le altre cose consulente scientifico di riferimento dello splendido documentario “Blue Planet II” prodotto dalla BBC
“Ho desiderato fin da piccolo diventare un esploratore e scoprire gli angoli più remoti del Pianeta. Poi il tempo è trascorso e la realtà si è intrufolata nelle ambizioni di un ragazzino cresciuto in Scozia. Così nel 1980 ho deciso di studiare biologia all’Università di York: andrò in una foresta pluviale, in Amazzonia o in Congo, mi dicevo. Poco dopo, durante un’immersione, la mia vita è cambiata”. Callum Roberts insegna Conservazione marina all’Università di York ed è tra i più importanti studiosi degli oceani al mondo. Mentre racconta i suoi quarant’anni sott’acqua al cospetto della barriera corallina agita le braccia, descrive mondi fantastici, nuota. La divulgazione è il suo pane, come sa chi ha visto lo splendido documentario “Blue Planet II” prodotto dalla BBC nel 2017 di cui è stato consulente scientifico di riferimento. Il pretesto dell’intervista è la sua entusiasmante autobiografia, “Reef life”, dedicata al maltrattato habitat dal quale tutti dipendiamo, gli oceani.
Professor Roberts, quando è cambiata la sua vita?
CR Nel 1982, quando il mio relatore all’Università mi offrì la possibilità di unirmi a lui in una spedizione in Arabia Saudita, nel Mar Rosso. Non avevo alcuna esperienza “diretta” della barriera corallina quando ho lasciato la Gran Bretagna, ne avevo soltanto letto. Mi avevano raccontato che si trattava di un ecosistema emozionante, che mi avrebbe affascinato, ma non pensavo così tanto. Fu un’esperienza scioccante: spingersi al di sotto delle onde e scoprire un giardino fantastico, un’esplosione di vita, colori, movimenti. Rimasi sbalordito. Lì la mia vita è cambiata, sperai che quel momento durasse per sempre. Appena riemerso decisi che sarei diventato un biologo marino: “Devo passare il resto della mia vita a studiare questo ecosistema e cercare di capire come funziona”. Ed eccomi qui, quasi 40 anni dopo, professore di Conservazione marina a York. Sono rimasto fedele a quel percorso.
Nell’estate 2019 il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) ha dedicato un allarmante rapporto agli impatti dei cambiamenti climatici sugli oceani. Negli anni Ottanta c’era consapevolezza della minaccia?
CR Quando ho iniziato a studiare le barriere coralline in pochissimi parlavano del riscaldamento globale. Io stesso quando sono andato nel Mar Rosso per la prima volta pensavo che quel mondo non avrebbe avuto tempo, che non sarebbe mai cambiato se non a causa di piccole azioni umane come la costruzione di case e strade a danno della barriera corallina o la raccolta dei coralli. Non ho mai pensato all’epoca alla portata globale del cambiamento e del degrado che poi è avvenuto: è apparso gradualmente.
Oggi in aula avverte maggiore preoccupazione?
CR Certo: gli studenti di oggi quando arrivano all’Università conoscono bene i problemi dell’ambiente, la perdita di biodiversità, la distruzione degli habitat, lo sfruttamento dell’Amazzonia, gli incendi in Australia, la pesca eccessiva negli oceani. Arrivano carichi di queste preoccupazioni, privati di quell’innocenza che avevo nel 1982. Allora mi divertivo “solo” perché era bello, oggi i miei studenti sanno che è quel giardino è bellissimo ma sono anche preoccupati di quello che gli stiamo facendo.
Sostiene che assistere al declino della Grande barriera corallina in Australia sia come osservare i propri genitori invecchiare. “Un amore toccato dalla tristezza”.
CR Quel che abbiamo visto in Australia nel 2015-2016 è stata una catastrofe. Stiamo parlando della parte settentrionale della Grande barriera corallina primaria, la parte meno popolata dell’Australia, completamente protetta dalla pesca, senz’alcuna attività umana sulla terraferma, esposta a rischi molto limitati. Eppure ha sofferto il peggio a causa del riscaldamento di El Niño, perdendo qualcosa come il 60% dei suoi coralli. Una devastazione a breve termine accompagnata da un declino della copertura corallina a lungo termine. Quell’ecosistema che esplorai negli anni 80 -quando i coralli ricoprivano l’intero fondale marino, tra incredibili banchi di pesci e centinaia di tartarughe- non è più lo stesso. Si sta ammalando e progressivamente morendo nel corso di decenni. La lezione che dobbiamo trarne è che i nostri tentativi di protezione non funzionano, non sono abbastanza. Per due ragioni. La prima: è molto difficile proteggersi “a zone” da stress globali come i cambiamenti climatici che colpiscono ovunque, dentro e fuori le aree protette. La seconda, ancora più importante, è che non abbiamo capito che quando si cerca di proteggere il mare è importante ridurre tutte le diverse sollecitazioni a cui quell’area è esposta.
