L’ultimo colpo grosso di Tronchetti & Co. – Ae 59
Numero 59, marzo 2005L’ex-monopolista di Stato si “mangia” Tim, il primo gestore italiano di telefonia mobile. Un’operazione da 14 miliardi di euro e un valore industriale ancora da chiarire. Dietro, complessi giochi finanziari L’ultimo atto della vicenda Telecom Italia inizia…
Numero 59, marzo 2005
L’ex-monopolista di Stato si “mangia” Tim, il primo gestore italiano
di telefonia mobile. Un’operazione da 14 miliardi di euro e un valore industriale ancora da chiarire. Dietro, complessi giochi finanziari
L’ultimo atto della vicenda Telecom Italia inizia alle 8.30 del 3 gennaio 2005. Il sipario invece è calato alle 17.40 del 21, stesso mese. In quell’intervallo di tempo il gigante della telefonia italiana ha ripreso il controllo totale dell’altro colosso, stavolta della telefonia mobile: Telecom Italia Mobile. Dopo dieci anni l’avventura di Tim -nata nel 1995 dalla scissione dalle attività di telefonia fissa per volere del ministero delle Poste, quando il gruppo era ancora in mano allo Stato- si chiude. La catena di comando sull’ex monopolista si accorcia, allo stesso tempo rafforzandosi nelle mani degli azionisti di riferimento, primo fra tutti il manager-padrone Marco Tronchetti Provera.
Per la precisione, è andata così: tra il 3 e il 21 gennaio Telecom Italia lancia un’offerta pubblica di acquisto (Opa) parziale sulle azioni quotate in Borsa della controllata Telecom Italia Mobile, decisa a rastrellare sul mercato azionario circa il 30% delle azioni ordinarie di Tim (della quale già possedeva il 56%). L’obiettivo è una fusione che farà sparire dalla Borsa l’operatore di telefonia mobile, incorporato a partire dal 30 giugno nella capogruppo. L’offerta prevede il pagamento di 5,60 euro per ogni azione ordinaria di Tim, pagamento che è poi stato effettuato il 28 gennaio con un decoroso “guadagno” rispetto alla quotazione media del periodo. A chi non aderisce all’offerta vengono date in cambio azioni Telecom Italia.
Un’operazione da 14 miliardi di euro che non è passata inosservata, non fosse altro per le decine di pagine pubblicitarie (come quella qui sopra) che dai quotidiani invitavano i piccoli risparmiatori a vendere le proprie partecipazioni di Tim all’ex monopolista.
Non è ancora chiara la valenza industriale dell’operazione, che verrà resa nota col piano industriale all’assemblea societaria di aprile. Il presidente di Telecom Italia, Marco Tronchetti Provera, insiste (dopo averne negato l’importanza fino a pochi mesi fa) sul valore della convergenza tecnologica, per cui telefonia fissa e mobile si avvicinano sempre più, grazie anche al protocollo internet. Unire le due società vuol dire, ragionevolmente, migliorare la struttura produttiva e ridurre i costi (le stime parlano di almeno un miliardo di euro l’anno) grazie a investimenti integrati. Il che può tradursi in vantaggi anche per l’utenza, sia in termini di riduzione delle tariffe (improbabile) che in termini di aumento dell’offerta di servizi (probabile). Una tendenza comune in Europa, dove sia France Telecom che Deutsche Telekom si sono ributtate sulla telefonia mobile. Ma se un valore industriale è evidente, questo riguarda Pirelli, uno dei “proprietari” di Telecom.
Ormai la società -guidata anch’essa da Tronchetti- sta abbandonando il settore industriale (la divisione cavi è in vendita proprio in questi giorni e probabilmente finirà in mani straniere) per concentrarsi definitivamente sulle telecomunicazioni. Settore molto più remunerativo e senz’altro meno rischioso, specie se si può contare sui trascorsi da monopolista. Se l’azienda ne trae beneficio, a farne le spese è il sistema economico italiano, che vede privarsi di un ulteriore pezzo di industria.
Allo stato delle cose però l’operazione Telecom-Tim svela innanzitutto il suo valore finanziario. Incorporare Tim all’interno di Telecom Italia significa poter mettere le mani sui ricchi flussi di cassa dell’operatore mobile, che può contare sulle bollette e le sulle ricariche di 26 milioni di clienti, le quali si traducono per il 2003 in un fatturato di quasi 12 miliardi di euro e utili di oltre 2 miliardi e 300 milioni. Allo stesso tempo la fusione porterà benefici al bilancio. Finora infatti Tim, che non ha debiti finanziari (al contrario di Telecom), non ha potuto contare sulle detrazioni fiscali calcolate previste in questo caso. Un’opportunità di migliorare il bilancio (positiva per Tim, meno per il fisco) che ora potrà essere sfruttata col doppio risultato di pagare meno tasse e di rendere più appetibile la società in Borsa. A proposito di debiti: l’operazione, che si diceva ha un costo di circa 14 miliardi di euro, è stata finanziata quasi per intero da un pool di istituti finanziari, coordinati da JP Morgan. Con questo, Telecom Italia si conferma come una delle compagnie telefoniche più indebitate d’Europa, con oltre 42 miliardi di euro di pendenze finanziarie. Ma il debito dovrebbe ridursi di 3 miliardi di euro l’anno, proprio grazie ai flussi di cassa di Tim. Che è un po’ come dire che Tim è stata comprata coi suoi stessi soldi.
