Interni / Opinioni
Il mare aperto delle sardine, contro l’idea dell’uomo forte
Il movimento esploso nelle piazze italiane postula un metodo di stare insieme che sente di avere radici e che rifiuta la strumentalità dell’essere social, riscoprendo il senso dell’appartenenza alla comunità. Un uso democratico e orizzontale della Rete è possibile, rifiutando l’ossessiva ricerca del consenso. L’analisi del prof. Alessandro Volpi
Non è facile affrontare il tema delle “sardine” perché si tratta di un movimento appena nato ed esploso con una incredibile rapidità, che rappresenta un’ulteriore dimostrazione della fluidità del quadro politico italiano ormai in costante mutamento tanto da prefigurare uno scenario in cui i punti di riferimento culturali e ideali sono chiari, ma non altrettanto evidenti sono le loro interpretazioni. Una prima, molto generale considerazione, può comunque risultare utile nello sforzo di capirne alcune motivazioni, peraltro almeno in parte espresse nel loro “Manifesto”. Le sardine non sembrano riducibili a un fenomeno di sola protesta né di mera opposizione frontale ad un “nemico” politico. Non sono, in altre parole, assimilabili alle esperienze dei girotondi antiberlusconiani o ai primi passi del Movimento 5 Stelle e alla sua durissima polemica anticasta. È evidente infatti che, pur esprimendo una ruvida critica nei confronti dei populisti a cui si rivolgono nell’incipit del citato Manifesto, insistono sulla necessità di un nuovo metodo di fare politica e soprattutto di stare in una comunità, fondato sulla “non violenza, la creatività e l’ascolto”. In questo senso, la reazione di piazza agli eccessi del linguaggio, dell’aggressività e dell’utilizzo distorto della Rete stanno facendo emergere, o forse riemergere, sentimenti e sensi di appartenenza in grado di dare coscienza ad una collettività che sa che cosa intende rappresentare e non soltanto che cosa aborre.
La pars construens della politica delle sardine è dunque rintracciabile nella ricerca di una dimensione del dibattito pubblico in cui la verità, la complessità, la competenza, la solidarietà e, in ultima analisi, il rasserenamento delle relazioni sono segni distintivi da contrapporre alla rappresentazione immediata e aggressiva di un contesto dove dominano la paura e lo scontro. L’antipopulismo, in una simile ottica, costituisce solo la sintesi espressiva di una più articolata visione delle dinamiche dei rapporti che dovrebbero caratterizzare una società complessa. Come accennato, le sardine postulano prima di tutto un metodo di stare insieme che sente di avere radici e che rifiuta l’artificialità e la strumentalità dell’essere social. Anzi, utilizzano la Rete proprio per dimostrare che la capacità di mobilitazione posseduta da tale strumento può essere intrinsecamente democratica, grazie alla sua capacità di interazione orizzontale, nella misura in cui rifiuta la falsificazione mossa dalla ossessiva ricerca del consenso.
Rispetto ai girotondi e al primo grillismo, le sardine hanno quindi una maggiore attenzione alle forme della comunicazione perché ritengono che proprio il modo in cui viene formulato il messaggio e la maniera in cui viene abitata la Rete siano elementi fondamentali per consentire il formarsi di una comunità dotata dei valori sopra ricordati; si tratta di un processo linguistico promosso dal pensiero senza inflazionare mai la parola per non cadere nell’eccesso della retorica e della pericolosa e inconcludente verbosità. La coesistenza di Rete e piazze è così il modo per mettere in luce la continuità di un linguaggio costruttivo e civile, non necessariamente civico. Proprio questo pare essere, infatti, il secondo aspetto tipico delle sardine: non negano in alcun modo il legame con la politica; non sono antipolitiche ma chiedono esplicitamente alla politica con la “P” maiuscola di elaborare i contenuti su cui potersi misurare, in una sorta di divisione dei ruoli in cui la mobilitazione e la partecipazione diventano l’oggetto di piazze informali, virtuali e reali, mentre la costruzione di programmi e di prospettive definite appartiene alla capacità di analisi e di proposta in capo a rinati e riformati partiti aperti, con una nuova idea di militanza, più impegnativa e al contempo più libera.
I contenuti sono affidati alla “Politica” che deve elaborarli lasciando alle sardine la capacità di risvegliare il senso dell’appartenenza alla comunità, in grado di non cadere nella trappola dell’odio e della banalità. Le sardine contribuiscono, in tale prospettiva, a cambiare la natura dei partiti che devono saper cogliere l’occasione per riassumere il compito di immaginare e di realizzare il futuro, abbandonando le sirene della ricerca del consenso attraverso perenni campagne elettorali, schiacciate sulla quotidianità. Le sardine possono facilitare la nascita di un’opinione pubblica, sollevando i partiti dalle ansie da prestazione e inducendoli a concentrarsi invece sulla creazione di idee e sulla capacità di portarle a termine. Certo, il metodo di questa nuova opinione pubblica delle piazze non sembra conciliabile con forme partitiche o movimentistiche di natura verticistica, dominate da garanti “supremi”, impegnati nel proteggere figure di vertice assai fragili, o con leader votati al culto della personalità tanto da dar vita a partiti personali perché solo nella dimensione collettiva una simile opinione è disposta a riporre fiducia. Forse, così, verrà meno davvero l’idea dell’uomo forte.
Università di Pisa
© riproduzione riservata