“Se dovessimo centrare il miglior risultato dall’Accordo di Parigi del 2015, limitando l’aumento della temperatura a 1,5 °C, perderemmo il 70%, forse anche il 90% delle barriere coralline di tutto il mondo”
Ovvero?
CR Di solito quando creiamo un’area protetta lo facciamo in mare. “Così riuscite a gestire ciò che la gente può prendere o meno”, si racconta. Si pensa cioè che sia una mera regolazione delle attività consentite. Quello che è successo nella Grande barriera corallina, però, è che molti degli impatti non riguardavano attività in acqua ma derivavano dalla terraferma. Penso alla gestione dei terreni agricoli, all’inquinamento, al dilavamento del suolo, ai sedimenti, all’inquinamento chimico, all’uso dei fertilizzanti. Tutte queste cose si “spostano” dalla terra al mare. E questo sta mettendo a dura prova anche l’ecosistema della barriera corallina. Quindi dobbiamo migliorare la nostra capacità di proteggere il mare dalle cose che accadono sulla terraferma, permettere alla natura di fiorire nel modo in cui dovrebbe.
Le “cose che accadono” sono anche e soprattutto i cambiamenti climatici?
CR Per le barriere coralline il problema principale è il riscaldamento degli oceani. Quando si alza la temperatura di più di un grado centigrado sopra la temperatura massima che una zona è abituata a sopportare e si mantiene a quel livello per un paio di mesi, allora i coralli si stressano molto. Va in crisi il rapporto tra il corallo e le Zooxantelle, le alghe unicellulari con le quali vivono in simbiosi. I coralli devono liberarsene altrimenti muoiono ma se si liberano delle Zooxantelle, si fermano e non hanno abbastanza cibo. Quindi se la temperatura non scende abbastanza velocemente e i coralli non fanno rientrare le Zooxantelle nei tessuti, allora muoiono. C’è un altro effetto del cambiamento climatico, o meglio delle emissioni di gas serra, che è l’acidificazione dell’oceano. L’anidride carbonica che si dissolve nell’oceano riduce la disponibilità di carbonato di calcio e rende più difficile per i coralli costruire il proprio scheletro. Quindi gli scheletri che costruiscono sono più deboli di quelli che avevano prima. Ecco perché si rompono più facilmente. E questo significa che le tempeste possono causare problemi così come i pesci al “pascolo”. Dunque il riscaldamento globale è l’impatto maggiore per le barriere coralline ma entro 50 anni l’acidificazione diventerà un problema sempre più grave se non riduciamo le emissioni di gas serra.
Che cosa potrebbe succedere da qui a pochi anni?
CR Lo ha chiarito il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite: se mai dovessimo riuscire a centrare il miglior risultato possibile dall’Accordo di Parigi del 2015, limitando l’aumento medio della temperatura mondiale a 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, perderemmo il 70%, forse anche il 90% delle barriere coralline di tutto il mondo. Se non dovessimo farcela, e la temperatura dovesse superare i due gradi centigradi, perderemmo tutto. Dobbiamo urgentemente passare a un’economia a zero emissioni di carbonio. Le barriere coralline ci stanno dicendo che il nostro stile di vita è insostenibile e che il Pianeta sta soffrendo. Non saranno distrutti soltanto i coralli ma molti altri ecosistemi dai quali dipendiamo.
Il livello degli oceani si alza.
CR Dal XIX secolo abbiamo osservato che il livello del mare si è innalzato di oltre 20 centimetri e il tasso sta accelerando. Al momento è approssimativamente uguale al tasso massimo di crescita dei coralli in condizioni ideali. Se le barriere coralline fossero davvero “sane” sarebbero in grado di tenere il passo con il livello del mare, ma come abbiamo visto non lo sono ed è come se restassero indietro. Ecco perché ci prepariamo a vedere, e vediamo già, territori spazzati via, dalle Maldive a Kiribati. C’è un serio rischio per intere nazioni. L’altra cosa è che con il passare del tempo ci stiamo accorgendo che l’innalzamento del livello del mare che possiamo aspettarci di vedere entro la fine del XXI secolo sta diventando sempre più elevato. Vent’anni fa avevamo previsto un innalzamento di circa 60 centimetri entro la fine del secolo. Ora la previsione suggerisce oltre un metro.
Che cosa fare?