Ma chi controlla oggi l’ex monopolista? Per annullare l’effetto di “diluizione” che l’ingresso di Tim ha portato nella composizione dell’azionariato di Telecom Italia, l’azionista di controllo, la società Olimpia, ha dovuto aumentare il proprio capitale di 2 miliardi di euro. La decisione circa questo aumento è spettata ai soci di Olimpia, quindi innanzitutto Pirelli (cioè Tronchetti Provera), Edizione Holding (cioè la famiglia Benetton: Gilberto è vicepresidente di Telecom Italia), Hopa (del finanziere bresciano Emilio Gnutti). La ricapitalizzazione ha fatto sì che le partecipazioni di Olimpia in Telecom Italia ammontino oggi a oltre il 19%. Se a questo si sommano le partecipazioni che i singoli componenti di Olimpia hanno direttamente in Telecom la percentuale arriva a oltre il 32%. Ovvero: la fusione ha blindato la proprietà di Telecom, mettendo al sicuro la società da eventuali scalate ostili (come quella di Roberto Colaninno del 1999) volte a prenderne il controllo. Sarebbe troppo costoso.
Ma Olimpia è solo l’ultima di una delle tante scatole cinesi che compongono la proprietà di Telecom, o meglio è solo la base di una piramide al cui vertice (passando per Pirelli, Camfin e Gpi) c’è la società familiare di Tronchetti Provera. Attraverso il meccanismo della leva finanziaria, Tronchetti riesce a controllare il gigante telefonico senza averci investito che qualche decina di milioni di euro: con un euro dei suoi Tronchetti muove 5 mila euro altrui. Padrone di una società dove i soldi li mettono gli altri, e con essi i rischi. !!pagebreak!!
Da azienda pubblica a colosso privato
La storia della Telecom cui paghiamo bollette e ricariche parte nel 1992, quando inizia il percorso legislativo che porterà, nel 1994, alla nascita del gestore unico della telefonia italia, Telecom Italia, risultato della fusione di Sip, Italcable, Telespazio, Iritel e Sirm, tutte aziende pubbliche. Nel 1995 la divisione mobile si separa, dando vita a Tim. Il gruppo è controllato da Stet, con la quale si fonde nel 1997 all’inizio del processo di privatizzazione voluto dall’allora primo ministro Romano Prodi. Obiettivo creare una public company, con un nucleo stabile di azionisti (attorno al 6% delle partecipazioni) cui si affianca la massa dei risparmiatori che comprano le azioni dell’ex azienda di Stato. La struttura regge meno di due anni, quando il gruppo Olivetti, guidato da Roberto Colaninno -con la collaborazione del finanziere Emilio Gnutti-, scala la società con un’offerta pubblica di acquisto e scambio, al termine della quale Olivetti controlla il 51% di Telecom attraverso un complesso meccanismo di scatole cinesi, al culmine delle quali c’è la finanziaria Bell, con sede nel Lussemburgo (un paradiso fiscale).
L’acquisto è portato a termine grazie alla vendita di Omnitel e Infostrada da parte di Olivetti e con il benestare del governo (titolare dei una golden share su Telecom) guidato da Massimo D’Alema. La gestione Colaninno va in crisi nel giro di un paio d’anni: il titolo di Telecom crolla, così come quello di Olivetti che è anche oberata di debiti. È a quel punto che la Pirelli di Marco Tronchetti Provera, con il supporto della famiglia Benetton, compra la quota di Olivetti in mano alla Bell, senza ricorrere a un’Opa e lasciando così a bocca asciutta gli azionisti di minoranza. Con una spesa di 7 mila miliardi di lire, a partire dal luglio 2001, Pirelli controlla Olivetti, che a sua volta controlla Telecom e Tim. Solo nel 2003 Telecom Italia verrà fusa in Olivetti, che ne prenderà il nome. In mezzo, l’avventura mai iniziata del terzo polo televisivo, La7, proprietà Telecom, cui Tronchetti tarpa le ali nel 2001, a elezioni concluse.
Banda larga: Fastweb punta al secondo posto
Una fibra da tre miliardi
La fibra ottica logora chi non ce l’ha.