CR Niente di ciò che faremo ora fermerà l’innalzamento del livello del mare. Quindi se domani dovessimo passare a un’economia completamente neutra dal punto di vista del carbonio, il livello del mare continuerebbe a salire per centinaia di anni, perché tutto questo è ormai già presente nel sistema, il riscaldamento è già qui. Nel 2200, 2300 il mare sarà da due a tre metri più alto di adesso, il che significa che ci sarà un cambiamento completo nelle nostre regioni costiere. La zona costiera a bassa quota ospita attualmente circa 680 milioni di persone (quasi il 10% della popolazione globale del 2010) e secondo le proiezioni diventeranno oltre un miliardo entro il 2050. Sarà molto, molto difficile per noi continuare a occupare numerose parti abitate della costa, comprese le regioni più fertili del mondo, i delta dei fiumi, le aree di coltivazione del riso. La “crisi” dell’innalzamento del livello del mare non si fermerà, indipendentemente da quello che facciamo ora. Dovremo adattarci e i Paesi delle barriera dovranno farlo il più velocemente possibile.
Non si rischia di restare immobilizzati?
CR No, le faccio un esempio. La pesca è tra le attività umane dai maggiori impatti sugli oceani. Abbiamo pescato sempre più intensamente negli ultimi 100 anni e abbiamo quasi esaurito la vita nell’oceano e quella “circostante”. Albatros, tartarughe, squali, mammiferi marini, anche quando non li abbiamo cacciati, sono oggi molto meno abbondanti di un tempo. Il lato positivo della storia è che quando abbiamo garantito a quelle creature una vera protezione dalla pesca e dalla caccia, allora si sono espanse di nuovo. Dove abbiamo smesso di cacciarle, le balene sono tornate. Possiamo invertire gli effetti della pesca piuttosto facilmente se solo la gestissimo meglio di adesso. Le popolazioni ittiche si ricreano molto rapidamente. In aree protette da 40 o 50 anni i benefici si vedono: popolazioni in aumento, grandi animali, pesci più “longevi”, habitat che si ricostruiscono. Ed è davvero emozionante vedere come la natura possa riprendersi anche dopo essere stata danneggiata. Se facciamo la cosa giusta adesso c’è la concreta possibilità di poter ricostruire la natura negli oceani entro il 2050.
Pesca e cambiamenti climatici sono collegati?
CR Il riscaldamento globale sta riducendo la quantità di ossigeno disciolto nel mare. Questa diminuzione comporta la formazione di strati anossici, cioè senza ossigeno nel mare profondo, riflettendosi sulla disponibilità dei nutrienti che alimentano la crescita del fitoplancton e quindi di tutte le filiere alimentari nel mare. L’impatto sulla vita oceanica sarà enorme e registreremo una riduzione della produttività della pesca, profondi cambiamenti nella distribuzione delle specie che abbiamo sfruttato nel tempo, vediamo e vedremo sempre più specie nuove giungere in posti come l’Atlantico del Nord, verso i poli, date le temperature sempre più calde. Ci sarà un cambiamento radicale nella struttura e nel funzionamento dell’oceano.
“Dobbiamo cambiare la nostra attitudine, passando dal ‘salvare la natura da noi stessi’ al ‘servirsi della natura per salvare noi stessi’”
Sottolinea la necessità di estendere le aree marine protette ad almeno un terzo degli oceani.
CR Sì. È necessario per permettere a queste creature di sopravvivere nelle condizioni più difficili che stanno arrivando. Non solo: l’adattamento umano dipende dall’adattamento del mondo naturale al cambiamento climatico. Creando grandi aree protette su scala globale entro il 2030, a patto di abbattere davvero le emissioni di gas serra, guadagneremo tempo.
La barriera corallina è un ecosistema “zombie”?
CR No. I coralli in questo momento stanno soffrendo, ma le barriere rimangono. Sono state costruite in oltre 10mila anni. Sono strutture geologiche che non scompariranno. Quindi anche se non possiamo salvare i coralli, la protezione delle barriere è fondamentale. Possono ancora sostenere un gran numero di pesci, possono ancora essere incredibilmente belle, possono ancora aiutare a proteggere le coste, possono ancora svolgere tutta una serie di funzioni diverse per noi e per la natura. Vale la pena di fare tutto il possibile. Le generazioni future non ci perdoneranno se rinunciamo a proteggerle ora.
Come dicevo anche prima, noi non possiamo fermare il cambiamento ma le cose andranno molto meglio, saranno più vive, più belle, più funzionali se faremo del nostro meglio per mantenere l’ecosistema in buono stato e minimizzare l’impatto umano. Perché anche se il mondo cambia noi stiamo contribuendo a promuovere la capacità della natura di prendersi cura di se stessa e di prendersi cura di noi. Recentemente ho pubblicato un articolo scientifico in cui riassumo l’importanza di proteggere il mondo naturale per migliorare le prospettive delle persone. E quello che ho detto è che dobbiamo cambiare la nostra attitudine, passando dal “salvare la natura da noi stessi” al “servirsi della natura per salvare noi stessi”.
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