Se anche voi bramate una super connessione internet a banda larga, non può esservi sfuggito l’annuncio che per tutto gennaio ha campeggiato sulle pagine dei quotidiani. “Tra poco 30 milioni di italiani potranno avere la nostra rete.
Una delle più veloci al mondo”: parola di Stefano Parisi, amministratore delegato della milanese Fastweb, che dal 2000 sta “cablando” le nostre città (vedi Ae n. 16, aprile 2001).
La società ha reso noto a metà gennaio il piano industriale per gli anni tra il 2005 e il 2013, nei quali conta di raggiungere 30 milioni di italiani con i propri cavi e i propri servizi: internet veloce, telefonia e video on demand. Ma non solo fibra ottica: nel piano è anche previsto un aumento del servizio Adsl.
L’investimento previsto è di 3 miliardi di euro (tanto quanto investito nei primi quattro anni di vita), coi quali la società fondata da Silvio Scaglia (ex dirigente Omnitel dell’era Olivetti) e Francesco Micheli mira a divenire il secondo operatore di banda larga in Italia, dopo Telecom Italia e il suo Alice Adsl. Entro il 2010 Fastweb spera di poter contare su 2,2 milioni di clienti, che nelle rosee previsioni dovrebbero divenire 2,4 milioni nel 2013, con ricavi per 2,8 miliardi di euro. Per questo la società ha chiesto un aumento del capitale di 800 milioni di euro, parte dei quali saranno offerti al mercato. La maggior parte dei soldi però saranno versati da Deutsche Bank. Fastweb, che il primo di dicembre 2004 è stata incorporata nella finanziaria e.Biscom da cui era controllata, dandole il nome, nel 2004 ha avuto ricavi per 719 milioni di euro, grazie ai quasi 500 mila clienti. A tutt’oggi però non ha raggiunto il pareggio di bilancio (che conta di ottenere nel 2006) perché è in perdita di oltre 120 milioni di euro, e deve far fronte a un debito netto di oltre 820 milioni di euro.
Rispetto all’estensione della propria rete, però, potrà contare sull’aiuto -involontario- di Telecom. Per volontà dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) infatti, dal 2001 l’ex monopolista deve mettere a disposizione ai propri concorrenti (previo compenso) i tubi -detti “cavidotti”- dentro i quali giace inutilizzata la rete in fibra ottica che Telecom aveva iniziato a stendere negli anni ‘90. Si tratta del cosiddetto “Piano Socrate”, che nella formulazione originaria avrebbe richiesto 6,7 miliardi di euro di investimenti per portare in tre anni la fibra ottica in 10 milioni di case di 60 città. Era un progetto faraonico, specie per quegli anni, che in breve si era reso di difficile realizzazione (non giocava a favore neanche la tecnologia, poiché all’epoca la posa di fibra ottica era molto costosa). A fine 1996 le case “passate” (cioè alle quali la fibra ottica arrivava davanti al portone) erano solo un milione. Nel gennaio 1998 si era arrivati a soli due milioni di case. Per questo il progetto è stato abbandonato, anche se in città come Torino, Bari o Trieste la copertura era arrivata anche il 60%.
L’arrivo della tecnologia Adsl ha fatto desistere Telecom dal continuare a investire nella fibra ottica, mentre Fastweb ha trovato così un modo per risparmiare sui costi e sui tempi.
E gli Stati Uniti fanno retromarcia
La telefoni Usa ritorna ai monopoli? Vent’anni sono passati da quando, nel 1984, il colosso monopolistico della telefonia d’oltreoceano Bell (detta “Mother Bell”, o “Ma Bell”), oggi AT&T, venne prima smembrata e poi separata nelle cosiddette sette “baby Bell”.
Allora l’operazione venne fatta in nome della concorrenza nel lucroso mercato della telefonia: la più grande, AT&T, destinata a gestire solo le chiamate a lunga distanza, mentre le “piccole” si sarebbero occupate di telefonate regionali.
Oggi una di queste “sorelle”, la texana Sbc Communications, si è comprata la “mamma” AT&T, con un’operazione da 16 miliardi di dollari (ai quali vanno aggiunti i 6 miliardi di debiti accumulati da AT&T) dalla quale nascerebbe la più grande compagnia telefonica degli Stati Uniti.
Presieduta la Edward Witacre, Sbc è cresciuta parecchio in questi vent’anni: gli affari si estendono dal Texas ad altri 13 Stati americani. Dopo aver comprato negli anni altre “sorelle” (come Ameritech nel 1999 e Pacific Telesis nel 1997) e attraverso Cingular le attività cellulari della stessa A&T, Sbc oggi può contare su un totale di 54 milioni di abbonati su linea fissa. Con l’acquisizione della AT&T, i clienti diventano oltre 80 milioni.